Il tema della “mancanza”, al centro della XXXVI edizione del Meeting di Rimini, si intreccia con una “antropologia del limite” che è eminentemente cristiana. Ne ha parlato il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Nunzio Galantino, intervenendo stamattina a Riminifiera.

Introdotto dal direttore del settimanale Tracce, Davide Perillo, il presule si è posto sulla scia della domanda di Mario Luzi, che ha ispirato il Meeting di quest’anno: Di che è mancanza questa mancanza, cuore, che a un tratto ne sei pieno?

Il senso del limite, tuttavia, si associa al “fascino delle frontiere”, che sottintende la trascendenza. In un’epoca “post-filosofica” come quella che viviamo, dove la “libertà individuale” viene considerata da taluni come “l’unico vero valore”, Galantino pone l’alternativa della “libertà incarnata”, già teorizzata da Emmanuel Mounier.

L’uomo, quindi, non è “libertà assoluta” ma si identifica in molto altro: “ricerca di Dio e della verità, responsabilità, accettazione del sacrificio, alle quali è intimamente legato il raggiungimento di una libertà vera”.

Parimenti, l’“antropologia del limite” è qualcosa che tiene conto della “nativa debolezza dell’uomo”, in cui i limiti “vanno assunti come elementi che strutturano radicalmente l’essere della persona, e vanno valorizzati come portatori di una potenziale ricchezza”.

Del resto, la “questione antropologica”, ha sottolineato a braccio il segretario generale della CEI, è stata al centro del Progetto Culturale della Chiesa italiana, sotto la guida del cardinale Camillo Ruini e, successivamente, del cardinale Angelo Bagnasco. Tale Progetto Culturale “aveva preso sul serio gli esiti, cui aveva portato un preciso momento storico-culturale” che aveva avuto il suo culmine negli Anni ’70, quando l’esaltazione della libertà individuale aveva impresso una vera e propria sfida antropologica.

L’uomo è un essere limitato, non solo perché è in grado di commettere il male ma per il suo essere “creaturale e intrinsecamente mancante”, come si può riscontrare “nella malattia e in ogni forma di sofferenza, nella difficoltà o impossibilità di realizzare le proprie aspirazioni, nella fatica a collaborare e convivere con gli altri, nella morte che pare azzerare e svuotare ogni obiettivo raggiunto”.

Ciononostante, “l’essere umano desidera ciò che è grande e illimitato e tende a raggiungere cose sempre più grandi di quelle che ha”: ciò “è positivo e non è un male in se stesso” ma lo diventa se l’uomo “rifiuta la sua debolezza e intende questi obiettivi come dei diritti, arrivando a pretendere di raggiungerli invece che perseguirli con umiltà”, ha spiegato Galantino. È proprio l’umiltà, ha aggiunto il numero due della CEI, “l’atteggiamento interiore che consente di valorizzare il limite, rendendolo un motivo di crescita invece che di rammarico”.

Galantino ha poi citato la Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II, in cui il pontefice polacco poneva in evidenza il “desiderio di conoscere” proprio del “cuore dell’uomo”, pur nella “esperienza del limite invalicabile” (cfr. n°17).

È dalla consapevolezza del proprio limite, che l’essere umano scopre il “fascino delle frontiere” ed il limite diventa “una scuola capace di insegnarci quale sia il segreto della vita”. Mentre chi è “appagato” o “disperato” non tende verso tali frontiere, chi è povero lo fa, “percepisce il limite come caratterizzante la natura umana e ne fa motivo di crescita”.

Lungi dal privare l’uomo di una “meta” o di un “ideale”, il limite pone un obiettivo più realistico da raggiungere: quello di “divenire umani”. Al contrario, “un ideale antropologicamente insostenibile facilmente finisce col determinare un orientamento negativo della persona”.

L’accettazione del limite, inoltre, non implica affatto il “lassismo morale”, né tantomeno “l’esaltazione del difettoso” o “l’elogio dell’errore in quanto tale”. Come del resto ha affermato Bonhoeffer, “quanto più chiaramente viene riconosciuto il limite, tanto più profondamente la persona entra nella condizione di responsabilità”.

Assunti che richiamano l’evento cristiano: “Credere in un Dio che soffre fino alla morte, che è il punto drammaticamente più alto del limite; e credere in un Dio che vince il male assumendo la debolezza altrui introduce una visione che stravolge per sempre le categorie attraverso le quali si pensa il divino”, ha spiegato Galantino.

Il comandamento dell’amore evangelico “porta a intendere gli ultimi non più come scarti, ma come persone da sollevare e delle quali condividere la sorte”. Al punto che “la Chiesa è sollecitata, da un’antropologia del limite, a rinnovarsi nelle sue strutture, nelle dinamiche decisionali e nelle prassi concrete delle comunità”. È proprio quello che sollecita papa Francesco, quando auspica una Chiesa che sia sempre più “ospedale da campo” e che facendo del limite una “risorsa”, assume uno “stile missionario”.

“Un’antropologia del limite non si traduce in un elogio del limite stesso, ma in un’esaltazione dell’essere umano, capace di generare un ideale di perfezione che tenga conto del limite e lo traduca in storicità, concretezza, incarnazione”, ha aggiunto monsignor Galantino. In Gesù Cristo, “il senso del limite umano trova pienezza di significato e viene “sanato” da ogni sua stortura”, ha poi concluso il presule.