Bruno Forte, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/brunoforte/ Il mondo visto da Roma Tue, 18 Sep 2018 07:27:44 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.8.2 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Bruno Forte, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/brunoforte/ 32 32 Mons. Forte: Una volontà politica unitaria per progresso e giustizia sociale https://it.zenit.org/2018/09/18/mons-forte-una-volonta-politica-unitaria-per-progresso-e-giustizia-sociale/ Tue, 18 Sep 2018 07:27:44 +0000 https://it.zenit.org/?p=112351 La sfida epocale delle migrazioni (Il Sole 24 Ore Domenica 16 Settembre 2018, 1 e 10)

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Nel memorabile discorso, intitolato “La nostra patria Europa”, che Alcide De Gasperi tenne alla Conferenza Parlamentare Europea di Parigi il 21 aprile 1954, il grande Statista affermava: “È la volontà politica unitaria che deve prevalere. È l’imperativo categorico che bisogna fare l’Europa per assicurare la nostra pace, il nostro progresso e la nostra giustizia sociale che deve anzitutto servirci da guida… Tutta la nostra costruzione politico-sociale presuppone un regime di moralità internazionale. I popoli che si uniscono, spogliandosi delle scorie egoistiche della loro crescita, debbono elevarsi anche a un più fecondo senso di giustizia verso i deboli e i perseguitati. Lo sforzo di mediazione e di equità che è compito necessario dell’Autorità europea le darà un nimbo di dignità arbitrale che si irradierà al di là delle sue attribuzioni giuridiche e ravviverà le speranze di tutti i popoli liberi”. Sottolineando l’importanza della scelta morale da porre alla base dell’impegno per “fare l’Europa”, De Gasperi ne evidenziava poi gli scopi ultimi – la pace, il progresso e la giustizia sociale dei popoli -, senza rinunciare con lucido realismo e senso della misura ad evidenziare i limiti delle nuove, ed eventuali future, istituzioni europee: “Per quanto riguarda le istituzioni bisogna ricercare l’unione soltanto nella misura in cui ciò è necessario, o meglio in cui è indispensabile”. Il grande Statista faceva capire che l’anima del progetto europeo non andava imbrigliata in strutture pesanti o meccanismi usuranti. Da uomo di fede profonda qual era, De Gasperi concludeva dicendo: “Preghiamo perché il sogno dei Padri d’Europa raggiunga una sua dignitosa completezza”.
È su questo sogno che gli Europei dovrebbero interrogarsi con coraggio ed onestà oggi più che mai, davanti alla sfida epocale delle migrazioni in corso, rispetto alla quale i Paesi dell’Unione sembrano procedere in ordine sparso, mentre al loro interno le varie anime politiche sono divise nel tracciare gli impegni da assumere e le vie per realizzarli. Robert Schuman, ministro degli Esteri francese ed altro padre fondatore dell’Europa unita, in un’importante dichiarazione, rilasciata il 9 maggio 1950, aveva affermato: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto… La solidarietà di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica. Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace”. Un’Europa priva di senso della mondialità e senza spirito di accoglienza e di integrazione, aperto sulle frontiere del mondo, non avrebbe realizzato nella visione dei grandi Fondatori gli scopi per cui era nata e soprattutto la vocazione più profonda cui è chiamata dalla sua storia, dalla sua cultura e dal suo livello di civiltà. Konrad Adenauer, Cancelliere della Germania occidentale, nata sulle macerie della barbarie nazista, il 25 Marzo 1957 in occasione della firma dei Trattati di Roma, con cui si dava ufficialmente avvio al processo d’integrazione europea, aveva affermato: “La Comunità Europea persegue fini esclusivamente pacifici e non è diretta contro alcuno… Il nostro scopo è di collaborare con tutti onde promuovere il progresso nella pace… Unendosi oggi, l’Europa non serve soltanto i suoi propri interessi e quelli degli Stati che sono in essa compresi, essa serve anche il mondo intero”.
Queste idee dei Fondatori dell’Europa unita hanno ispirato i passi e le realizzazioni di innumerevoli donne e uomini che, accomunati dal sogno della casa comune europea al servizio dell’umanità intera, hanno speso impegno, passione e sacrificio per costruirla. Ad animarli, prima che l’interesse economico, è stato un ideale per cui spendersi e pagare di persona. Ad essi è dovuta la migliore Europa, di cui tutti i cittadini europei dovrebbero sentirsi fieri e per la quale dovrebbero impegnarsi: non l’Europa prigioniera dei poteri forti, assillata dalle esigenze di una stabilità inseguita a volte perfino a scapito delle esigenze dello stato sociale e dello sviluppo, ma l’Europa dei popoli e delle coscienze, nutrita dalle grandi anime che hanno fatto e fanno l’unicità europea, la civiltà greco-latina, la tradizione ebraico-cristiana e la cultura germanica. A questa Europa e alla coscienza morale che ne è a fondamento dovrebbero ispirarsi i nostri politici, quali che siano le loro appartenenze partitiche e le loro convinzioni morali e religiose. Per questo, non è perdonabile a chi ha responsabilità decisionali in materia l’ignoranza del passato, a cominciare da quella circa i testi fondatori e le fonti ispirative del progetto europeo. Lo ricorda Paul Ricoeur in un lucido saggio su “L’Europa e la sua memoria” (Morcelliana, Brescia 2017), dove tra l’altro scrive: “I popoli non possono vivere senza utopia, al pari degli individui senza il sogno. A tal riguardo, l’Europa senza frontiere rigide è un’utopia, proprio perché essa è innanzitutto un’Idea… L’importante è che le nostre utopie siano utopie responsabili: tengano conto del fattibile e dell’auspicabile, vengano a patti non solo con le resistenze spiacevoli della realtà, ma anche con le vie praticabili tenute aperte dalla coscienza storica” (38). La sfida è fra le più serie che l’Europa abbia dovuto affrontare dagli inizi del processo ambizioso della sua unione: su di essa e su come sarà affrontata si misureranno il suo presente e il suo futuro, oltre che la sua effettiva rilevanza nel consesso dei popoli e nella storia dell’umanità.
 
Con una “Lectio magistralis” su “La patria europea nell’era delle appartenenze fluide” Bruno Forte chiude stasera a Conversano la XIV edizione di “Lector in fabula” – Festival di approfondimento culturale”, svoltosi dal 13 al 16 Settembre nella cittadina pugliese. Ne presenta qui alcuni contenuti di particolare attualità, tenendo conto del voto di questi giorni all’Europarlamento sulle sanzioni a Paesi come l’Ungheria, che hanno rifiutato ogni ricollocamento di immigrati in arrivo sul territorio dell’Unione europea.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Forte: Quel grido che sale al cielo https://it.zenit.org/2018/09/03/mons-forte-quel-grido-che-sale-al-cielo/ Mon, 03 Sep 2018 07:56:56 +0000 https://it.zenit.org/?p=112086 L’orrore della pedofilia (Il Sole 24 Ore, Domenica 2 Settembre 2018, 1 e 8)

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La lettera inviata da Papa Francesco al popolo di Dio il 20 agosto scorso e i suoi interventi in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie a Dublino, scanditi da ripetute richieste di perdono per le colpe di pedofilia commesse da alcuni membri del clero, mostrano la sua grandezza morale, il coraggio che ha nel cercare la verità e nell’obbedire ad essa a qualunque prezzo e la fiducia che ripone nell’opera del Signore nella Sua Chiesa, nonostante i limiti e i peccati dei battezzati. Aspetti che risultano tanto più luminosi e credibili se messi a confronto con le critiche avanzate da voci a lui avverse. Per rilevarlo basti citare alcuni passaggi di quanto il Papa ha scritto in riferimento alle vittime degli abusi sessuali, di potere e di coscienza, compiuti da sacerdoti o persone consacrate: “Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità… Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli… È imprescindibile che come Chiesa riconosciamo e condanniamo con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione”.
Queste parole denunziano senza mezzi termini la gravità delle colpe commesse e sottolineano quella non minore di aver coperto tali atrocità da parte di responsabili della vita ecclesiale: proseguendo in particolare l’opera di Benedetto XVI nel fare pulizia all’interno della comunità dei fedeli, Francesco calca la mano sull’abisso inaccettabile del male compiuto e sull’esigenza assoluta di riparazione e di purificazione. Tutto questo non può che suscitare condivisione, ammirazione e fiducia. Due osservazioni mi sembrano però necessarie perché l’azione del Papa sia di stimolo a tutti i livelli, tanto nel popolo di Dio, quanto nell’intera società: la prima è che purtroppo il clero non è la sola categoria in cui una percentuale sia pur bassa di persone ha commesso nefandezze. Stando a statistiche di pubblico dominio il numero degli abusi commessi su minori in differenti ambiti è tragicamente elevato e al primo posto come luogo dove essi avvengono ci sono le mura domestiche, avendo come protagonisti genitori e familiari. Solo dopo una dozzina di categorie di soggetti colpevoli vengono segnalati alcuni membri del clero. Quest’osservazione, che rattrista enormemente, lancia anche un doveroso allarme: chi nella società deve levare la voce e denunciare questo male lacerante, analogamente a come ha fatto il Papa nella Chiesa? Perché non si sentono denunce altrettanto forti e circoscritte? Chi copre l’orrore? Quali meccanismi inducono i media a insistere sulle colpe dei membri della Chiesa e a non evidenziare con altrettanta decisione quelle presenti nella società civile, perfino in ambiti insospettabili come quelli educativi e scolastici? Occorre promuovere un’alleanza in difesa dei più deboli, che coinvolga famiglie, educatori, operatori dei media, “influencer” e “opinion makers” (come oggi vengono chiamati coloro che possono influire sui comportamenti collettivi). Soprattutto, occorre che la nostra società risvegli in sé la vigilanza contro i fenomeni di deterioramento etico e l’impegno a favore del bene morale nei più diversi ambiti di vita. I mali denunciati e quelli che dovranno e potranno esserlo esigono una decisa reazione morale, da cui nessuno deve sentirsi estraneo o esonerato, specialmente se ha a che fare con ragazzi e giovani in ruoli formativi.
Un’ulteriore considerazione va poi tenuta presente: la denuncia del male non deve dimenticare o oscurare il tanto bene che è stato fatto e che continua ad essere quotidianamente operato. Per parlare della Chiesa si pensi all’impegno di ogni giorno di innumerevoli sacerdoti e consacrati, di catechisti ed educatori, di genitori credenti e di intere famiglie, al servizio della formazione e in compiti caritativi e di giustizia sociale ispirati al Vangelo. Il bene, però, si trova anche da tante altre parti: come dice Papa Francesco nell’esortazione “Gaudete et exsultate” sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo (19 Marzo 2018), “anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo” (n. 9). In campo sociale si pensi ai tanti che operano con dedizione e sacrificio nella scuola e nell’università, negli ospedali, nei centri di assistenza per chi ha bisogno, nelle case di accoglienza per anziani e disabili, ed anche a coloro (e vorremmo fossero tanti e sempre di più…) che vivono l’azione politica come servizio generoso e disinteressato al bene comune. A tutti è richiesto l’impegno per far crescere nelle menti e nei cuori la decisione di agire al servizio di chi ha bisogno e per diffondere la convinzione che fare il bene non solo è bene ma fa bene, a sé stessi e all’intera società. La radice di ogni male possibile sta nel sottrarsi a un simile appello. L’inizio di un nuovo domani per tutti sta nel rispondervi senza lentezze o esitazioni.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Forte: Tre sfide: sognare, amare, rischiare https://it.zenit.org/2018/08/20/mons-forte-tre-sfide-sognare-amare-rischiare/ Mon, 20 Aug 2018 15:06:58 +0000 https://it.zenit.org/?p=111909 Il Papa ai giovani (Il Sole 24 Ore, Domenica 19 Agosto 2018, 1 e 7)

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Di fronte alla pesante prova che ha colpito Genova e l’Italia intera col crollo del ponte Morandi e le sue tante vittime, risuona ancor più attuale e importante il messaggio lanciato da Papa Francesco ai circa novantamila giovani, venuti da ogni parte d’Italia ad incontrarlo al Circo Massimo di Roma lo scorso 11 agosto: alle domande senza peli sulla lingua poste dai ragazzi il Papa ha risposto con altrettanta franchezza, coinvolgendoli in una riflessione intensa e appassionante. Tre verbi hanno dominato lo scambio fra i giovani e quest’uomo di ottantadue anni, che ha saputo toccare il loro cuore, sfidandoli in un vero e proprio esercizio di ricerca della verità: sognare, amare, rischiare. A una ragazza delusa perché il professore suo “idolo”, cui aveva chiesto consiglio per il futuro, aveva stroncato ogni suo sogno in nome del primato da dare alla sicurezza economica, Francesco ha detto: “I sogni sono importanti. Tengono il nostro sguardo largo, ci aiutano ad abbracciare l’orizzonte, a coltivare la speranza in ogni azione quotidiana. E i sogni dei giovani sono i più importanti di tutti… I sogni ti svegliano, ti portano in là, sono le stelle più luminose, quelle che indicano un cammino diverso per l’umanità. Ecco, voi avete nel cuore queste stelle brillanti che sono i vostri sogni: sono la vostra responsabilità e il vostro tesoro. Fate che siano anche il vostro futuro! Questo è il lavoro che voi dovete fare: trasformare i sogni di oggi nella realtà di domani. E per questo ci vuole coraggio”. Francesco non rassicura, non ingessa i sogni dei giovani in schemi tranquillizzanti: li lancia, anzi, sulle piste impervie del nuovo da creare, della vita da giocare fino in fondo. “Certo – aggiunge -, i sogni vanno fatti crescere, purificati, messi alla prova e condivisi… I sogni della comodità, i sogni del solo benessere… ti faranno morire! … È triste vedere i giovani sul divano, guardando come passa la vita davanti a loro… I sogni grandi includono, coinvolgono, sono estroversi, condividono, generano nuova vita. E i sogni grandi, per restare tali, hanno bisogno di una sorgente inesauribile di speranza, di un Infinito che soffia dentro e li dilata. I sogni grandi hanno bisogno di Dio per non diventare miraggi o delirio di onnipotenza”.
Proprio così, però, i sogni dei giovani tante volte fanno paura agli adulti, che “smettono di sognare, perché i sogni mettono in crisi le loro scelte di vita”. Di qui l’invito ai giovani: “Cercate maestri buoni capaci di aiutarvi a comprendere i vostri sogni e a renderli concreti nella gradualità e nella serenità… Non smettete di sognare e siate maestri nel sogno…”. Da questo sì al coraggio di sognare deriva l’urgenza di scelte audaci, frutto di vero amore: “Oggi respiriamo un’idea di libertà senza vincoli, senza impegni e sempre con qualche via di fuga…”. Occorre, invece, scegliere la libertà più grande, la libertà dell’amore: “L’amore viene quando vuole… I giovani sanno bene quando c’è il vero amore e quando c’è il semplice entusiasmo truccato da amore… L’amore è la vita e se l’amore viene oggi, perché devo aspettare tre, quattro, cinque anni per farlo crescere e per renderlo stabile? … Nella vita bisogna sempre mettere al primo posto l’amore… L’amore non tollera mezze misure: o tutto o niente”. È un Papa che non ha paura di sfidare i giovani sull’esigenza di mettere al primo posto l’amore e di puntare a mete alte, che diano senso alla vita: “Quando vedi un matrimonio, una coppia di un uomo e una donna che vanno avanti nella vita dell’amore, lì c’è l’immagine e la somiglianza di Dio. Com’è Dio? Come quel matrimonio: tutti e due, insieme, sono immagine e somiglianza di Dio”. Un amore così esige tutto ed è pronto a rischiare tutto: “L’amore è questo: vendere tutto per comprare la perla preziosa… Tutto. Per questo l’amore è fedele. Se c’è infedeltà, non c’è amore; o è un amore malato, piccolo, che non cresce”. Il rischio dell’amore tocca anche la comunità dei credenti. A un giovane che gli parla di una Chiesa, che “sembra sempre più distante e chiusa nei suoi rituali”, segnata da “inutili fasti e frequenti scandali che la rendono ormai poco credibile ai nostri occhi”, Francesco risponde: “A volte le parole, anche se parlano di Dio, tradiscono il suo messaggio d’amore. A volte siamo noi a tradire il Vangelo. Non sempre è così, ma a volte è vero… Se noi cristiani non impariamo ad ascoltare le sofferenze, a stare in silenzio e lasciar parlare e ascoltare, non saremo mai capaci di dare una risposta positiva. E tante volte le risposte positive non si possono dare con le parole: si devono dare rischiando nella testimonianza.” E ha aggiunto una sua testimonianza diretta: “Una volta, un giovane m’ha detto: Io ho un compagno che è agnostico. Mi dica, Padre, cosa devo dirgli per fargli capire che la nostra è la vera religione? Io ho detto: Caro, l’ultima cosa che devi fare è dirgli qualcosa. Incomincia a vivere come cristiano, e sarà lui a domandarti perché vivi così”. Occorre, insomma, liberare l’amore che è dentro di noi per non fermarsi davanti alle prove, anche le più dure, e costruire il domani di cui tutti abbiamo bisogno: “Gesù bussa alla porta, ma da dentro, perché lo lasciamo uscire, perché senza testimonianza lo teniamo prigioniero delle nostre formalità, delle nostre chiusure, dei nostri egoismi, del nostro modo di vivere clericale. E il clericalismo è una perversione della Chiesa. Gesù ci insegna il cammino di uscita da noi stessi, il cammino della testimonianza. Questo è lo scandalo, non uscire da noi stessi per dare testimonianza”. Parole che pesano come macigni e spingono chi crede a rischiare per un amore che sia senza misura e senza paura. Parole che sono arrivate al cuore dei giovani come una promessa e una sfida, cui non potrà sottrarsi chi vorrà vivere una vita che valga la pena e doni la vera gioia…
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Forte: Riconoscersi in Terra Santa https://it.zenit.org/2018/08/07/mons-forte-riconoscersi-in-terra-santa/ Tue, 07 Aug 2018 12:34:04 +0000 https://it.zenit.org/?p=111797 Alle radici di due popoli (Il Sole 24 Ore, Domenica 5 Agosto 2018, 1 e 6)

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Lo scorso 19 Luglio il Parlamento israeliano ha approvato un testo di Legge Fondamentale intitolato “Israele, Stato Nazione del Popolo Ebraico”, il cui primo articolo afferma: “La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato. Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione”. Queste formulazioni hanno un chiaro carattere politico, in particolare perché ribadiscono l’intangibilità di ciò che attraverso la guerra d’indipendenza di settant’anni fa e quella dei sei giorni del 1967 gli Ebrei hanno conquistato come territorio del loro Stato. Per questo motivo hanno suscitato riserve e perplessità nello stesso mondo ebraico, come mostra la presa di distanza del Presidente d’Israele Reuven Rivlin che, incontrando i leaders della minoranza drusa, la più attiva contro la norma, ha ribadito la sua contrarietà alla Legge, specialmente lì dove essa afferma che “il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è un diritto esclusivo del popolo ebraico” e lì dove riformula lo “status” della lingua araba, passata da ufficiale a lingua a statuto speciale. Rivlin ha voluto parlare a tutte le minoranze presenti nello Stato d’Israele aggiungendo: “Non ho dubbi che voi siate uguali a noi da un punto di vista legale e dobbiamo assicurarci che anche voi vi sentiate uguali”.
Gli articoli della Legge approvata hanno, tuttavia, un significato culturale e religioso che non può essere ignorato e che può aiutare a comprenderne in parte le motivazioni, legate alle tante lotte sostenute dal popolo ebraico per giungere alla realtà attuale: questo senso, dalla forte connotazione identitaria, è evocato nei diversi termini usati per indicare la Terra d’Israele nel linguaggio dei tre monoteismi che riconoscono in Abramo il comune “padre nella fede”. Gli Ebrei parlano di “Terra d’Israele”, “Terra promessa” o semplicemente di “Terra” (“Eretz”), accentuando il carattere identitario dell’espressione. I cristiani, sin dall’epoca di Costantino, usano il nome “Terra Santa”, per sottolinearne il significato universale per tutti i credenti delle “religioni del Libro”. L’espressione si trova nel profeta Zaccaria (2, 16: “admat ha-qodesh”, nell’originale ebraico), nell’ambito di una stupenda promessa profetica: “Rallégrati, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te… Il Signore si terrà Giuda come eredità nella terra santa ed eleggerà di nuovo Gerusalemme”. Per l’Islam, poi, Gerusalemme e la roccia del sacrificio d’Isacco sulla spianata del Tempo sono il luogo da cui Maometto è asceso al cielo nel suo sogno profetico. Si comprende, allora, come il riferimento alla Terra Santa evochi l’inestricabile coniugazione di promesse e di attese, di speranze e di dolore, ad essa legate. Scrivono due Autori cristiani, uno francese, l’altro israeliano: “Questa terra è la terra di Dio, ma allo stesso tempo è anche la terra degli uomini. È la terra dove ‘scorrono latte e miele’, ma è anche ‘una terra di lacrime e sangue’. È una terra affascinante per la sua storia umana e divina, attraente per la sua bellezza e la sua diversità, capace di ispirare i più bei canti mistici così come le violenze più sanguinarie” (Alain Marchadour – David Neuhaus, La Terra, la Bibbia e la storia, Jaca Book, Milano 2007, 22s). E aggiungono: “È su questo sfondo concreto che l’alleanza fra Dio e il suo popolo si sviluppa, con il Dio sempre fedele alle sue promesse da un lato, e dall’altro un popolo dalla dura cervice, spesso incostante e infedele” (ib., 20).
Da questi accenni si può comprendere, come scriveva il Card. Carlo Maria Martini nella prefazione al libro citato, l’importanza di ciò che “Terra Santa” viene a significare “per tutti coloro che hanno a cuore la terra della Bibbia, l’avvenire degli Ebrei e dei Palestinesi, e la pace del mondo”. Nei giorni appena trascorsi, durante i quali ho guidato un pellegrinaggio della diocesi a me affidata in quella terra, ho provato a raccogliere alcune impressioni sulla Legge Fondamentale da parte di cristiani tanto arabi, quanto di provenienza ebraica. La constatazione di partenza è comune: gli Ebrei hanno sofferto tanto e convivono ora con un popolo che tanto ha sofferto e soffre a causa loro. Un cristiano di origine ebraica mi ha detto: “Io non credo che ci sarà una soluzione, almeno fino al momento in cui i due popoli non riconosceranno ciascuno nell’altro una presenza permanente e ineliminabile. Non dico che debbano amarsi, ma devono entrambi non negare che l’altro faccia parte del suo presente. Noi siamo lontanissimi da questo obiettivo”. Ha quindi aggiunto: “Il nemico più grande della pace e della giustizia in Terra Santa è la condizione in cui entrambi i popoli credono di potersi sopraffare. Quest’atteggiamento è il più feroce nemico della pace: dal desiderio di vincere l’altro deriva la convinzione di poterlo far sparire. Il muro è il simbolo di questa dura realtà: rappresenta il voluto disinteressamento e la cecità nei confronti della condizione di chi soffre al di là della frontiera”. Il processo di educazione per un confronto pacifico sarà, dunque, lungo e la presenza cristiana non potrà sottrarsi allo sforzo di fare da “ponte” tra le due parti, sostenendo un confronto sano e stimolante. Tutto questo chiederà forza morale, disponibilità al sacrificio e coraggio per attivare processi efficaci di riconciliazione. Rinunciare a questo sogno significherebbe, però, abbandonare ogni prospettiva di pace: è quanto hanno ricordato al mondo nelle loro visite pastorali in Terra Santa Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco. Quando saranno pronte le parti in conflitto ad accettare la verità esigente di questo appello? E la Legge fondamentale appena approvata, con l’assolutezza delle sue pretese identitarie, rischia di essere un ulteriore ostacolo su questo cammino indispensabile per tutti.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Forte: L’unione delle Chiese per la pace https://it.zenit.org/2018/07/23/mons-forte-lunione-delle-chiese-per-la-pace/ Mon, 23 Jul 2018 09:38:14 +0000 https://it.zenit.org/?p=111655 Giornata ecumenica di Bari (Il Sole 24 Ore, Domenica 22 Luglio 2018, 1 e 10)

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            La giornata ecumenica svoltasi il 7 luglio scorso a Bari è stata voluta da Papa Francesco con l’intento di unire nella preghiera per la pace in Medio Oriente, oltre che nel dialogo sulla drammatica situazione dei conflitti in corso in quell’area, i rappresentanti delle Chiese Ortodosse, della Chiesa Assira d’Oriente, delle Chiese Orientali Cattoliche, della Chiesa Latina di Gerusalemme, della Chiesa Evangelica Luterana in Giordania e nella Terra Santa e del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente. La rilevanza storica di questo incontro è stata evidenziata da più parti, non solo per la novità dell’iniziativa presa dal Vescovo di Roma e per la scelta di un luogo così significativo per le relazioni fra Oriente cristiano e Occidente qual è Bari, dove il culto alle reliquie di San Nicola attira pellegrini da ogni parte del mondo e specialmente dall’Ortodossia, ma anche per l’adesione di tanti Capi di Chiese non in piena comunione con Roma. Fra i significati dell’incontro, vale la pena di sottolinearne alcuni per la portata che hanno per i credenti in Cristo e per l’intera famiglia umana: l’affermazione implicita che il cristianesimo non si identifica con l’Occidente; la possibilità che il primato del vescovo di Roma, esercitato nel rispetto della dignità delle Chiese d’Oriente, sia recepito da tutti i cristiani quale espressione di una visione comune sulle grandi questioni dell’umanità, oltre che come segno e strumento di un’unità vissuta sul modello della “sinodalità” esistente fra le Chiese del primo millennio; la testimonianza efficace del fatto che la fede nel Dio fatto uomo non è spiritualismo disincarnato.
Che il cristianesimo non si identifichi con l’Occidente e che la cattolicità non possa far a meno del patrimonio di fede e di pensiero maturato dalle Chiese d’Oriente, è un dato decisivo, su cui ha insistito Giovanni Paolo II, il Papa slavo, profondamente sensibile alla dignità dei credenti dell’Europa dell’Est. Nell’Enciclica “Orientale lumen”, pubblicata nel 1995, il Pontefice polacco evidenziava come l’intera ecumene cristiana sia debitrice alle Chiese d’Oriente di un contributo straordinario, riconoscibile nel senso profondo e nella cura per la tradizione apostolica, nella centralità della liturgia, nella forte attenzione all’opera dello Spirito Santo, nella testimonianza spirituale del monachesimo e nell’attitudine apofatica della riflessione e della prassi credente. Queste costanti hanno caratterizzato la vita delle Chiese ortodosse anche nei processi di rinnovamento da esse vissuti nel XX secolo, a cominciare dalla loro partecipazione rilevante al movimento ecumenico. È grazie a questi processi che si è potuti giungere nel 2015 al cosiddetto “Documento di Chieti”, sottoscritto dai rappresentanti cattolici e di tutte le Chiese ortodosse, che riconosce nella comunione sinodale della Chiesa antica un modello cui ispirarsi per l’unità cui tende il cammino ecumenico: «Per tutto il primo millennio, la Chiesa in Oriente e in Occidente fu unita nel preservare la fede apostolica, mantenere la successione apostolica dei vescovi, sviluppare strutture di sinodalità inscindibilmente legate al primato, e nella comprensione dell’autorità come servizio d’amore. Sebbene l’unità tra Oriente e Occidente sia a volte stata complicata, i vescovi di Oriente e Occidente erano consapevoli di appartenere alla Chiesa una» (n. 20).
Di questa comunione possibile intorno al ministero del Vescovo di Roma la giornata di Bari è stato segno eloquente e, se è merito di Francesco l’averla proposta, non minore è il merito delle Chiese ortodosse nell’aver accolto l’invito: la presenza dei loro rappresentanti ai livelli più alti intorno al Vescovo di Roma, a cominciare da quella del Patriarca ecumenico Bartolomeo, ha detto al mondo che il cammino dell’unità avanza e che quanto sembrava impossibile fino a ieri va diventando realtà sotto l’azione dello Spirito e nel comune impegno al servizio della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato. Emerge poi dall’incontro il messaggio che la fede dei cristiani non è spiritualismo disincarnato, ma chiave per leggere gli eventi della storia e intervenire in essi con giudizi e atti ispirati al Vangelo per la pace e la vita di tutti. Con parole significative Francesco riassume il messaggio che da Bari viene ai credenti e al mondo intero: “Ci siamo aiutati a riscoprire la nostra presenza di cristiani in Medio Oriente, come fratelli. Essa sarà tanto più profetica quanto più testimonierà Gesù Principe della pace. Egli non impugna la spada, ma chiede ai suoi di rimetterla nel fodero. Anche il nostro essere Chiesa è tentato dalle logiche del mondo, logiche di potenza e di guadagno, logiche sbrigative e di convenienza… Sentiamo di doverci convertire ancora una volta al Vangelo, garanzia di autentica libertà, e di farlo con urgenza ora, nella notte del Medio Oriente in agonia. Come nella notte angosciosa del Getsemani, non saranno la fuga o la spada ad anticipare l’alba radiosa di Pasqua, ma il dono di sé a imitazione del Signore… L’arte dell’incontro prevalga sulle strategie dello scontro, all’ostentazione di minacciosi segni di potere subentri il potere di segni speranzosi: uomini di buona volontà e di credo diversi che non hanno paura di parlarsi, di accogliere le ragioni altrui e di occuparsi gli uni degli altri. Solo così, avendo cura che a nessuno manchino il pane e il lavoro, la dignità e la speranza, le urla di guerra si muteranno in canti di pace”.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Forte: Un bisogno nuovo di religione https://it.zenit.org/2018/07/09/mons-forte-un-bisogno-nuovo-di-religione/ Mon, 09 Jul 2018 11:07:12 +0000 https://it.zenit.org/?p=111546 Ritorno del sacro (Il Sole 24 Ore, Domenica 8 Luglio 2018, 1 e 6)

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C’è un nuovo bisogno di religione. La constatazione emerge da più parti: inchieste sociologiche, riflessioni filosofiche, analisi dei processi storici in atto. Finito il tempo delle ideologie intese come risposta totalizzante alla ricerca umana di giustizia per tutti, constatata la “caduta degli dèi”, di quegli idoli del potere, dell’avere e del piacere, che il consumismo e l’edonismo avevano esaltato come surrogato di un Dio dichiarato inutile, torna il bisogno di un orizzonte ultimo, assoluto, capace di unificare i frammenti del tempo e dell’opera umana in un disegno in grado di motivare la passione e l’impegno. È soprattutto a questo livello che la domanda religiosa riemerge potentemente: tutti abbiamo bisogno di dare un senso a ciò che siamo, a ciò che facciamo, e se si sommano i sensi possibili di tutte le scelte e le azioni vissute senza unificarli in un senso ultimo, la domanda resta inappagata. Interrogarsi sul senso ultimo significa, però, porsi la domanda che è alla base della religione: “Qualunque cosa sia la religione – scrive Sergio Givone nel suo ultimo libro Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione (Solferino, Milano 2018) – di essa si deve dire che «è» e non solo che «è stata». Al contrario, sono state le ideologie che ne avevano decretato la fine prossima, in particolare marxismo e neo-illuminismo, a mostrarsi del tutto inadeguate a comprendere il fenomeno religioso… È accaduto che proprio la scienza, in particolare la fisica, rilanciasse le grandi questioni della metafisica… e quando si sono cercate le parole per uscire dalle secche di un pensiero unico e omologante, le si è chiesto in prestito alla religione” (p. 16).
Tra le ragioni possibili per spiegare questo “ritorno del sacro” e, ancor più, la ricerca del Volto di un Dio personale, vorrei evidenziarne tre: la domanda sul dolore, il bisogno d’amore e l’interrogativo del futuro. La sofferenza è l’esperienza umana universale, da cui nasce l’urgenza di scorgere un orizzonte ultimo che sia meta e patria. Dio si offre al dolore come Volto che spezza la catena dell’eterno ritorno e restituisce dignità alla fatica di vivere, motivando il giudizio su quanto facciamo, l’apprezzamento del bene e il rifiuto del male. Anche l’agnostico che non si pronuncia sull’esistenza di Dio non può non. valutare le proprie scelte fondamentali su valori che le rendano degne e giustifichino lo sforzo da esse esigito. Senza l’ipotesi Dio il male resta sfida senza risposta e la fatica di sostenerne il peso appare insopportabile e vana. Se è il dolore a porre la domanda su Dio, non di meno è l’amore l’esperienza vitale in cui il bisogno religioso si affaccia più forte. Unicamente amando acquista significato la fatica dei giorni: se quando ti alzi al mattino hai qualcuno da amare e per cui puoi offrire tutto ciò che ti aspetta, la tua giornata ha un senso che la rende meritevole di essere vissuta. Dove non c’è amore, il grigiore della noia viene a fasciare tutte le cose. Ora, nasce all’amore solo chi si sente amato: sin dal primo istante di chi viene all’esistenza il tu cercato è quello di un volto amoroso, materno-paterno, capace di accogliere, custodire, nutrire la vita. Siamo sin dall’origine mendicanti di amore e non ci realizzeremo se non sentendoci amati e imparando ad amare. La religione sa che Dio è la fonte di un amore mai stanco, in grado di fondare un sempre nuovo inizio, di illuminare ogni cosa, di farti sentire prezioso ai suoi occhi e perciò candidato all’eterno che vinca il dolore e la morte precisamente per la forza di un amore più grande. Il messaggio del Nuovo Testamento ha saputo dirlo nella maniera più densa e concreta: “Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati… E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui” (1 Gv 4, 8-10 e 16). Se hai incontrato questo amore, anche il futuro non ti apparirà più nel segno del nulla vorace che tutto aspetterebbe, ma come possibilità aperta proprio dall’amore e dal suo tendere all’eterna vittoria sulla morte. “Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3,13): chi ama, invece, riconosce valore alla vita e sa di poter trionfare sul nulla per vivere patti d’amore vittoriosi d’ogni fine, garantiti dal Dio che ama da sempre, per sempre. Si comprende, allora, come la causa dell’uomo sia inseparabile dalla causa di Dio: dare alla vita senso – e un senso vittorioso della morte – è la condizione per volersi ed essere pienamente umani. Perciò la religione è più che mai attuale: lungi dal porsi come il concorrente dell’uomo, il Dio che è amore offre a ciascuno di noi questo senso, chiamandoci a una vita pienamente vissuta, spesa con amore e per amore, tale da anticipare nella ferialità dei giorni la bellezza della domenica che non avrà tramonto. Cercare il Suo Volto nella notte della fede è fonte di luce e di pace. Incontrarlo nella pienezza della visione sarà immergersi nell’amore vittorioso. Ce lo ricorda una frase di San Giovanni della Croce, il mistico della “noche oscura”, previa all’incontro con l’Amato, che attende e che perdona: “A la tarde de la vida te examinarán en el amor” – “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore”.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Bruno Forte: "Lo slancio vitale del Maggio ‘68" https://it.zenit.org/2018/06/25/mons-bruno-forte-lo-slancio-vitale-del-maggio-68/ Mon, 25 Jun 2018 09:03:34 +0000 https://it.zenit.org/?p=111224 Fra storia e futuro (Il Sole 24 Ore, Domenica 24 Giugno 2018, 1 e 6)

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Sono passati cinquant’anni dal “maggio francese”, quel fatidico mese del 1968 attraversato in Francia da un vasto insieme di movimenti di rivolta sociale, politica e ideologica, indirizzati contro la società tradizionale, il capitalismo, l’imperialismo e, in prima battuta, il potere “gollista” allora dominante. Dalla gioventù studentesca di Parigi la rivolta si estese al mondo operaio e a molte altre categorie, al punto da poter ritenere gli eventi del ’68 come il più importante movimento sociale della Francia del XX secolo. Motivo ispiratore fu la contestazione di ogni tipo di autorità, in nome di una totale liberalizzazione dei costumi e contro le logiche dominanti della tradizione. Che cosa resta di tutto questo cinquant’anni anni dopo? C’è chi risponde tracciando un bilancio solo negativo, perché vede in quella stagione l’inizio del processo che avrebbe fatto degenerare il valore della libertà in anarchia. Per altri il movimento nato per combattere il conformismo ha finito per crearne un altro ancor più soffocante. Per molti è e resta innegabile l’importanza delle istanze emerse in quegli anni, tanto nell’ambito dell’educazione quanto in quelli del lavoro, della famiglia, della relazione tra le generazioni, sullo sfondo di una vasta voglia di rivalsa e di protagonismo delle classi sociali più deboli. Quale che sia la valutazione che se ne offre, il ’68 ha rappresentato una tappa fondamentale per il cambiamento non solo della Francia, dando impulso alla vasta stagione della rivendicazione dei diritti.
Tutti i processi accennati sono avvenuti grazie ad un’intensa partecipazione collettiva, caratterizzata da slogans di grande forza evocativa: fra questi uno – “l’imagination au pouvoir” – ha inciso particolarmente sul lascito culturale del ’68. Vi si esprimeva la tensione a mettere in crisi una società bloccata, ingiusta, autoritaria e disuguale, manifestando, al tempo stesso, l’urgenza di avviare un nuovo inizio, operando anche un raccordo tra la vita personale e quella politica, perché il cambio delle strutture fosse propedeutico a un diverso modo di vivere. Emergevano la domanda di felicità, la centralità dei desideri, l’affermazione dell’autodeterminazione. In tutto dominava una carica utopica legata al primato dell’ideologia, alle “passioni forti”, alla voglia di prendere posizione, in confronto alla quale l’attuale stagione post-ideologica appare caratterizzata da malessere, passioni tristi, eterno scontento, rivendicazione impotente, assenza di vasti orizzonti. Il lascito culturale più profondo che deriva alla nostra società dal ’68 è, tuttavia, la messa in discussione non soltanto di questa o quella autorità, ma del principio stesso di autorità, come pure il processo di presa di distanza e di disaffezione dalle istituzioni e dalla tradizione, uniti all’importanza attribuita alla dimensione individuale della vita. Contro il conformismo, si esalta l’esperienza personale: si parla di “epoca dell’autenticità”, tesa a modificare ampiamente modi di vivere, credenze e rapporti sociali.
Il processo allora avviato ha avuto rilevanti ripercussioni anche in campo religioso, sia in rapporto alle istituzioni del sacro, in particolare alla Chiesa, sia nel modo in cui sono interpretate l’istanza religiosa e la dimensione spirituale della vita. Emerge il no a una fede imposta o ereditata passivamente. Il disaccordo con l’etica sessuale predicata dalle Chiese, ampiamente diffuso, si unisce al rigetto della funzione disciplinante della religione. Crescono il fenomeno dell’ateismo e dell’indifferenza religiosa e, al tempo stesso, si va delineando una ricerca spirituale alternativa, che coinvolge anche le comunità religiose più consolidate. Va crescendo il senso di solitudine e di non appartenenza dell’individuo, la percezione di uno smarrimento generale, il bisogno di un’àncora cui aggrapparsi. È qui che il fascino del cristianesimo, come religione della libertà e inseparabilmente dell’appartenenza al popolo di Dio, continua ad esercitarsi, tanto più che in molti il rifiuto della tradizione si è unito alla nostalgia delle certezze passate, l’abbandono alla ricerca inquieta, l’abbattimento degli idoli al bisogno di figure carismatiche con cui identificarsi. Resta viva la sfida di una stagione che è stata ed è opportunità singolare per una possibile rinascita del nostro Occidente, unita a uno slancio di nuova evangelizzazione da parte dei credenti, a cinquant’anni da una contestazione ancora feconda di orizzonti inediti, nonostante tutto. Una prova di questa vitalità può essere colta nelle parole e nei gesti di Papa Francesco, il cui impegno per l’autenticità e lo stile di una “Chiesa in uscita” recepisce tante delle istanze del ’68. Lo testimonia, ad esempio, quanto ha detto a Ginevra il 21 Giugno scorso al Consiglio Mondiale delle Chiese, invitando tutti i cristiani al cammino coraggioso del rinnovamento: “Il cammino è metafora che rivela il senso della vita umana, di una vita che non basta a sé stessa, ma è sempre in cerca di qualcosa di ulteriore… Occorre rinunciare a tante strade per scegliere quella che conduce alla meta e ravvivare la memoria per non smarrirla… Camminare richiede l’umiltà di tornare sui propri passi, quando è necessario, e la cura per i compagni di viaggio, perché solo insieme si cammina bene. Camminare, insomma, esige una conversione continua di sé”. Si potrebbe forse parlare di un nuovo ’68, all’insegna del Vangelo e del primato della carità.
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Bruno Forte: Una finanza al servizio dell’economia reale https://it.zenit.org/2018/06/11/mons-bruno-forte-una-finanza-al-servizio-delleconomia-reale/ Mon, 11 Jun 2018 09:46:06 +0000 https://it.zenit.org/?p=110973 Etica e mercati (Il Sole 24 Ore, Domenica 10 Giugno 2018, 1 e 10)

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“Oeconomicae et pecuniariae quaestiones” – Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario è il titolo di un importante documento della Congregazione per la Dottrina della Fede e del Dicastero vaticano per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, pubblicato con la data del 17 maggio 2018. Il testo parte dalla costatazione della rilevanza sempre maggiore delle tematiche economiche e finanziarie nella vita quotidiana, “a motivo del crescente influsso esercitato dai mercati sul benessere materiale di buona parte dell’umanità”. Da qui deriva il bisogno di un’adeguata regolazione delle loro dinamiche, connessa ad una doverosa fondazione etica, “che assicuri al benessere raggiunto quella qualità umana delle relazioni che i meccanismi economici, da soli, non sono in grado di produrre” (n. 1). Senza un adeguato ordine etico, “l’arbitrio e l’abuso del più forte finiscono per dominare sulla scena umana” (n. 3). La verifica storica di questa convinzione è evidente: con la crescita del benessere economico globale nella seconda metà del XX secolo sono aumentate le disuguaglianze tra i vari Paesi e al loro interno, mentre “continua ad essere ingente il numero delle persone che vive in condizioni di estrema povertà” (n. 5) e aumenta il numero degli scartati e degli esclusi. Diventa perciò urgente “elaborare nuove forme di economia e finanza, le cui prassi e regole siano rivolte al progresso del bene comune e rispettose della dignità umana” (n. 6). Il Documento intende contribuire a questo scopo muovendosi nel solco dell’insegnamento sociale della Chiesa, secondo cui l’economia “ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 45).
Nella prospettiva di questa concezione etica un principio chiave è il no all’assolutizzazione del profitto, inteso come pura e semplice ottimizzazione dei guadagni pecuniari: nella trasmissione di beni fra persone vi è in gioco sempre più che qualcosa di materiale, “dato che i beni materiali sono spesso veicolo di altri beni immateriali, la cui concreta presenza o assenza determina in modo decisivo anche la qualità degli stessi rapporti economici (ad esempio fiducia, equità, cooperazione…)” (n. 9). In questa linea il testo arriva ad affermare che “nessun profitto è legittimo quando vengono meno l’orizzonte della promozione integrale della persona umana, della destinazione universale dei beni e dell’opzione preferenziale per i poveri” (n. 10). Ogni progresso del sistema economico va allora misurato “sulla base della qualità della vita che produce e dell’estensione sociale del benessere che diffonde, un benessere che non si può limitare solo ai suoi aspetti materiali” (ib.) e che va valutato con criteri ben più ampi della sola produzione interna lorda di un Paese (PIL), riferendosi anche a parametri quali la sicurezza, la salute, la crescita del “capitale umano”, la qualità della vita sociale e del lavoro. “Tutto ciò rende quanto mai urgente una rinnovata alleanza, fra agenti economici e politici, nella promozione di ciò che serve al compiuto sviluppo di ciascuna persona umana e della società tutta, coniugando nel contempo le esigenze della solidarietà con quelle della sussidiarietà” (n. 12). Con realismo il Documento osserva come “quel potente propulsore dell’economia che sono i mercati non è in grado di regolarsi da sé: infatti essi non sanno né produrre quei presupposti che ne consentono il regolare svolgimento (coesione sociale, onestà, fiducia, sicurezza, leggi…), né correggere quegli effetti e quelle esternalità che risultano nocivi alla società umana (disuguaglianze, asimmetrie, degrado ambientale, insicurezza sociale, frodi…)” (n. 13). In questa luce la minaccia che l’industria finanziaria condizioni l’economia reale fino a dominarla è tutt’altro che aleatoria: analogamente, va considerato immorale il processo per cui “la rendita da capitale insidi ormai da vicino e rischi di soppiantare il reddito da lavoro”, con la conseguenza che “il lavoro stesso, con la sua dignità, non solo divenga una realtà sempre più a rischio, ma perda altresì la sua qualifica di bene per l’uomo, trasformandosi in un mero mezzo di scambio all’interno di relazioni sociali rese asimmetriche” (n. 15). L’attività finanziaria, insomma, deve essere al servizio dell’economia reale, creando valore con mezzi moralmente leciti e favorendo “una smobilitazione dei capitali allo scopo di generare una circolarità virtuosa di ricchezza. Assai positive in tal senso, e da favorire, sono realtà quali il credito cooperativo, il microcredito, così come il credito pubblico a servizio delle famiglie, delle imprese, delle comunità locali e il credito di aiuto ai Paesi in via di sviluppo” (n. 16). Nell’attuale globalizzazione del sistema finanziario, allora, diventa urgente “un coordinamento stabile, chiaro ed efficace, fra le varie autorità nazionali di regolazione dei mercati, con la possibilità e, a volte, anche la necessità di condividere con tempestività delle decisioni vincolanti quando ciò sia richiesto dalla messa in pericolo del bene comune. Tali autorità di regolazione devono sempre rimanere indipendenti e vincolate alle esigenze dell’equità e del bene comune” (n. 22). Un compito che – se fosse assunto dall’Unione Europea – potrebbe renderla certo ben più vicina al sogno dei suoi Padri fondatori…
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Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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Mons. Forte: "Crimini e pene" https://it.zenit.org/2018/05/28/mons-forte-crimini-e-pene/ Mon, 28 May 2018 06:00:17 +0000 https://it.zenit.org/?p=110701 La strage di Capaci, la punizione e la speranza (Il Sole 24 Ore, Domenica 27 Maggio 2018, 1 e 7)

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L’anniversario della strage di Capaci, in cui un barbaro attentato uccise il magistrato antimafia Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta (23 Maggio 1992), rende quanto mai significativa e attuale la riflessione proposta in un libro appena uscito, intitolato “La speranza oltre le sbarre. Viaggio in un carcere di massima sicurezza” (San Paolo, Cinisello Balsamo 2018). Lo hanno scritto a quattro mani la giornalista Angela Trentini e il teologo Maurizio Gronchi, riportando interviste agli assassini dei giudici Livatino, Falcone e Borsellino e dando spazio al confronto con i familiari di quelle vittime. Il titolo è anche l’invito a un viaggio, di certo non comodo e tuttavia a mio giudizio prezioso, nel passato recente della nostra comunità civile, per favorire la presa di coscienza su come essa abbia troppo spesso rimosso col silenzio e l’oblio eventi e ferite che non andavano dimenticati. Al tempo stesso, scorrendone le pagine si comprende come troppe volte si sia voluta più una giustizia vendicativa che non una pena riabilitativa, tale cioè da condannare con fermezza il male, ma al tempo stesso offrire a chi lo ha commesso la possibilità di prenderne coscienza, di aprirsi a percorsi di pentimento e di nutrire, nonostante tutto, una speranza per il suo futuro. Quest’apertura al domani è semplicemente negata dalle sbarre delle celle in cui il colpevole si trova rinchiuso senza spiraglio alcuno di un possibile fine pena o di misure alternative di riabilitazione (secondo quel che significa l’ergastolo “ostativo”). Sono drammatiche alcune affermazioni dei detenuti intervistati: “La pena di morte in Italia non esiste, ma la morte di pena sì” (18). Dolorosa la costatazione dell’intervistatrice: “La pena più crudele, per chi è dietro le sbarre, è che … per il mondo di fuori non si esiste. Si scompare quando si avverte di non contare più nulla per nessuno” (36s). Fortissimo il richiamo etico che si alza da una delle vittime più luminose, il giudice Rosario Livatino: “Il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio… Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili” (47). La testimonianza di un giornalista siciliano, Enzo Gallo, rileva come il sacrificio del giovane Giudice non sia stato vano: “I valori di cui era portatore sono diventati patrimonio… di tanti, con un effetto moltiplicatore e a cascata, imprevedibile ed incredibile” (50). È questo il vero senso della battaglia contro la mafia: annientarne la forza nelle coscienze, mostrarne il vuoto morale, la cieca stupidità, l’avidità insensata e alla fine distruttiva per tutti, offrendo al contempo esempi del bene e della sua fecondità. Il male non solo è tale, ma fa male e lascia un solco indelebile, come osservano gli autori in rapporto ai detenuti intervistati: “Nessuno sembra potersi liberare dal ricordo del male” (66).
Fra le indicazioni più significative che emergono dalle storie di vita raccolte nel libro, ce n’è una che mi pare decisiva: i fiori del male spuntano dove c’è un “humus” fecondo per la loro coltivazione. Quando sei stato formato da un modello educativo sbagliato, fare il male ti appare addirittura un bene: “Una coscienza sorda e impacchettata dentro le proprie convinzioni e che si basa su una falsa consapevolezza fa sentire «giusti» e dunque incapaci di intraprendere percorsi interiori per cambiare” (75). “In certi contesti il destino dei figli è di essere attori di un copione già scritto” (77). Perciò, accompagnare il colpevole a prendere coscienza delle radici del male compiuto e a rifiutarle per dare nuovo senso alla vita e alle azioni è quanto di più importante e utile deve fare la giustizia in una società fondata sul diritto e sulla dignità della persona: “Non cerco sconti – afferma uno dei detenuti intervistati -, chiedo soltanto di essere accolto e accompagnato” (82). Perché – commentano gli Autori – “anche dietro le sbarre si può accendere un bagliore che permette di vedere oltre e di essere visti” (78). Alla domanda “esiste una via per la quale la coscienza matura e giunge alla verità di sé e degli altri?” (84), una democrazia autentica deve poter rispondere di sì, impegnandosi a indicare questa via. Sul piano umano – constatano gli Intervistatori – avviene non di rado che “la solitudine e i legami recisi sospingano il detenuto a cercare dentro di sé quello spazio di libertà in cui divenire creativo”, mente lo sguardo della fede riconosce che “la grazia di Dio ha la capacità di scavare fiumi sotterranei anche nelle vite perdute, di aprirsi percorsi nei terreni più accidentati, di fiorire nel deserto” (86). Così, “la pittura, l’artigianato e il teatro, soprattutto in carcere, aprono la mente al bello e la via della bellezza è uno dei possibili itinerari, forse quello più attraente e affascinante, per raggiungere anche in carcere la serenità e avvicinarsi un po’ a Dio” (89). Afferma uno dei detenuti: “Attraverso i dipinti esprimo ricordi e desideri. Sogno una vita migliore e qui in carcere sognare è una grande risorsa” (90). Un altro dice: “Che senso ha continuare a vivere se non c’è nessuna speranza di salvezza?” (94). Ancora un altro constata: “Anche noi conserviamo l’umanità e abbiamo la possibilità di cambiare. Sono un condannato all’ergastolo e non ho nessuna prospettiva di reinserimento e dunque nessun motivo di sperare per un futuro diverso. Ma allora perché mi si tiene in vita? Non è questa una condanna a morte? … La pena perpetua senza possibilità di revisione mi ha già ucciso” (97). La sfida diventa quella di pensare forme di pena che possano aprire a una reale riabilitazione, costruita a partire dal riconoscimento della dignità di ogni persona umana, anche se colpevole di atroci delitti: “La dignità ci precede… Non proviene dall’agire bene o male. Per questo nessuno ha il diritto di toglierla neppure al peggior criminale impenitente” (103). Affermava Papa Francesco il 17 gennaio 2017: “Mi pare urgente una conversione culturale, dove non ci si rassegni a pensare che la pena possa scrivere la parola fine sulla vita; dove si respinga la via cieca di una giustizia punitiva e non ci si accontenti di una giustizia solo retributiva; dove ci si apra a una giustizia riconciliativa e a prospettive concrete di reinserimento; dove l’ergastolo non sia una soluzione ai problemi, ma un problema da risolvere” (106). Perché, concludono gli Autori di questo libro – testimonianza, credibile e avvincente, “un uomo può cambiare, può essere diverso, anche quando si è lasciato alle spalle una lunga scia di sangue” (130). Come afferma l’Apostolo Paolo, bisogna “vincere il male con il bene” (Rom 12,21), nella certezza che nessun male potrà sconfiggere un altro male.
Il libro sarà presentato l’8 Giugno alle ore 16,00 nell’Auditorium del Rettorato dell’Università G. d’Annunzio a Chieti, da Giovanni Legnini, Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale Antimafia, il Rettore Magnifico dell’Università Sergio Caputi e l’Arcivescovo di Chieti-Vasto Bruno Forte. Saranno presenti gli Autori.

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Mons. Bruno Forte: Resistenza in Abruzzo https://it.zenit.org/2018/05/02/mons-bruno-forte-resistenza-in-abruzzo/ Wed, 02 May 2018 11:47:02 +0000 https://it.zenit.org/?p=110315 Quello spirito per il bene del Paese (Il Sole 24 Ore, Domenica 29 Aprile 2018, 1 e 14)

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Il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha voluto celebrare in Abruzzo il 73° anniversario della liberazione dell’Italia dall’oppressione nazi-fascista per commemorare il contributo decisivo dato ad essa dalla Brigata Maiella nel luogo dove venne fondata, Casoli, mettendo così in rilievo “le pagine di storia, non sempre adeguatamente sottolineate e conosciute, scritte dalla Resistenza nel Mezzogiorno d’Italia”. La peculiarità di questa restituzione della memoria mi sembra sia stata l’evidenziazione dell’epopea di un popolo, che rende per certi aspetti unico il cammino della liberazione partito dalle montagne abruzzesi: mentre la guerra, combattuta per anni in fronti lontani, irrompeva drammaticamente nel territorio italiano, “l’Abruzzo, con i suoi abitanti, visse una vera epopea, tragica e insieme eroica, diventando – insieme alle aree limitrofe – il teatro di operazioni belliche di primaria importanza per le sorti della guerra… Tra queste montagne, alte e innevate, sulle pendici del Gran Sasso, nelle valli della Majella, tra i paesi e i borghi d’alta quota, nacquero spontaneamente nuclei del movimento di Resistenza al nazifascismo. I primi in Italia. Tra essi vi erano intellettuali, contadini e pastori, militari tornati dal fronte, carabinieri. C’erano antifascisti di lungo corso ed ex militanti fascisti, che si sentivano delusi e traditi. C’era tanta gente semplice, decisa a difendere il proprio territorio dai saccheggi e dalle prepotenze. La riconquista della libertà e dell’onore ne costituiva l’elemento unificante”. Il Presidente ha anche evidenziato come a motivare i protagonisti di quell’epopea non fu anzitutto un’ideologia, ma il senso di appartenenza alla nostra comunità nazionale e l’amore per la sua dignità: “Non fu, dunque, per caso, che gli uomini della Brigata Maiella scelsero per sé stessi il nome di patrioti. La stessa denominazione dei giovani che rischiavano la morte in nome dell’Unità di Italia. La Resistenza fu un movimento corale, ampio e variegato, difficile da racchiudere in categorie o giudizi troppo sintetici o ristretti. A lungo è stata rappresentata quasi esclusivamente come sinonimo di guerra partigiana, nelle regioni del Nord d’Italia o nelle grandi città… ed è giusto ricordarlo. Ma gli studi storici hanno, via via, allargato l’orizzonte… Va rammentato che il movimento della Resistenza non avrebbe potuto assumere l’importanza che ha avuto nella storia d’Italia senza il sostegno morale e materiale della popolazione civile… Chiunque, in quegli anni foschi, sfidò la morte con coraggio e abnegazione merita pienamente la qualifica di resistente”.
In quanto movimento di popolo la resistenza partita dall’Abruzzo ha avuto motivazioni peculiari, di cui quella dominante fu certamente il senso della fraternità umana universale: “Più che approfondite teorie politiche, coltivate dalle élites – ha affermato il Capo dello Stato -, era il riconoscimento della comune appartenenza al genere umano a costituire l’assoluto rifiuto a ogni ideologia basata sulla sopraffazione, la violenza e la superiorità razziale. Nella lotta al nazismo, la popolazione d’Abruzzo fu particolarmente esemplare. Pagando un tributo alto di sangue che va adeguatamente ricordato, con riconoscenza e con ammirazione”. Fu proprio questa motivazione universalmente umana che fece del movimento di liberazione legato alla Brigata Maiella un’esperienza vasta, che abbracciò intellettuali e umili contadini e pastori, militari e partigiani, giovani e donne, laici e cattolici, perfino sacerdoti, che scelsero di stare col loro popolo di fronte all’efferatezza dell’occupante straniero. Da questa peculiarità di epopea popolare venne anche la promessa e la sfida in vista di un nuovo domani, tanto che quel movimento di liberazione costituì come uno spartiacque fra due epoche e due mondi: “Vennero poi le gesta della Brigata Maiella che ci conducono qui oggi a ricordare per tutta Italia la liberazione del 25 aprile… La nascita del movimento della Resistenza, che mosse i primi passi in Abruzzo, segna il vero spartiacque della nostra storia nazionale verso la libertà. Chiuse la fase della dittatura e portò l’Italia all’approdo della libertà, della democrazia e della Costituzione”. L’insieme di caratteristiche che quel movimento ebbe – la coralità, il senso della comune appartenenza e della dignità del nostro popolo, il valore morale dell’identità nazionale, la percezione acuta della responsabilità di tutti e di ciascuno per il bene comune – costituisce un patrimonio che è quanto mai necessario riscoprire per riappropriarcene in un momento complesso e critico come quello che stanno attraversando il nostro Paese, l’Europa e il mondo. Sull’esempio dell’epopea popolare abruzzese nel cammino della liberazione nazionale dalla dittatura e dalla violenza nazifascista, a nessuno è lecito voltare la faccia. È il momento in cui ognuno deve assumersi la propria parte di responsabilità, rinunciando a calcoli egoistici, anteponendo a tutto il bene del Paese. Ne deriva un concretissimo, perfino bruciante invito alle parti politiche a volare alto e a porsi coralmente al servizio dell’Italia, che non può permettersi indugi di fronte al travaglio di uscita dalla crisi che sta vivendo e alle urgenze delle sfide internazionali che la interpellano, nel consesso più ampio delle Nazioni e in quello specifico europeo, chiamato ad affrontare il fenomeno epocale dei flussi migratori in atto e le urgenze del superamento dei conflitti e della costruzione della pace sull’orizzonte dell’intero “villaggio globale”. In questo senso, certamente la parola alta del Presidente Mattarella ha voluto far memoria del passato per parlare al presente e stimolare tutti a fare la propria parte nel servizio al bene dell’intera comunità nazionale.
Mons. Bruno Forte è Arcivescovo di Chieti-Vasto.

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