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]]>Uno dei capolavori assoluti del Parmigianino è la Madonna dal collo lungo che, fin dalla descrizione fatta dal Vasari nel 1568, è sempre stata considerata, e a buon titolo, uno dei massimi lasciti dell’esperienza artistica. Spesso, troppo spesso, è stata però interpretata in chiave esoterica e alchemica, in quanto non viene compresa la complessità della concezione artistica e il profondo significato affrontato e risolto in una immagine concettuale dipinta appositamente in questi termini per un committente colto e raffinato.
Il dipinto fu commissionato, infatti, da Elena Tagliaferri sorella di Francesco Baiardo, per la sua cappella privata in Santa Maria dei Servi a Parma, come testimonia il contratto stipulato il 23 dicembre del 1534, nel quale il Parmigianino s’impegnava a portare a compimento l’opera per la festa di Pentecoste del 1535. Ma il dipinto non fu mai completato e rimase nello studio dell’artista fino alla sua morte, avvenuta nel 1540 all’età di trentasette anni. L’opera venne poi collocata dai committenti nella cappella Baiardi-Tagliaferri non appena questa fu completata ed inaugurata nel 1542 e lì rimase fino a quando fu venduta nel 1698 a Ferdinando de’ Medici, Granduca di Toscana. Oggi la possiamo ammirare nella splendida Galleria degli Uffizi a Firenze.
Il dipinto è eseguito ad olio su tavola, misura cm 214 x 133 (misure perfettamente coincidenti con la funzione di dipinto d’altare); nella parte destra che non è terminata si possono vedere le tracce del disegno preparatorio eseguito sull’imprimitura fatta con la creta rossa, come la tradizione di bottega consigliava. Nel dipinto Maria è seduta su un trono che, nonostante sia nascosto dagli ampi panneggi che cingono la Vergine, si deduce anche dai cuscini posti sotto i piedi. Alle spalle di Maria, quasi ad incorniciarne il viso, vi è una tenda rossa raccolta verso sinistra che apre lo spazio pittorico verso un paesaggio, che è incompiuto e che ha offerto il destro a cattive interpretazioni. Sulla sinistra di Maria si vede un bellissimo angelo che reca un vaso tra le mani, e altre teste di fanciulli, che evidentemente non sono angeli come spesso viene affermato in descrizioni affrettate, in quanto non hanno né le ali, né altri segni che possano farli leggere in questo senso. Sulle gambe della Vergine giace addormentato Gesù Bambino in una posizione che richiama certa movenze della Pietà Vaticana di Michelangelo Buonarroti. Il braccino del Bambino, infatti, cade verso il basso e la Vergine lo sorregge tenendogli la mano sotto l’ascella, proprio come nel gruppo marmoreo del Buonarroti, inoltre le vesti della Vergine sono l’esatta copia di quelle scolpite dal grande scultore toscano. Ma mentre il tema del gruppo statuario michelangiolesco è la Pietà, in Parmigianino se ne fa solo allusione, ribadendo così con forza il valore salvifico della nascita che sarà compiuto nella morte e resurrezione del Salvatore. Infatti, la Vergine dipinta dal Parmigianino è a capo scoperto, mentre quella di Michelangelo porta il velo in segno di lutto.
Il paesaggio alle spalle della Vergine molto probabilmente richiama, come nel Tondo Doni di Michelangelo, l’età precedente alla venuta di Cristo, con una allusione che è poi il centro teologico del dipinto: mentre nell’antichità la divinità risiedeva nel tempio, ora con l’incarnazione Dio è tra noi, è veramente in noi, e Maria sottolinea questo aspetto teologico-spirituale indicando con la mano destra, la mano del Signore, che colui che Ella ha concepito è nel suo cuore. Maria ha concepito il Salvatore, come l’angelo le aveva annunciato divenendo il tramite splendente dell’Incarnazione. Non a caso alla destra della Vergine, Parmigianino ha posto proprio un angelo, che per di più reca un vaso. Il vaso è ascrivibile agli attributi mariani delle Litaniaecome Vaso Spirituale, Vaso onorabile e come Vaso insigne di devozione, cioè Maria è come un vaso prezioso dal contenuto mirabile e salvifico, il Verbo incarnato. A rafforzare questo significato, tra Maria e l’angelo si inserisce la figurina di un bimbo, che pone la sua mano sinistra sulla spalla sinistra dell’angelo, indicando con l’indice il vaso che egli porta, mentre con la sua mano destra tocca il collo dello stesso vaso mantenendo lo sguardo su Gesù. Questo bambino corrisponde iconograficamente in modo chiaro e tradizionale al piccolo San Giovanni Battista, che riconosce Gesù fin dal grembo materno. Infatti egli indica il vaso, ovvero Maria, scrigno prezioso in cui l’Incarnazione si compie, contenendo in sé tutto il mistero della Redenzione. Maria è il vaso, il pozzo delle acque vive (Ct 4,15), è la fonte (Ct 4,15), è la Porta del Cielo (Gn 28,17). Il significato più intimo del dipinto la identifica anche come il Tempio dello Spirito Santo (IC 6,19).
L’elemento dal quale prende il nome il dipinto, ovvero il lungo collo di Maria, va letto anch’esso come un attributo simbolico, che arricchisce e completa il significato spirituale e devozionale: la Torre di Davide (Ct 4,4), il cipresso in Sion (Eccl 24,18), la palma (Eccl 24,18), i cedri (Eccl 24,17).
I committenti, dunque, hanno chiesto a Parmigianino un dipinto che rappresenti Maria come un Vaso Spirituale che si erge come la Torre di David, il cipresso, la palma e il cedro, in tutta la sua maestosità, come una creatura meravigliosa tra un angelo e San Giovannino, la Madre a cui affidare le giovani vite dei figli di Elena Baiardi, che sono ritratti alle spalle di Maria.
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio.
Website www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e-mail: rodolfo_papa@infinito.it.
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]]>The post Caravaggio a Malta. La misericordia, lo zelo e il castigo (Prima parte) appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>La chiesa di San Giovanni, quartiere generale religioso dei Cavalieri Ospitalieri, era stata eretta a partire dal 1571 e consacrata nel 1578. Il complesso era stato ampliato negli anni e nel 1603 vi era stato aggiunto un Oratorio dedicato a San Giovanni Decollato il quale, prima delle modifiche settecentesche di Mattia Preti, era distaccato dalla chiesa ed estremamente spoglio e spartano. L’oratorio accoglieva la Confraternita di San Giovanni che offriva conforto spirituale ai condannati a morte e ai prigionieri, fungeva da sala assembleare per l’Ordine e ospitava i novizi.
Dopo il Grande Assedio del 1565 e la costruzione, ex-novo, di una nuova capitale, Valletta, o meglio Humilissima Civitas Valettae, con l’arrivo della più ricca nobiltà d’arme europea, c’era la necessità per l’Ordine di un patrimonio artistico di spessore e della presenza di un artista rinomato, in pianta stabile. La permanenza a Malta di Michelangelo Merisi, circa un anno e quattro mesi, ha ancora molte questioni aperte, di certo però si può convenire sulle motivazioni del suo arrivo. Il Gran Maestro Alof de Wignacourt aveva bisogno di un’artista di fama per il nuovo Oratorio, la chiesa e, soprattutto, per il Palazzo del Grande Maestro pertanto in contatto con Fra Ippolito Malaspina, personaggio eminente dell’Ordine imparentato con i Doria e con Ottavio Costa entrambi committenti del pittore, e Fabrizio Sforza Colonna, in quel periodo entrambi a Napoli, aveva di certo saputo della presenza e della condizione dell’artista. Caravaggio, dopo la fuga dall’Urbe, aveva bisogno invece della protezione dal bando capitale che solo l’appartenenza ai Cavalieri poteva garantire. Il suo approdo nell’isola, probabilmente sulle navi di Fabrizio Colonna, dovette dipendere dall’arrivo di un invito ufficiale e da una commissione di spessore da parte dello stesso Gran Maestro. Michelangelo è già a Malta il 26 luglio 1607 dato che il suo nome compare tra i testimoni in un processo per bigamia a carico di un pittore greco incontrato a casa del cavaliere siciliano Giacomo Marchese. A distanza di quasi un anno, esattamente il 14 luglio 1608, avverrà la promulgazione della Bulla Receptionis e la sua ammissione all’Ordine come Cavaliere di Obbedienza Magistrale (e non di Grazia come sovente viene scritto), dato che il regolamento imponeva un anno “in convento” e la presenza sull’isola; era stato condonato invece l’obbligo delle “carovane”, ovvero il periodo di esperienza sulle navi dei Cavalieri che ogni aspirante novizio doveva compiere. Tale particolare è un altro dettaglio che confermerebbe come il suo arrivo doveva dipendere da un invito ufficiale di alto livello e per una precisa commessione. Verosimilmente, dopo essere giunto a Valletta, il pittore non iniziò subito con la grande tela dell’Oratorio ma, stabilito uno studio, dovette realizzare una sorta di “prova”, o opera di bravura, per il marchese Malaspina.
Si tratta del celebre San Girolamo scrivente, esposto al museo della Cattedrale di Valletta di fronte alla Decollazione e passato prima per la Cattedrale nella Cappella d’Italia, un soggetto che aveva realizzato per Scipione Borghese solo due anni prima. Il santo era ora riproposto con tinte più cupe ed una pennellata sottile e attenta, in posizione profilata e con un crocifisso e un teschio fortemente scorciati i quali non facevano che ampliare la vertigine di una posizione, quella della figura, in bilico tra tensione e ispirazione. Alcuni hanno notato una certa somiglianza tra Girolamo e il Gran Maestro de Wignacourt che riceverà comunque dal pittore due ritratti, come ci ricorda anche Bellori, uno seduto, oggi disperso, e un altro in piedi seguito da un paggio, esposto al Louvre. Altre opere maltesi sono il San Giovannino alla fonte, l’Amorino dormiente, una Maddalena e un San Francesco oggi dispersi e forse l’Annunciazione di Nancy. Il 7 febbraio 1608 il Gran Maestro scrive al Papa una lettera allo scopo di ottenere “per non perderlo” l’autorizzazione alla nomina di un cavaliere non menzionato “non ostante abbia altre volte in rissa commesso l’homicidio”, dato che l’omicidio, per regola, non avrebbe consentito l’ingresso nell’Ordine. La dispensa eccezionale, un “fecit placet”, arriverà una settimana dopo. E’ chiaro che de Wignacourt, già al corrente del delitto, si stava riferendo a Caravaggio il quale in quel mese, quasi certamente, aveva iniziato a realizzare la grande tela del martirio del santo dei Cavalieri.
La Decollazione del Battista oltre ad essere l’opera più grande di Caravaggio (misura 360×520 centimetri) è di certo da annoverare tra i suoi capolavori per la perfetta tensione narrativa ottenuta in uno spazio scenico ampliato a dismisura nella tela e che sovrasta quasi l’agire delle figure. Berenson scriveva “Salvo la Vocazione di Matteo questo è il solo Caravaggio a me noto in cui so dove mi trovo” ed effettivamente l’uso dello spazio e della luce conferiscono all’opera una forte illusione teatrale amplificata dalla presenza, anticamente, di una finestra nella parete sud dell’Oratorio e da una semplice cornice in pietra che trasfigurava il luogo aprendo verso il martirio. Il rapporto tra figure e spazio è ampliato, la luce si irrigidisce sui corpi mentre il silenzio del carcere comprime le masse in un angolo preciso dove la lentezza e la solennità dei movimenti ricordano quasi l’orrido delle tragedie antiche: si tratta appunto dell’apice dello “stile tragico” del Merisi il quale, con poche figure disposte a semicerchio intorno alla figura distesa del santo, è riuscito a creare simmetrie e contrappunti emotivi di una solennità monumentale.
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]]>Che cosa è la bellezza per Leonardo? Nel Libro di pittura la bellezza sembra perseguita come convenienza alla natura. Il pittore deve saper imitare la natura, deve sapere realizzare la “conformità”. Infatti, Leonardo scrive: «Quella pittura è più laudabile, la quale ha più conformità con la cosa imitata (III,411).
La “conformità” alla natura è l’unica garanzia di bellezza. Leonardo esplicita maggiormente questo concetto aiutato dalla proposta dello “specchio” quale strumento per valutare la stessa “conformità” della pittura, tanto da definire lo specchio «il maestro de’ pittori» (III, 408).
Lo specchio costituisce innanzitutto uno “strumento”, un artificio tecnico per la costruzione del quadro, ma svolge anche e soprattutto la funzione di “maestro”. Lo specchio esercita la sua funzione magistrale nel tradurre la tridimensionalità reale in bidimensionalità rappresentata, nel mostrare sulla superficie le variabilità di luce e ombra. Se questo è ciò che lo specchio sa insegnare, allora questo è anche ciò che l’arte bella deve imparare. Infatti, Leonardo esplicita con termini chiarissimi che la bellezza e la meraviglia sorgono proprio dalla bidimensione del quadro che sa farsi tridimensione reale. Questo può accadere perché lo specchio lo ha insegnato, mostrando innanzitutto il procedimento opposto.
Il pittore deve, dunque, finalizzare innanzitutto la propria attività alla rappresentazione del rilievo, deve fare in modo che il quadro diventi naturale come la natura.
Comprendiamo allora che la bellezza della pittura è un “riflesso” di quella naturale. Nello specchio la natura è riflessa, e allo stesso modo il quadro deve saper essere specchio della natura. La pittura per raggiungere l’effetto dello specchio deve saper percorrere la lunga strada della rappresentazione, che è soprattutto capacità prospettica, studio delle luci e delle ombre; l’opera del pittore è cioè artificio, ma tramite l’artificio deve saper diventare specchio delle opere di Dio.
L’oggetto intenzionale del pittore è riuscire a mostrare un “corpo rilevato” (III, 412).. Per Leonardo, i “corpi” sono il vero oggetto della pittura, come scrive nel primo principio della pittura (I, 3). Punto, linea e superficie sono i mezzi per poter rappresentare il corpo: ciò che esiste sono i corpi.
Leonardo sottolinea che la bellezza perseguita dalla pittura non deve essere puramente emozionale, istintuale, di “superficie”. Ritiene infatti letteralmente “volgare” la bellezza dei colori, e sottolinea che la vera bellezza che sconvolge e meraviglia, e che è peculiare della pittura, è la capacità di «dimostrare di rilievo la cosa piana»; questo è lo straordinario miracolo di conoscenza e di tecnica, capace di confondere le dimensioni, trasferendone tre su due, in modo che queste due sembrino tre. Il risultato è la bellezza e la meraviglia. Dunque il gesto del pittore è ri-creativo per la capacità di operare la corporeità che, nella sua naturale realtà, è opera di Dio.
La straordinaria operazione del pittore non può essere ridotta alla pura imitazione; Leonardo, infatti, preferisce usare il termine di gran lunga più impegnativo “conformità”, cioè convenienza di forma.
Il pittore deve saper essere conforme alla corporeità e alla variabilità della natura; per poterlo fare deve cogliere le armonie naturali, cioè le proporzioni che tengono insieme nell’ordine la varietà della natura. Così Leonardo qualifica come “viziosa” quella pittura che non rispetta le proporzioni (III,425). Non rispettare le proporzioni è un “vizio” perché significa non cogliere il nesso che c’è tra le cose nella molteplicità naturale
Proprio nella molteplicità e nella varietà la natura mostra se stessa e il pittore “universale” deve saperla cogliere, con possibilità conoscitive e espressive inassimilabili a qualunque altra scienza o arte.
La pittura riesce a cogliere l’armonia dei corpi, che non è armonia di tempi ma di membra, e dunque va percepita nella sua istantanea unità, e proprio così la rappresenta la pittura, rendendola “permanente”. Leonardo non ha la presunzione di ritenere l’opera del pittore “eterna”, parla invece più umilmente di permanenza “per moltissimi anni”.
La bellezza che la pittura sa cogliere nel suo simulacro, e cioè nella sua immagine unitaria e presente, è “divina”. Per questa sua capacità di conservare nel tempo la bellezza presente, il pittore è superiore alla natura, che pure gli è maestra.
Leonardo cerca nella natura la sua origine, il suo ordine, le sue regole, ebbene tutto questo si manifesta come bellezza. La bellezza dell’arte si misura, dunque, sulla “conformità” alla bellezza naturale. Ora tale conformità non annulla mai la distanza tra arte e natura, tanto che Leonardo sottolinea l’impossibilità di raggiungere la perfetta conformità (II, 118).
Esiste dunque una reale impossibilità di perfetta coincidenza tra il quadro e lo specchio, e la ragione affonda in motivazioni di ordine ottico, ma tale liminare diffidenza è come se andasse a circoscrivere la specificità della bellezza artistica di fronte a quella naturale: la conformità, sempre perseguita e da perseguire, non annulla la peculiarità dell’operazione artistica, ma anzi va a definirla, in uno sforzo asindotico di perfezione. La differenza tra pittura e natura è il segno della differenza tra l’artista e il Creatore.
Dunque il pittore non sa ricreare perfettamente la natura, e in questo è inferiore al Creatore, ma sa cogliere il presente e renderlo permanente e in questo è superiore alla natura e simile a Dio.
Occorre inoltre sottolineare che la bellezza di cui parla Leonardo è prima di tutto “bellezza” della natura, come è scritto nel Libro di pittura: «bellezza de l’opere de natura et ornamento del mondo» (I, 17). Il pittore non crea la bellezza, ma la conosce e se ne rende “conforme”. Proprio in questa umiltà fondamentale del pittore sta la possibilità di un’arte che diventa preghiera al Creatore.
Rodolfo Papa, esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Storico dell’arte, Accademico Ordinario Pontificio. Website www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it.
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]]>The post La Chiesa del Gesù nel cuore della Roma rinascimentale appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Il tratto stradale che collega piazza Venezia fino a largo Argentina è un pullulare di edifici e testimonianze storico-artistiche le quali, anche se soffocate dalla vita moderna, meritano un’attenta analisi. A circa metà si scorge una piazzetta che i più ricorderanno per altre vicende ma che merita di essere citata in quanto elemento centrale della chiesa del Santissimo Nome di Gesù all’Argentina detta ‘del Gesù’. Questa venne costruita dal fondatore dell’Ordine Gesuita Sant’Ignazio da Loyola, le cui spoglie mortali sono ivi contenute.
Fu Ignazio di Loyola stesso nel 1551 a commissionare all’architetto fiorentino Nanni di Baccio Bigio il disegno della chiesa. La pianta inizialmente venne disegnata con un’unica navata, cappelle laterali e un’abside poco profonda, ma il progetto venne abbandonato e l’edificio fu riprogettato nel 1554 da Michelangelo, ma anche questo non venne realizzato.
Fu il cardinale Alessandro Farnese, ad incaricare nel 1561 Jacopo Barozzi detto “Il Vignola”, a realizzare la progettazione e la realizzazione della chiesa, a cui collaborarono gli architetti gesuiti Giovanni Tristano e Giovanni de Rosis.
I lavori di costruzione vennero avviati dal Vignola nel 1568 ma a concluderne l’esecuzione, in seguito alla sua morte fu Giacomo Della Porta nel 1575 che ne realizzò anche la facciata. Questa venne dedicata nel 1584, risultando la chiesa più grande e la prima ex-novo a Roma dal “Sacco” dei Lanzichenecchi del 1527. Fu Giovanni Battista Gaulli a realizzare nella seconda metà del XVII secolo la decorazione pittorica, raggiungendo probabilmente in questo periodo l’apice della sua importanza fino alla soppressione dell’Ordine del 1773. Il ripristino dell’ordine e la restituzione della chiesa ai Gesuiti nel 1814 permise ulteriori decorazioni che vennero realizzate tra il 1858 e il 1861 grazie al finanziamento del principe Alessandro Torlonia, con il rivestimento marmoreo della navata.
La facciata, che sporge sulla piccola piazza, introduce ad un ambiente il cui aspetto esterno è comunque dominato dalla cupola con tamburo ottagonale, anch’essa realizzata da Della Porta. L’interno è a croce latina, con una navata affrescata con il Trionfo del nome di Gesù, grandioso, affresco eseguito con un interessante effetto prospettico da Giovan Battista Gaulli che ha anche affrescato la tribuna conla Gloriadel mistico Agnello.
Sull’altare maggiore invece la pala che campeggia una pala è stata realizzata nell’800 da Alessandro Capalti, mentre ai lati si aprono sei cappelle con opere di autori di rilievo. Nel transetto di sinistra la Cappella di San Ignazio di Loyola (sepolto sotto l’altare), venne realizzata da Andrea Pozzo, mentre in quello di destra è visibile l’altare di San Francesco Saverio di Pietro da Cortona.
L’edificio fa parte del patrimonio storico-artistico del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno, ragion per cui in anni recenti è stato oggetto di notevoli interventi di restauro da parte della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma e del Lazio.
Chi ha la fortuna di poterla ammirare durante le ore notturne, noterà una facciata perfettamente equilibrata attraverso un nuovo impianto di illuminazione che fornisce equilibrio e suggestione e permette di porre lo sguardo sulle due statue dei Santi Ignazio di Loyola (a sinistra) e Francesco Saverio (a destra) posizionate nelle nicchie accanto al portale.
Un vero gioiello nel cuore del rinascimento romano, fruibile di giorno ma certamente molto più godibile di notte, quando la vita pulsante del popolo romano rallenta drasticamente i propri ritmi e il quartiere torna per pochi istanti a riappropriarsi di quelle atmosfere ormai passate.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.
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]]>The post Monna Lisa, la ricerca dei resti mortali continua appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>“L’esame del Dna è la prova regina di questa lunga e complessa ricerca, speriamo in un risultato positivo”, commenta Silvano Vinceti, responsabile della ricerca avviata dal Comitato nazionale per la Valorizzazione dei beni storici, culturali e Ambientali.
“E’ stato possibile datare finora soltanto due dei tre campioni pervenuti nei nostri laboratori”, ha dichiarato il prof. Lucio Calcagnile responsabile del CEDAD, il Centro di Datazione dell’Università del Salento, che ha eseguito i primi esami del carbonio 14 con la tecnica AMS della spettrometria di massa con acceleratore. “Il campione della tomba 6 non è stato possibile datarlo per la forte diagenesi e la mancanza di collagene; per gli altri due campioni, provenienti dalle tombe 7 e 8, è stato possibile datare lo smalto dei denti. Tuttavia, in entrambi i casi, le datazioni si collocano tra la fine del XIV e la prima metà del XV secolo con un livello di confidenza del 95.4%.”
Il prof. Giorgio Gruppioni, del Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna (Campus di Ravenna) e membro della équipe scientifica del Comitato, ha poi aggiunto “purtroppo la datazione con il C14 non ha dato l’esito sperato, tuttavia non sarà lasciata intentata nessuna pista: si tenterà di estrarre il DNA dai resti dell’individuo che non è stato possibile datare (n. 6), allo scopo di confrontarlo con quello dei figli di Lisa Gherardini i cui resti, a quanto risulta, sono conservati a Firenze nella chiesa della SS. Annunziata. Verranno, inoltre, presi in esame i resti di due individui (catalogati con i numeri 1 e 2) che sembrerebbero particolarmente indiziabili in base alle indagini archeologiche e ancora non accuratamente analizzati”.
Silvano Vinceti, responsabile della ricerca sui resti mortali della Gioconda, ha commentato così la complessità della ricerca. “Questi primi risultati hanno un segno negativo ma l’avevamo messo in conto. Si tratta di una ricerca difficile e complessa. Sappiamo anche che il Carbonio 14 è sì un esame fondamentale per datare il periodo storico dei resti ma, quando questo non è praticabile occorre tentare con altri metodi. Tra questi, l’esame comparato del Dna, potrebbe dare la risposta definitiva se abbiamo o non abbiamo ritrovato le spoglie della modella utilizzata da Leonardo per il quadro più conosciuto al mondo. Nelle prossime settimane si procederà al prelievo di campioni dai resti dei discendenti di Lisa Gherardini ritrovati nell’agosto scorso, nella cappella della famiglia Del Giocondo nella Basilica fiorentina della Santissima Annunziata, per il confronto del Dna con il terzo resto mortale su cui non è stato possibile compiere l’esame del carbonio 14. Si procederà altresì all’esame del carbonio 14 su altri due resti mortali ritenuti altamente significativi, in base ai rilievi archeologici”.
“Da un’attenta lettura di alcuni documenti storici inerenti il Monastero di Sant’Orsola – aggiunge Vinceti – emerge che il complesso ha subìto numerosi rimaneggiamenti, compresi alcuni interventi sull’antica chiesa e uno in particolare, risalente al ‘600, nel quale vi fu un mutamento strutturale del sacro luogo. Sotto di esso, vi erano alcune sepolture ed è ipotizzabile che le spoglie siano state traslate in altri luoghi. Nessun elemento attualmente in nostro possesso può farci escludere che i resti mortali di Monna Lisa Gherardini siano stati traslati nella Cappella dei Martiri, in modo da farla ricongiungere con le salme del marito e del figlio. Di conseguenza, l’interesse di questa ricerca si estende a tutti i resti mortali rinvenuti della Cappella dei Martiri e per ciascuno di essi sarà eseguita la comparazione con il DNA del marito e del figlio. Esami, questi, da cui potrebbero emergere sorprese inaspettate.”
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]]>The post Chiesa, arte e immagini sacre nell'anniversario del Concilio di Trento appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>«Il dibattito sull’immagine sacra e la sua applicazione nell’arte – chiarisce la Prof.ssa Lydia Salviucci Insolera – va inteso come un rapporto complesso e dinamico, di equilibri a volte riusciti e a volte no tra esigenze molto diverse. Vi sono quelle del committente, molte volte laico, che può fornire indicazioni iconografiche e anche tecniche. Poi quelle della chiesa – da riferirsi spesso a vari ordini religiosi con altrettante esigenze, luogo che comunque deve rimanere custode dell’ortodossia teologica in un’epoca di violente divisioni. Parallelamente quelle dell’artista, tra ambizioni e affermazione del proprio ruolo sociale. Tensioni e disequilibri sono inevitabili».
Il convegno si svilupperà pertanto su un doppio binario: da un lato il significato teologico dell’immagine sacra, la cui origine proviene dall’Oriente con l’icona, dall’altro l’ambito più propriamente storiografico e artistico. Tra i relatori si segnalano riconosciute autorità quali il famoso teologo dell’immagine, il domenicano François Boesflug (Université de Strasbourg) e il Prof. Paolo Prodi (Università di Bologna), noto per i suoi studi capitali sul significato dell’arte figurativa all’interno della Riforma cattolica.
Particolare rilievo rivestirà, in questo contesto, la presentazione di alcuni documenti inediti del secondo Preposito generale della Compagnia di Gesù, P. Diego Laínez, il quale, invitato a partecipare al Concilio di Trento come teologo, approfondì lo studio delle fonti cristiane a supporto di quella “teologia delle immagini” che poi confluì nel Decreto. «Si tratta di una trentina di fogli – spiega la Prof.ssa Salviucci, autrice della ricerca – nei quali si elabora il complesso pensiero dei primi gesuiti riguardo l’immagine sacra, in stretta relazione con quanto lo stesso S. Ignazio aveva compreso riguardo gli aspetti contemplativi all’interno degli stessi Esercizi Spirituali».
Il Programma del convegno: http://www.unigre.it/eventi/decretoimmagini/index.php
La partecipazione è gratuita e aperta a tutti.
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]]>The post "La musica policorale in Italia e nell'Europa centro-orientale fra Cinque e Seicento" appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Dopo il saluto istituzionale della Regione Veneto, interverranno Marco Bizzarini, docente di Forme della poesia per musica dell’Università di Padova, e Claudio Toscani, docente di Filologia musicale all’Università di Milano. Saranno presenti anche una delle due curatrici, Marina Toffetti, e Marina Malavasi, direttore dell’ensemble vocale Dodecantus. Ingresso libero. A tutti i partecipanti sarà offerta una copia del libro e del CD.
Il volume che viene presentato a Villa Settembrini è parte di un importante programma di ricerca sulla diffusione della musica italiana in Europa, in particolare nelle aree centrale e orientale, nei secoli XVI e XVII, che la Fondazione Levi ha avviato nel 2005 e che ha portato alla realizzazione di numerosi seminari e convegni internazionali, nonché alla creazione, nel 2009, del gruppo di ricerca TRA.D.I.MUS (Tracking the Dissemination of Italian Music in Europe – Monitoraggio della diffusione della musica italiana in Europa) che riunisce musicologi di istituzioni italiane, polacche, slovacche e slovene.
La musica policorale in Italia e nell’Europa centro-orientale fra Cinque e Seicento, prima pubblicazione del gruppo TRA.D.I.MUS., curata da Aleksandra Patalas e Marina Toffetti (che di TRA.D.I.MUS. è coordinatrice), comprendente 13 contributi in italiano e inglese, la maggior parte dei quali costituisce gli atti degli incontri di studio La musica policorale tra Cinque e Seicento: Italia-Europa dell’Est organizzate nel 2009 alla Fondazione Levi. Scopo del libro è evidenziare la diffusione dello stile policorale in Italia e in Europa centrale e orientale a cavallo tra i secoli XVI e XVII, valorizzando la ricchezza e varietà della direttrice italiana, troppo spesso ridotta alle pur grandi figure della musica veneziana.
Attraverso l’attività editoriale delle Edizioni Fondazione Levi, l’istituzione veneziana conferma e approfondisce negli anni l’impegno in una ricerca musicale e musicologica sempre di altissima qualità e di ampio spettro; la presentazione pubblica dei volumi editi è quindi occasione importante per far conoscere al pubblico i risultati delle attività scientifiche che la Fondazione promuove e segue.
DOVE
Mercoledì 27 novembre 2013
Mestre, Villa Settembrini, via Carducci 32
ore 17.30
Per informazioni:
Fondazione Ugo e Olga Levi onlus
San Marco 2893, 30124 Venezia
info@fondazionelevi.it
www.fondazionelevi.it
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]]>The post Un piccolo paradiso nel caos della capitale (Prima parte) appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Da allora il prelato ebbe soltanto cocenti delusioni da parte della Curia romana che si rifiutava di dare seguito al suo grande progetto. Fu quasi in procinto di abbandonare l’idea fino a che papa Pio IV decise di dargli credito ed emanò una bolla con la quale fu possibile fondare la basilica concedendone il controllo ai padri Certosini di S. Croce in Gerusalemme che ne posero la prima pietra il 5 agosto dello stesso anno. Pochi mesi dopo ebbero l’autorizzazione a stabilirvi la propria certosa e furono nominati ‘custodi’ delle rovine dell’antico impianto termale. Fu però soltanto alla fine del XVI secolo che i certosini ebbero modo di edificare la propria certosa rispettando quelli che erano i canoni tipici dell’architettura conventuale, con la costruzione di due chiostri posti nella parte retrostantela Basilica Michelangiolesca e le celle dei monaci.
E’ tradizione pensare che fu lo stesso Michelangelo (ormai ottantaseienne) ad intervenire progettando la certosa, ma la sua morte sopraggiunta nel 1564 lascia invece pensare che abbia partecipato soltanto marginalmente alla sua progettazione che invece si attribuisce a Giacomo Del Duca. L’abilità di Del Duca per la certosa fu la stessa applicata da Michelangelo per la Basilica. Michelangelo infatti, anziano e stanco, ma anche carico d’esperienza, decise di non alterare il contesto archeologico termale ed impiantò la basilica sfruttando pienamente i ruderi che ancora si ergevano maestosi, solenni testimoni di una grandiosità imperiale che, dall’epoca di Diocleziano, si sarebbe rapidamente sgretolata con la fuga di Costantino da Roma. Allo stesso modo Del Duca curò sapientemente lo studio dell’impianto termale, in modo tale da individuare tutte quelle aree che non presentavano ruderi per non danneggiarli (se non addirittura distruggerli) costruendo i nuovi edifici. Il piccolo chiostro venne impiantato accanto all’abside dell’altare maggiore della basilica, nell’area un tempo occupata dalla natatio (piscina d’acqua fresca) che era probabilmente già in completa rovina, mentre il grande chiostro ‘michelangiolesco’, venne ricavato nello spazio compreso tra l’impianto termale vero e proprio e il poderoso recinto che lo cingeva. In questo modo il grande chiostro si stanziò in un’area che un tempo era presumibilmente occupata esclusivamente dai giardini termali, senza alterare l’antico contesto. Le celle infine vennero addossate lungo il lato nord-orientale del recinto esterno (via Cernaia), senza apparentemente alterarne l’antica struttura.
Le celle rimangono decisamente più in basso rispetto alla strada, dalla cui sommità è possibile ammirare un panorama d’insieme che consente di rilevarne l’intero contesto. I bracci sporgenti presentano aperture che separano i singoli cortiletti con il loro portico ed i piccoli orti e giardini che identificano chiaramente il modus vivendi del monaco fatto di austerità, semplicità, pace e piccole attività quotidiane.
* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.
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]]>Anche se sono così importanti, a volte la memoria gioca brutti scherzi e non riusciamo ad enumerarli tutti… Figuriamoci poi se ci chiedono di ripeterli in fila! A venire incontro a questa nostra difficoltà è ancora una volta un’opera d’arte che ci può aiutare a memorizzare i 10 comandamenti: si tratta del pannello di Lucas Cranach il Vecchio che rappresenta l’osservanza/inosservanza della legge. Il pittore tedesco ha realizzato nel 1516 quest’opera che faceva bella mostra di sé nella Camera di riunione della Corte del Municipio di Wittenberg.
I pannelli sono disposti su due file ognuna delle quali contiene 5 comandamenti. Partiamo dalla prima fila e volgiamo il nostro sguardo verso sinistra.
1) Non avrai altro Dio al di fuori di me: nella prima immagine Cranach ha rappresentato Dio che sta donando a Mosè le due tavole della legge. Mentre Mosè sta ricevendo i dieci comandamenti, due ebrei adorano il vitello d’oro (che qui però viene rappresentato come un idolo greco-romano).
2) Non pronunciare invano il nome di Dio: per illustrare questo comandamento, Cranach ha rappresentato la parabola del Pubblicano e del Fariseo. Entrambi si rivolgono a Dio, ma mentre il primo lo fa con estrema umiltà e retto timore, l’altro si serve di Dio per affermare se stesso e disprezzare gli altri uomini. Il Fariseo bestemmia non con delle parole, ma con la sua stessa vita, perché strumentalizza Dio.
3) Ricordati di santificare le feste: un angelo spinge moglie e marito ad entrare in chiesa.
4) Onora il padre e la madre: il primo dei comandamenti che parla dei nostri doveri verso gli uomini è rappresentato da un papà e da una mamma che stanno con i loro fanciulli.
5) Non uccidere: nell’ultimo riquadro della prima fila vediamo una creatura infernale di colore giallo (nella pittura spesso associato al male o all’invidia) istiga un uomo ad ucciderne un’altro steso a terra e vestito di rosso come il sangue che sta per versare.
6) Non commettere atti impuri: spostando la nostra attenzione sul primo riquadro della seconda fila notiamo che il maligno spinge un uomo a curiosare all’interno di una stanza nuziale.
7) Non rubare: istigato da un demone, un uomo vestito di rosso tenta di sottrarre un calice alla bella dama vestita di verde.
8) Non pronunciare falsa testimonianza: in un tribunale, al cospetto di un giudice che siede dietro un banco, compaiono due uomini quello a sinistra, spinto da un angelo, si appresta a dire la verità, mentre quello a destra, esortato dal diavolo, sta per mentire.
9) Non desiderare la donna d’altri: il tentatore spinge un uomo a corteggiare una donna mentre l’ignaro marito le dorme accanto.
10) Non desiderare la roba d’altri: un demone tenta un uomo che desidera rubare delle monete che si trovano su un tavolo.
Per approfondimenti o informazioni: www.nicolarosetti.it
(Articolo tratto da Àncora Online, il settimanale della Diocesi di San Benedetto del Tronto)
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]]>E’ stato proprio questo, all’interno di uno dei tanti tour, il caso della Cappella Reale di Granada in Spagna; al cospetto dell’Alcazar di Siviglia, della Cattedrale di Cordova e dell’Alhambra della stessa Granada, la Cappella ha corso il rischio di passare in secondo piano, mentre è certamente anch’essa un vero e proprio nucleo della cultura europea.
Tralaltro, per il turista italiano, la città di Granada può essere ancor più significativa in quanto vanta importanti legami con alcune città italiche: basti citare i progetti con istituzioni culturali di Urbino, il gemellaggio industriale per la chimica con Bologna e, perché no, il fatto che il proprietario della locale squadra di calcio è quella famiglia Pozzo che in Italia dirige l’Udinese.
La Cappella Reale di Granada (per maggiori dettagli è consultabile il sito in spagnolo ed inglese www.capillarealgranada.com) ospita i resti mortali dei Re Cattolici Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia. Questi sovrani sono ricordati per aver annesso Granada alla Corona di Castiglia, riunito la Spagna sotto un’unica monarchia, creato forti legami tra Spagna, Portogallo, Inghilterra ed Austria grazie al matrimonio dei loro figli e, con la scoperta dell’America, per aver posto le basi della presenza della cultura spagnola nel Nuovo Continente.
La Cappella Reale, la cui costruzione è stata avviata nel 1518, si compone di quattro ambienti: la Loggia, la Cappella, la Crociata con la sottostante Cripta e la Sagrestia. Certamente sono proprio questi ultimi due gli ambienti più ricchi di significato, separati dai restanti da una cancellata, tra le più belle e la prima costruita in stile “plateresco”.
Dopo la cancellata, nella Crociata, si trovano sulla destra i sepolcri dei re cattolici e sulla sinistra quelli di Filippo I (il Bello) e Giovanna (la Pazza) realizzati in Italia con marmo di Carrara, ed ai cui piedi arde sempre un cero. Nella sottostante cripta gli austeri feretri di piombo come da volontà della regina Isabella.
Poi, sull’altare maggiore, una maestosa pala opera di più artisti, alla cui sommità vi sono rappresentati il Padre e lo Spirito Santo, al centro la Croce ed in basso, ai lati, le figure oranti di Ferdinando e Isabella; al centro, tutta una serie di figure della religiosità cattolica.
Prima di passare alla Sagrestia, attraverso una porta gotica, non si può non riflettere sulla grandezza e bellezza di questo mausoleo che, per non andare troppo lontano, rimanda per assonanza storica al monumento funerario a Cristoforo Colombo, inserito all’interno della Cattedrale di Siviglia.
Infine, al centro della prima sala della Sagrestia, la corona e lo scettro della regina Isabella e la spada del re Ferdinando, permettono al turista d’immaginare corpi e gesti di cinquecento anni addietro. Nella seconda sala, invece, diversi dipinti del quindicesimo secolo di pittori fiamminghi, spagnoli e italiani, tra i quali spicca una Orazione nell’Orto di Botticelli.
Se è vero, come suggeriva l’antropologo Augé qualche anno addietro, che i moderni mezzi di comunicazione consentono di conoscere anticipatamente, attraverso le immagini, cosa si visiterà successivamente, le suggestioni e le emozioni che la storia consegna possono essere avvertite solo attraverso una visione diretta e, perché no, solitaria e prolungata.
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