Documenti Archives - ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/category/documents-2/ Il mondo visto da Roma Tue, 11 Aug 2020 13:05:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.5.3 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Documenti Archives - ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/category/documents-2/ 32 32 ZENIT: Comunicazione ai nostri lettori https://it.zenit.org/2020/08/07/zenit-comunicazione-ai-nostri-lettori/ Fri, 07 Aug 2020 12:03:47 +0000 https://it.zenit.org/?p=122339 Problemi tecnici - spedizione newsletter

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“Viviamo su questa terra come amministratori, non come padroni e signori” https://it.zenit.org/2020/07/22/viviamo-su-questa-terra-come-amministratori-non-come-padroni-e-signori/ Wed, 22 Jul 2020 12:23:39 +0000 https://it.zenit.org/?p=122211 Pontificia Accademia per la Vita: "L’Humana Communitas nell’era della pandemia: riflessioni inattuali sulla rinascita della vita"

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Il Covid-19 ha precipitato il mondo intero in uno stato di desolazione. Lo stiamo vivendo già da tanto tempo; è un’esperienza che non si è conclusa e potrà durare ancora a lungo. Ma quale interpretazione possiamo darne? Certo, siamo chiamati ad affrontarlo con coraggio. La ricerca di un vaccino e di una spiegazione scientifica accurata su cosa ha scatenato questa catastrofe ne sono la prova. Ma siamo anche chiamati a una consapevolezza più profonda? Se così fosse, in che modo questa presa di distanza ci impedirà di cadere preda dell’inerzia della noncuranza, o peggio, della complicità con la rassegnazione? È possibile fare “un passo indietro” ponderato, che non significhi inazione, un pensiero che possa trasformarsi in un ringraziamento per la vita data, come se fosse un passaggio verso una rinascita della vita?

Covid-19 è il nome di una crisi globale (pan-demia): mostra diverse sfaccettature e manifestazioni, ma è senza dubbio una realtà comune. Siamo arrivati a renderci conto, come mai prima, che questa strana situazione, già prevista da tempo immemore, ma mai seriamente affrontata, ci ha uniti di più. Come tanti processi nel nostro mondo contemporaneo, il Covid-19 è la manifestazione più recente della globalizzazione. Da una prospettiva puramente empirica, la globalizzazione ha portato tanti benefici all’umanità: ha disseminato conoscenze scientifiche, tecnologie mediche e prassi sanitarie, tutte potenzialmente disponibili a beneficio di tutti (cfr. PAV, Pandemia e Fraternità Universale, 30.03.20). Al contempo, con il Covid-19, ci siamo trovati collegati in modo diverso, condividendo un’esperienza comune di contingenza (cumtangere): non risparmiando nessuno, la pandemia ci ha resi tutti parimenti vulnerabili, tutti ugualmente esposti. Tale consapevolezza è stata raggiunta a un caro prezzo. Quali lezioni abbiamo appreso? Inoltre, quale conversione del pensiero e dell’agire siamo preparati a vivere nella nostra responsabilità comune per la famiglia umana (humana communitas)?

1. La dura realtà delle lezioni apprese
La pandemia ci ha regalato lo spettacolo delle strade vuote e di città fantasma, di una prossimità umana ferita, del distanziamento fisico. Ci ha privato dell’esuberanza degli abbracci, della gentilezza delle strette di mano, dell’affetto dei baci e ha trasformato le relazioni in interazioni timorose tra sconosciuti, lo scambio neutro di individualità senza volto, avvolte nell’anonimità dei dispositivi di protezione. Le limitazioni ai contatti sociali sono spaventose; possono portare a situazioni di isolamento, disperazione, rabbia e abusi. Per gli anziani agli ultimi stadi di vita, la sofferenza è stata ancora più accentuata, in quanto il disagio fisico si è accompagnato ad una qualità della vita deteriorata e alla mancanza delle visite da parte della famiglia e degli amici.

1.1. Vita tolta, vita ricevuta: la lezione della fragilità
Le metafore principali che oggi invadono il nostro linguaggio comune sottolineano l’ostilità e un senso pervasivo di minaccia: gli incoraggiamenti ripetuti a “combattere” il virus, i comunicati stampa che risuonano come “bollettini di guerra”, gli aggiornamenti quotidiani sul numero di contagiati, che presto diventano “caduti”. Nella sofferenza e nella morte di così tante persone, abbiamo imparato la lezione della fragilità. In numerosi paesi, gli ospedali fanno ancora fatica a soddisfare le innumerevoli richieste, e sono costretti alla pena del razionamento e al logoramento del personale sanitario. Una miseria immensa, indescrivibile e la lotta per il bisogno primario di sopravvivenza hanno messo in evidenza la condizione dei carcerati, di coloro che vivono in condizioni di povertà estrema ai margini della società, soprattutto nei paesi in via di sviluppo e degli abbandonati destinati all’oblio nell’inferno dei campi profughi. Abbiamo toccato con mano il volto più tragico della morte: alcuni hanno conosciuto la solitudine della separazione, sia fisica che spirituale, hanno lasciato le proprie famiglie impotenti, impossibilitate ad accomiatarsi dai loro cari, senza neanche la possibilità della più elementare pietà di una sepoltura adeguata. Abbiamo visto vite finire senza alcuna distinzione di età, status sociale o condizioni di salute. “Fragili”. Ecco cosa siamo tutti: radicalmente segnati dall’esperienza della finitudine che è al cuore della nostra esistenza; non si trova lì per caso, non ci sfiora con il tocco gentile di una presenza transitoria, non ci lascia vivere indisturbati nella convinzione che tutto andrà secondo i nostri piani.

Affioriamo da una notte dalle origini misteriose: chiamati a essere oltre ogni scelta, presto arriviamo alla presunzione e alle lamentele, rivendicando come nostro quello che ci è stato solamente concesso. Troppo tardi abbiamo imparato ad accettare l’oscurità da cui veniamo e a cui, infine, torneremo. Secondo alcuni questa storia è assurda, in quanto tutto si riduce al nulla. Ma come potrebbe questo nulla essere la parola finale? E se così fosse, perché combattere? Perché ci incoraggiamo reciprocamente a sperare in giorni migliori, quando tutto ciò che stiamo vivendo in questa pandemia sarà finito? La vita va e viene, dice il custode della prudenza cinica. Ma questo suo crescere e decrescere, ora reso più evidente dalla fragilità della nostra condizione umana, potrebbe aprirci a una diversa saggezza, una diversa consapevolezza (cfr. Ps. 8): la dolorosa prova della fragilità della vita può anche rinnovare la nostra consapevolezza che è un dono. Tornando alla vita, dopo aver assaporato il frutto ambivalente della sua contingenza, non saremo più saggi? Non saremo più grati, meno arroganti?

1.2. Il sogno impossibile dell’autonomia e la lezione della finitudine
Con la pandemia, le nostre rivendicazioni di autodeterminazione autonoma hanno subito un duro colpo, un momento di crisi che richiede un discernimento più profondo. Doveva accadere, prima o poi: l’incantesimo era durato fin troppo. L’epidemia di Covid-19 ha molto a che vedere con la depredazione della terra e la spoliazione del suo valore intrinseco. Si tratta di un sintomo del malessere della nostra terra e della nostra incapacità di occuparci di essa; inoltre, è un segno del nostro malessere spirituale (Laudato Si, n. 119). Saremo in grado di risanare la frattura con il nostro mondo naturale, che troppo spesso ha trasformato le nostre soggettività assertive in minaccia al creato, agli altri?

Consideriamo la catena di connessioni che unisce i seguenti fenomeni: l’aumento della deforestazione spinge gli animali selvatici in prossimità degli habitat umani. I virus presenti negli animali, quindi, si trasmettono agli uomini, esacerbando, in tal modo, la realtà della zoonosi, un fenomeno ben conosciuto dagli scienziati nella diffusione di molte malattie. La domanda esagerata di carne nei paesi del mondo sviluppato ha dato vita a enormi complessi industriali per l’allevamento e lo sfruttamento del bestiame. È facile constatare come queste interazioni possano alla fine provocare la diffusione di un virus, mediante il trasporto internazionale, la mobilità di massa delle persone, i viaggi di affari, il turismo, ecc.

Il fenomeno del Covid-19 non è solo il risultato di avvenimenti naturali. Ciò che avviene in natura è già il risultato di una complessa interazione con il mondo umano delle scelte economiche e dei modelli di sviluppo, essi stessi “infettati” con un diverso “virus” di nostra creazione: questo virus è il risultato, più che la causa, dell’avidità finanziaria, dell’accondiscendenza verso stili di vita definiti dal consumo e dall’eccesso. Ci siamo costruiti un ethos di prevaricazione e disprezzo nei confronti di ciò che ci è dato nella promessa primordiale della creazione. Per questo motivo, siamo chiamati a riconsiderare il nostro rapporto con l’habitat naturale. A riconoscere che viviamo su questa terra come amministratori, non come padroni e signori. Ci è stato donato tutto, ma la nostra è una sovranità solo concessa, non assoluta.

Consapevole della sua origine, questa porta con sé il peso della finitezza e il segno della vulnerabilità. La nostra condizione è una libertà ferita. Possiamo rifiutarla come una maledizione, una situazione provvisoria da superare nel minor tempo possibile. Oppure, possiamo apprendere una pazienza diversa: capace di consentire alla finitudine, di rinnovare l’interazione con il prossimo vicino e con l’altro distante. Se paragonata alle difficoltà dei paesi poveri, soprattutto nel cosiddetto Sud Globale, le traversie del mondo “sviluppato” appaiono piuttosto come un lusso: solo nei paesi ricchi le persone possono permettersi di rispettare i requisiti di sicurezza. In quelli meno fortunati, d’altra parte, il “distanziamento fisico” è semplicemente impossibile a causa delle necessità e delle circostanze tragiche: ambienti affollati e impraticabilità di un distanziamento sostenibile costituiscono per intere popolazioni un ostacolo insormontabile.

Il contrasto tra le due situazioni mette in luce un paradosso stridente, che, ancora una volta, racconta la storia della sproporzione di benessere tra paesi ricchi e poveri. Apprendere la finitezza e consentire ai limiti della nostra libertà va ben oltre un misurato esercizio di realismo filosofico. Implica aprire gli occhi di fronte a una realtà di esseri umani che sperimentano questi limiti nella loro carne: nella sfida quotidiana per sopravvivere, per assicurarsi le condizioni minime per la sussistenza, per alimentare i propri figli e la famiglia, per superare la minaccia di malattie, nonostante la disponibilità di cure troppo costose e non sostenibili. Consideriamo il numero immenso di vite perdute nel Sud Globale: malaria, tubercolosi, mancanza di acqua potabile e di risorse basilari mietono ancora milioni di vite ogni anno, una situazione che è conosciuta da decenni. Tutte queste problematiche potrebbero essere superate grazie allo sforzo e all’impegno internazionale e politico. Quante vite potrebbero essere salvate, quante malattie sradicate, quanta sofferenza evitata!

1.3. La sfida dell’interdipendenza e la lezione della vulnerabilità comune
Le nostre pretese di solitudine monadica hanno i piedi di argilla. Con loro, crollano le false speranze di una filosofia sociale atomistica costruita sul sospetto egoistico verso ciò che è diverso e nuovo, un’etica della razionalità calcolatrice, piegata a un’immagine distorta di autorealizzazione, impermeabile alla responsabilità del bene comune a livello globale e non solo nazionale. La nostra interconnessione è una questione di fatto. Ci rende tutti forti o, al contrario, vulnerabili, a seconda del nostro atteggiamento nei suoi confronti. Consideriamo anzitutto la sua importanza a livello nazionale. Se il Covid-19 può colpire chiunque, può tuttavia essere particolarmente dannoso per particolari popolazioni, quali gli anziani o le persone con malattie concomitanti e immunità compromessa. Allo stesso modo, i medesimi provvedimenti politici presi per tutti i cittadini richiedono la solidarietà dei giovani e sani i più vulnerabili; richiedono il sacrificio da parte di molti che, per la loro sussistenza, dipendono da attività economiche che richiedono un contatto con il pubblico.

Nei paesi più ricchi, questi sacrifici possono essere temporaneamente compensati, ma nella maggioranza dei paesi, tali politiche di protezione sono semplicemente impossibili. Certamente, in tutti i paesi, il bene comune della salute pubblica deve essere bilanciato in rapporto agli interessi economici. Durante le prime fasi della pandemia, molti paesi si sono focalizzati sul salvare più vite possibili. Gli ospedali e soprattutto i servizi di terapia intensiva erano insufficienti e sono stati rafforzati solo dopo enormi sforzi. Apprezzabilmente, i servizi assistenziali sono sopravvissuti, grazie agli impressionanti sacrifici di medici, infermieri e altri professionisti sanitari, più che per gli investimenti tecnologici. La focalizzazione sull’assistenza ospedaliera, tuttavia, ha distolto l’attenzione da altre istituzioni di cura. Le case di cura, per esempio, sono state duramente colpite dalla pandemia, e i dispositivi di protezione individuale e i test sono diventati disponibili in quantità sufficiente solo in una fase tardiva.

Discussioni etiche sull’allocazione delle risorse si sono soprattutto basate su considerazioni utilitaristiche, senza prestare attenzione alle persone più vulnerabili ed esposte a più gravi rischi. Nella maggioranza dei paesi, il ruolo dei medici di base è stato ignorato, mentre per molti, sono il primo punto di contatto con il sistema assistenziale. Il risultato è stato un aumento di decessi e di disabilità provocate da cause diverse dal Covid-19. La comune vulnerabilità richiede anche una cooperazione internazionale e la consapevolezza che non è possibile tenere testa a una pandemia senza un’adeguata infrastruttura sanitaria, accessibile a tutti a livello globale. Né tantomeno, le traversie di un popolo, all’improvviso contagiato, possono essere affrontate in isolamento, senza stipulare accordi internazionali e con una moltitudine di attori diversi.

La condivisione di informazioni, la fornitura di aiuti, l’allocazione delle scarse risorse sono temi che dovranno tutti essere affrontati in una sinergia di sforzi. La forza della catena internazionale viene determinata dal suo anello più debole. La lezione ha bisogno di essere assimilata in profondità. Certamente, i semi della speranza sono stati dispersi all’ombra di piccoli gesti, in atti di solidarietà, troppi da contare, troppo preziosi da rendere pubblici. Le comunità si sono battute con onore, nonostante tutto; a volte si sono scontrate con l’inettitudine della loro leadership politica ad articolare protocolli etici, elaborare sistemi normativi, immaginare in modo nuovo le vite in base a ideali di solidarietà e sollecitudine reciproca. Gli apprezzamenti unanimi per questi esempi mostrano una comprensione profonda del significato autentico della vita e un modo desiderabile della sua realizzazione. Tuttavia, ancora non abbiamo dato sufficiente attenzione, soprattutto a livello globale, all’interdipendenza umana e alla vulnerabilità comune. Il virus non riconosce le frontiere, ma i paesi hanno sigillato i propri confini.

A differenza di altri disastri, la pandemia non ha colpito tutti i paesi allo stesso momento. Sebbene questo avrebbe potuto offrire l’opportunità di imparare dalle esperienze e dalle politiche di altri paesi, il processo di apprendimento a livello globale è stato minimo. Addirittura, alcuni paesi si sono, a volte, impegnati in un gioco cinico di reciproca accusa. La stessa mancanza di interconnessione si osserva negli sforzi per sviluppare cure e vaccini. L’assenza di coordinamento e cooperazione è ora sempre più riconosciuta come un ostacolo nella lotta contro il Covid-19. La consapevolezza che siamo insieme dentro questo disastro e che possiamo superarlo solo mediante sforzi cooperativi in quanto comunità umana sta dando vita a impegni condivisi. L’articolazione di progetti scientifici transnazionali è uno sforzo che va in tale direzione. Ciò deve essere dimostrato anche nelle politiche, mediante il rafforzamento delle istituzioni internazionali. Questo è particolarmente importante, in quanto la pandemia sta rafforzando disuguaglianze e ingiustizie già esistenti e molti paesi non dotati di risorse e strutture per affrontare adeguatamente il Covid-19 dipendono dalla comunità internazionale per ricevere assistenza.

2. Verso una nuova visione: la rinascita della vita e la chiamata alla conversione
Le lezioni di fragilità, finitezza e vulnerabilità ci conducono alla soglia di una nuova visione: promuovono un ethos di vita che richiede un impegno dell’intelligenza e il coraggio di una conversione morale. Imparare una lezione significa farsi umili, significa cambiare, cercando risorse di senso fino ad allora non sfruttate, forse sconfessate. Imparare una lezione significa diventare consapevoli, ancora una volta, della bontà della vita che si offre a noi, liberando un’energia che corre anche più in profondità dell’esperienza inevitabile della perdita, che deve essere elaborata e integrata nel significato della nostra esistenza. Questa occasione può essere la promessa di un nuovo inizio per l’humana communitas, la promessa della rinascita della vita? Se così fosse, a quali condizioni?

2.1. Verso un’etica del rischio
Dobbiamo, prima di tutto, giungere a una nuova considerazione della realtà esistenziale del rischio: tutti noi possiamo soccombere sotto i colpi della malattia, per le uccisioni in guerra, sotto le opprimenti minacce di disastri. Alla luce di ciò, emergono delle responsabilità etiche e politiche molto specifiche nei confronti della vulnerabilità di individui e gruppi di persone che sono a maggior rischio per la loro salute, vita e dignità. Il Covid-19 può sembrare, a prima vista, una determinante meramente naturale, sebbene certamente senza precedenti, di rischio globale. Tuttavia, la pandemia ci costringe a considerare un numero di fattori aggiuntivi, che prevedono tutti una sfida etica multidimensionale. In tale contesto, le decisioni devono essere proporzionate ai rischi, secondo il principio di precauzione.

Focalizzarsi sulla genesi naturale della pandemia, senza dare ascolto alle disuguaglianze economiche, sociali e politiche tra i paesi del mondo, significa non cogliere il senso delle condizioni che l’hanno fatta diffondere più velocemente e l’hanno resa più difficile da affrontare. Un disastro, quale che sia la sua origine, è una sfida etica in quanto è una catastrofe che condiziona la vita umana e intacca l’esistenza umana in varie dimensioni. In assenza di un vaccino, non possiamo contare sulla capacità di sconfiggere permanentemente il virus che ha causato la pandemia, a eccezione di un esaurimento spontaneo della forza patologica della malattia. L’immunità contro il Covid-19, pertanto, rimane solo una speranza per il futuro. Ciò significa anche riconoscere che vivere in una comunità a rischio richiede un’etica che sia alla pari con la prospettiva che tale rischio possa effettivamente diventare una realtà.

Allo stesso tempo, dobbiamo elaborare un concetto di solidarietà che si estende ben oltre l’impegno generico di aiutare coloro che soffrono. Una pandemia ci invita tutti ad affrontare e plasmare nuovamente le dimensioni strutturali della nostra comunità globale che sono oppressive e ingiuste, quelle che la consapevolezza religiosa definisce “strutture di peccato”. Il bene comune dell’humana communitas non può essere conseguito senza una vera conversione dei cuori e delle menti (Laudato si’, 217-221). La chiamata alla conversione è rivolta al nostro senso di responsabilità: la sua miopia è imputabile al nostro rifiuto di guardare la vulnerabilità delle popolazioni più deboli a livello globale, non alla nostra incapacità di vedere ciò che è cosi ovviamente semplice. Una diversa apertura può allargare l’orizzonte della nostra immaginazione morale per includere, infine, ciò che è stato deliberatamente messo a tacere.

2.2. La chiamata a sforzi globali e alla cooperazione internazionale
I contorni fondamentali di un’etica del rischio, radicata in un concetto più ampio di solidarietà, implicano una definizione di comunità che rifiuta ogni provincialismo, la falsa distinzione tra gli insider, ovvero, coloro che possono rivendicare di appartenere pienamente alla comunità e gli outsider, ovvero coloro che possono sperare, nel migliore dei casi, di avere una sedicente partecipazione alla stessa. Il lato oscuro di tale separazione deve essere messo in luce quale impossibilità concettuale e prassi discriminatoria. Nessuno può essere visto semplicemente “in attesa” di ricevere il riconoscimento pieno dello status, come se fosse alle porte dell’humana communitas.

L’accesso a un’assistenza sanitaria di qualità e ai farmaci essenziali deve essere effettivamente riconosciuto quale diritto umano universale (cfr. Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani, art. 14). Da tale premessa, conseguono due conclusioni logiche. La prima riguarda l’accesso universale alle migliori opportunità di prevenzione, diagnosi e trattamento, che non devono essere riservate solo a pochi. La distribuzione di un vaccino, non appena disponibile in futuro, è un caso emblematico. L’unico obiettivo accettabile, coerente con un’equa fornitura del vaccino, è l’accesso a tutti, senza eccezione alcuna.

La seconda conclusione concerne la definizione di ricerca scientifica responsabile. La posta in gioco qui è molto alta e le questioni molto complesse. Sono tre quelle che meritano di essere sottolineate. In primo luogo, in relazione all’integrità della scienza e alle nozioni che stimolano il suo progresso: l’ideale di un’obiettività controllata, se non completamente “distaccata” e l’ideale di libertà di ricerca e, soprattutto, libertà dai conflitti di interesse.

In secondo luogo, in gioco c’è la natura stessa della conoscenza scientifica in quanto prassi sociale, definita, in un contesto democratico, da regole di uguaglianza, libertà ed equità. In particolare, la libertà scientifica di ricerca non dovrebbe inglobare nella propria sfera di influenza la decisione politica. Tale decisione e l’ambito politico nel suo complesso mantengono la propria autonomia dallo sconfinamento del potere scientifico, soprattutto quando quest’ultimo si trasforma nella manipolazione dell’opinione pubblica.

Infine, ciò che è in questione qui è il carattere essenzialmente “fiduciario” della conoscenza scientifica nella sua ricerca di risultati socialmente vantaggiosi, soprattutto quando la conoscenza viene ottenuta mediante sperimentazione sugli esseri umani e la promessa di un trattamento testato in trial clinici. Il bene della società e il bene comune nel settore sanitario vengono prima di qualsiasi interesse per il profitto, in quanto la dimensione pubblica della ricerca non può essere sacrificata sull’altare del guadagno privato. Quando la vita e il benessere di una comunità sono a rischio, i profitti devono assumere un ruolo di secondo piano.

La solidarietà si estende anche a qualsiasi sforzo nel campo della cooperazione internazionale. In questo contesto, un posto privilegiato è occupato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Profondamente radicata nella sua missione di guidare il lavoro sanitario a livello mondiale, si trova la nozione secondo cui solo l’impegno dei governi in sinergia globale può proteggere, promuovere e rendere efficace il diritto universale al livello più alto possibile di salute. Questa crisi ha sottolineato quanto sia necessaria un’organizzazione internazionale con un’estensione globale, che si faccia promotrice, in particolare, dei bisogni e delle preoccupazioni dei paesi meno sviluppati nell’affrontare una catastrofe senza precedenti. La ristrettezza di vedute degli interessi nazionali ha portato molti paesi a rivendicare una politica di indipendenza e isolamento rispetto al resto del mondo, come se la pandemia potesse essere affrontata senza una strategia globale coordinata. Tale atteggiamento potrebbe sostenere, ma solo a parole, l’idea della sussidiarietà e l’importanza di un intervento strategico basato sulla prerogativa secondo cui l’autorità più bassa deve avere la precedenza rispetto a una più alta, più distante dalla situazione locale. La sussidiarietà deve rispettare la sfera legittima di autonomia delle comunità, incoraggiando le loro capacità e responsabilità.

In realtà, l’atteggiamento in questione rientra in una logica di separazione che è, anzitutto, meno efficace contro il Covid-19. Inoltre, lo svantaggio non è solo poco lungimirante de facto, ma provoca anche l’ampliamento delle disuguaglianze e l’aggravamento degli squilibri di risorse tra i vari paesi. Sebbene tutti, ricchi e poveri, siano vulnerabili al virus, questi ultimi sono destinati a pagare il prezzo più alto e a portare il peso delle conseguenze a lungo termine della mancata cooperazione. Risulta chiaro, pertanto, che la pandemia sta peggiorando le disuguaglianze proprie dei processi di globalizzazione, rendendo sempre più persone vulnerabili ed emarginate senza assistenza sanitaria, lavoro e ammortizzatori sociali.

2.3. Bilanciamento etico incentrato sul principio di solidarietà
In ultima analisi, la vera questione attuale affrontata dalla famiglia umana è il significato morale e non meramente strategico di solidarietà. La solidarietà implica la responsabilità verso l’altro che vive nel bisogno, ed è radicata nel riconoscere che, in quanto essere umano dotato di dignità, ogni persona è un fine in se stesso, non un mezzo. L’articolazione della solidarietà quale principio di etica sociale si basa sulla realtà concreta di una presenza personale nel bisogno, che grida per essere riconosciuta. Pertanto, la risposta che ci è richiesta non è solo una reazione basata su nozioni sentimentalistiche di simpatia; è l’unica risposta adeguata alla dignità dell’altro, che richiama la nostra attenzione, una disposizione etica fondata sulla razionale preoccupazione del valore intrinseco di ogni essere umano.

Come dovere, la solidarietà non è costo zero, senza oneri e senza la disponibilità dei paesi ricchi a pagare il prezzo richiesto per la sopravvivenza dei poveri e la sostenibilità dell’intero pianeta. Questo vale sia sincronicamente, per i vari settori dell’economia, sia diacronicamente, ovvero in relazione alla nostra responsabilità per il benessere delle generazioni future e per la valutazione delle risorse disponibili. Tutti sono chiamati a fare la propria parte. Alleviare le conseguenze della crisi prevede che si rinunci all’idea secondo cui “gli aiuti arriveranno dal governo”, come se si trattasse di un deus ex machina che lascia tutti i cittadini responsabili spettatori, indifferenti nel perseguimento dei loro interessi personali. La trasparenza delle regole e delle strategie politiche, unitamente all’integrità del processo democratico, richiedono un approccio diverso. La possibilità di una mancanza catastrofica di risorse per l’assistenza medica (materiali protettivi, kit per test, respiratori e terapie intensive nel caso del Covid-19) potrebbe servire da esempio.

Di fronte a dilemmi tragici, i criteri generali di intervento, basati sull’equità nella distribuzione delle risorse, il rispetto per la dignità di ogni persona e la sollecitudine speciale per i soggetti vulnerabili devono essere delineati in precedenza e articolati nella loro plausibilità razionale con quanta più attenzione possibile. La capacità e volontà di bilanciare principi che potrebbero entrare in conflitto tra di loro è un altro pilastro essenziale di un’etica del rischio e della solidarietà. Certamente, il primo dovere consiste nel proteggere la vita e la salute. Sebbene una situazione a rischio zero sia impossibile, il rispetto del distanziamento fisico e il rallentamento, se non la chiusura totale, di alcune attività hanno prodotto effetti drammatici e duraturi sull’economia. L’impatto sulla vita privata e sociale dovrà, altresì, essere preso in considerazione. Due questioni cruciali emergono.

La prima si riferisce alla soglia di rischio accettabile, il cui rispetto non può produrre effetti discriminatori in merito a condizioni di potere e ricchezza. La protezione di base e la disponibilità di mezzi diagnostici devono essere offerte a tutti, secondo il principio di non discriminazione. Il secondo chiarimento decisivo riguarda il concetto di “solidarietà nel rischio”. L’adozione di norme specifiche da parte di una comunità richiede attenzione all’evoluzione della situazione sul terreno, un compito che può essere svolto unicamente mediante un discernimento radicato nella sensibilità etica, non solo in obbedienza alla lettera della legge. Una comunità è responsabile quando oneri di cautela e sostegno reciproco sono condivisi proattivamente con attenzione al benessere di tutti. Le soluzioni legali ai conflitti nel riconoscimento di responsabilità e colpa per cattiva condotta intenzionale o negligenza sono, a volte, necessari strumenti di giustizia. Tuttavia, non possono sostituire la fiducia come sostanza dell’interazione umana. Unicamente quest’ultima ci guiderà attraverso la crisi, poiché solo sulla base della fiducia, l’humana communitas potrà alla fine fiorire.

Siamo chiamati a un atteggiamento di speranza, che va oltre l’effetto paralizzante di due tentazioni opposte: da una parte, la rassegnazione che sottende passivamente agli eventi, e dall’altra, la nostalgia per un ritorno al passato, che si riduce al desiderare ciò che esisteva prima. Invece, è tempo di immaginare e attuare un progetto di coesistenza umana che consenta un futuro migliore per ciascuno. Il sogno recentemente immaginato per la regione amazzonica potrebbe diventare un sogno universale, un sogno per l’intero pianeta “che integri e promuova tutti i suoi abitanti perché possano consolidare un “buon vivere” (Querida Amazonia, 8).

Città del Vaticano, 22 luglio 2020

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“La catechesi ha bisogno dello scambio di Chiese nel mondo” https://it.zenit.org/2020/06/25/la-catechesi-ha-bisogno-dello-scambio-di-chiese-nel-mondo/ https://it.zenit.org/2020/06/25/la-catechesi-ha-bisogno-dello-scambio-di-chiese-nel-mondo/#respond Thu, 25 Jun 2020 11:11:40 +0000 https://it.zenit.org/?p=121935 Conferenza Stampa di presentazione del Direttorio per la Catechesi redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione - Intervento di S.E. Mons. Franz-Peter Tebartz-van Elst

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Alle ore 11.30 di questa mattina, presso l’Aula “Giovanni Paolo II” della Sala Stampa della Santa Sede, in Via della Conciliazione 54, ha luogo una Conferenza Stampa di presentazione del Direttorio per la Catechesi redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Intervengono: S.E. Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; S.E. Mons. Octavio Ruiz Arenas, Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; S.E. Mons. Franz-Peter Tebartz-van Elst, Delegato per la Catechesi del medesimo Pontificio Consiglio.

Intervento di S.E. Mons. Franz-Peter Tebartz-van Elst

Dopo la presentazione da parte del Presidente e del Segretario dei contenuti e delle linee guida del nuovo Direttorio, vorrei infine indicare brevemente alcuni aspetti che sono importanti per lavorare con il nuovo documento in questi tempi. Mi sembra che ci siano sette punti sui quali dobbiamo riflettere.

1. Il nuovo Direttorio è molto attento ai segni dei tempi e cerca di interpretarli alla luce del Vangelo – come dice la Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes. Infatti questi sono le principali sfide di una cultura digitale, il contesto della trasmissione della fede nella famiglia nella sua composizione intergenerazionale. Inoltre, il nuovo Direttorio presta grande attenzione a tutte le questioni relative alla crisi ecologica e, per quanto riguarda la catechesi, fa riferimento all´Enciclica papale Laudato Si´. In questa considerazione dei segni dei tempi, c´è un orientamento del Direttorio che non assume una posizione unilaterale e indifferenziata da una parte, ma aiuta a considerare opportunità e limiti in modo adeguato. Tale riflessione crea la motivazione per agire appropriatamente in un corrispondente campo di apprendimento catechetico.

2. In questo contesto, il nuovo Direttorio per la catechesi dà più coraggio al contenuto della fede. Basato sulla Lettera Apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium, il kerygma non è quindi inteso in senso stretto come una fede racchiusa in alcune frasi, ma come una testimonianza che crea nuove testimonianze.

3. In riferimento all´Esortazione Apostolica Evangelii nuntiandi dell’anno 1975 e in gran parte ispirato dal documento Evangelii gaudium, il nuovo Direttorio sottolinea l´importanza della catechesi come parte indispensabile per un più ampio processo di evangelizzazione. Anche in questo senso il Direttorio attuale è continuità e innovazione allo stesso tempo. Sottolineando le responsabilità specifiche per la catechesi – dal vescovo come primo catechista della sua diocesi ai nonni – la catechesi non può essere delegata ma è l’essenza più intima di tutte le forme e i modi di predicare la fede.

4. Come il precedente Direttorio dell’anno 1997, l’attuale documento orienta il processo di qualsiasi catechesi basato sul catecumenato come via originale di iniziazione cristiana. Soprattutto sotto le attuali sfide di una pastorale missionaria, il catecumenato sta diventando un paradigma nel contenuto e nella struttura per insegnare e interiorizzare la fede personalmente. È così che cresce il possesso di un´identità cristiana ed ecclesiale.

5. A partire dalla Lettera Apostolica Amoris laetitia il nuovo Direttorio promuove anche lo sviluppo di un catecumenato-matrimonio in questo senso in analogia al processo di iniziazione, per enfatizzare la fase preparatoria del matrimonio nel suo significato catechistico.

6. Più dei precedenti Direttorii del 1971 e del 1997, l´attuale documento sottolinea un´idea centrale della Lettera Apostolica Evangelii gaudium. In essa Papa Francesco parla espressamente dell´importanza della via pulchritudinis come punto di partenza centrale per l´evangelizzazione in epoca postmoderna. Questa delinea la comprensione che la bellezza non deve essere fraintesa come estetismo, ma piuttosto – sulle orme di Papa Benedetto XVI – che la verità è bella e la bellezza è vera.

7. La grande aspettativa del nuovo Direttorio per la catechesi – specialmente nei paesi anglosassoni e dell’Europa sud e est, negli Stati Uniti e nell’America-nord e sud, in Africa e in Asia – mostra che la catechesi ha bisogno dello scambio di Chiese nel mondo. Il grande impegno di molte Chiese locali nello sviluppo dei propri Direttorii diocesani per la catechesi acquisirà nuova ispirazione e motivazione dal nuovo documento. Questa è la mia esperienza derivata dalle molteplici conferenze sulla catechesi a cui ho potuto partecipare negli ultimi anni nelle varie Chiese locali e dalle considerazioni che molte persone mi hanno espresso, insieme alla loro grande aspettativa e gioia per il nuovo documento.

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“La fede ha bisogno di essere sostenuta con una dottrina capace di illuminare la mente e il cuore dei credenti” https://it.zenit.org/2020/06/25/la-fede-ha-bisogno-di-essere-sostenuta-con-una-dottrina-capace-di-illuminare-la-mente-e-il-cuore-dei-credenti/ https://it.zenit.org/2020/06/25/la-fede-ha-bisogno-di-essere-sostenuta-con-una-dottrina-capace-di-illuminare-la-mente-e-il-cuore-dei-credenti/#respond Thu, 25 Jun 2020 10:57:43 +0000 https://it.zenit.org/?p=121932 Conferenza Stampa di presentazione del Direttorio per la Catechesi redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione - Intervento di S.E. Mons. Octavio Ruiz Arenas

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Alle ore 11.30 di questa mattina, presso l’Aula “Giovanni Paolo II” della Sala Stampa della Santa Sede, in Via della Conciliazione 54, ha luogo una Conferenza Stampa di presentazione del Direttorio per la Catechesi redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Intervengono: S.E. Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; S.E. Mons. Octavio Ruiz Arenas, Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; S.E. Mons. Franz-Peter Tebartz-van Elst, Delegato per la Catechesi del medesimo Pontificio Consiglio.

Intervento di S.E. Mons. Octavio Ruiz Arenas

Papa Benedetto XVI, nel trasferire la responsabilità della catechesi al Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, ha voluto sottolineare l’importantissimo ruolo della catechesi nella realizzazione della missione fondamentale della Chiesa: l’evangelizzazione. Proprio in una delle sessioni finali della XIII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi su “La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana”, aveva espresso questa intenzione, che ha concretizzato il 16 gennaio 2013 con la pubblicazione della Lettera Apostolica Fides per Doctrinam, nella quale si afferma che la fede ha bisogno di essere sostenuta con una dottrina capace di illuminare la mente e il cuore dei credenti, poiché il particolare momento storico in cui viviamo, segnato tra l’altro da una drammatica crisi di fede, richiede una consapevolezza che risponda alle grandi speranze che sorgono nel cuore dei credenti a causa delle nuove domande che sfidano il mondo e la Chiesa.

L’intelligenza della fede, quindi, richiede sempre che i suoi contenuti siano espressi con un linguaggio nuovo, capace di presentare la speranza presente nei credenti a tutti coloro che chiedono la loro ragione (cfr 1 Pt 3,15). La catechesi è chiamata a un rinnovamento che non può consistere solo in un cambiamento di strategia, o nell’elaborazione di discorsi semplicemente più attraenti. Questo Pontificio Consiglio, quindi, ha avuto fin dall’inizio come una delle sue principali prerogative la trasmissione della fede come parte essenziale della realizzazione della missione che il Signore ha affidato alla Chiesa, unitamente alla consapevolezza di come la testimonianza di fede è vissuta nella società odierna.

Infatti, la Chiesa non vive più in un regime di cristianità ma in una società secolarizzata, in cui il fenomeno della lontananza dalla fede è aggravato dal senso del sacro ormai perduto e la scala dei valori cristiani messa in discussione. Molti dei fedeli non sempre sono pienamente convinti di ciò in cui credono, o consapevoli dei fondamenti della fede che professano e talvolta non ne hanno un’esperienza autentica. Sulla base di ciò dobbiamo essere consci che molti battezzati non hanno mai ricevuto un’iniziazione cristiana, non sono stati incoraggiati dal kerygma, non hanno raggiunto un incontro personale con Cristo o non hanno avuto il sostegno e l’accompagnamento della comunità cristiana. Per approfondire il rapporto catechesi-evangelizzazione, questo Pontificio Consiglio ha organizzato una serie di incontri con i vescovi e i responsabili dei dipartimenti di nuova evangelizzazione e catechesi delle Conferenze episcopali di America Latina, Europa e Stati Uniti.

Poi nel marzo 2015, qui a Roma, un seminario di studio con esperti del mondo accademico e delle organizzazioni pastorali nel campo della catechesi, ha operato nell’intento di dare una visione globale della situazione della catechesi. Si è ritenuto necessario, inoltre, approfondire la comprensione di come l’attività catechistica si inserisce nel processo di nuova evangelizzazione. Così, nel maggio 2015, è stata elaborata una bozza di documento dal titolo «Catechesi e nuova evangelizzazione» che, partendo dal Direttorio generale per la catechesi, ha assunto quanto indicato da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Questo progetto è stato presentato ai Membri di questo Pontificio Consiglio durante la II Assemblea Plenaria, tenutasi dal 27 al 29 maggio 2015, e alla fine è stato deciso che sarebbe stato più opportuno effettuare un aggiornamento del Direttorio del 1997.

Per svolgere questo compito è stata convocata a Roma una Commissione di esperti per esaminare il Direttorio generale per la catechesi e richiedere le loro proposte di aggiornamento. Questa Commissione era composta da dodici esperti provenienti da Brasile, Colombia, Messico, Stati Uniti e vari paesi europei (Croazia, Francia, Italia, Polonia, Regno Unito, Spagna e Ucraina), oltre ai superiori del Pontificio Consiglio, un vescovo delle Chiese orientali, sei sacerdoti, una religiosa, tre laiche e un laico. Si sono svolti tre incontri durante l’anno 2016. Nel primo è stato esaminato il suddetto Direttorio e si è preso atto dei punti da rivedere e aggiornare, nel secondo sono stati condivisi i vari suggerimenti, ed infine, nel terzo è stato redatto un documento che ha cercato di riflettere le conclusioni raggiunte durante le tre sessioni. Questo testo è stato ampiamente studiato e si è concluso che era più opportuno rielaborare un nuovo Direttorio che rispondesse in modo più diretto alle sfide che si presentano oggi per la Chiesa, tenendo conto dei grandi cambiamenti culturali avvenuti negli ultimi anni ed altresì del ricco magistero pontificio di questo periodo.

Preparata una prima bozza, è stata inviata nell’aprile 2017 a più di cento esperti dei cinque continenti: cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e laici competenti in Sacra Scrittura, teologia, catechesi, liturgia e teologia pastorale. Sono state consultate anche diverse Conferenze episcopali e alcune Università, nonché i membri del Consiglio Internazionale di Catechesi (Co.In.Cat.) e i commenti ricevuti sono stati presi in considerazione per la stesura di una seconda bozza.

Nel settembre 2017 si è tenuto un incontro con i Consultori del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione nel quale è stata fatta una speciale riflessione sul tema dei giovani e della pietà popolare, temi importanti nella preparazione del Direttorio stesso. Durante la IV Assemblea Plenaria (27-29 settembre 2017), gli Eminenti ed Eccellenti Membri hanno approvato in sostanza la quarta bozza del Direttorio e nei giorni 16-17 ottobre il Consiglio Internazionale di Catechesi riunito ha discusso alcuni temi di interesse per il nuovo Direttorio quali la realtà giovanile, la cultura digitale, la pietà popolare e la catechesi per e con persone con disabilità.

A partire da questi incontri si è proceduto a ulteriori consultazioni, con le necessarie correzioni, fino a raggiungere il testo attuale del nuovo Direttorio per la Catechesi: dopo dodici bozze e quasi sei anni di lavoro è stato approvato dal Santo Padre il 23 marzo u.s., nella memoria liturgica di san Turibio di Mogrovejo, e ne ha ordinato la pubblicazione.

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“L’evangelizzazione è il compito che il Signore Risorto ha affidato alla sua Chiesa” https://it.zenit.org/2020/06/25/levangelizzazione-e-il-compito-che-il-signore-risorto-ha-affidato-alla-sua-chiesa/ https://it.zenit.org/2020/06/25/levangelizzazione-e-il-compito-che-il-signore-risorto-ha-affidato-alla-sua-chiesa/#respond Thu, 25 Jun 2020 10:13:01 +0000 https://it.zenit.org/?p=121929 Conferenza Stampa di presentazione del Direttorio per la Catechesi redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione - Intervento di S.E. Mons. Rino Fisichella

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Alle ore 11.30 di questa mattina, presso l’Aula “Giovanni Paolo II” della Sala Stampa della Santa Sede, in Via della Conciliazione 54, ha luogo una Conferenza Stampa di presentazione del Direttorio per la Catechesi redatto dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Intervengono: S.E. Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; S.E. Mons. Octavio Ruiz Arenas, Segretario del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione; S.E. Mons. Franz-Peter Tebartz-van Elst, Delegato per la Catechesi del medesimo Pontificio Consiglio.

Intervento di S.E. Mons. Rino Fisichella

La pubblicazione di un Direttorio per la Catechesi rappresenta un felice evento per la vita della Chiesa. Per quanti sono dediti al grande impegno della catechesi, infatti, può segnare una provocazione positiva perché permette di sperimentare la dinamica del movimento catechetico che ha sempre avuto una presenza significativa nella vita della comunità cristiana.

Il Direttorio per la Catechesi è un documento della Santa Sede affidato a tutta la Chiesa. Ha richiesto molto tempo e fatica, e giunge a conclusione di una vasta consultazione internazionale. Oggi si presenta l’edizione ufficiale in lingua italiana. Sono già pronte, comunque, le traduzioni in spagnolo (edizione per l’America Latina e la Spagna), in portoghese (edizione per il Brasile e Portogallo), inglese (edizione per USA e Regno Unito), francese e polacco.

È rivolto in primo luogo ai Vescovi, primi catechisti tra il popolo di Dio, perché primi responsabili della trasmissione della fede (cfr. n. 114). Insieme a loro sono coinvolte le Conferenze episcopali, con le rispettive Commissioni per la catechesi, per condividere ed elaborare un auspicato progetto nazionale che sostenga il cammino delle singole diocesi (cfr. n. 413). I più direttamente coinvolti nell’uso del Direttorio, comunque, rimangono i sacerdoti, i diaconi, le persone consacrate, e i milioni di catechisti e catechiste che quotidianamente offrono con gratuità, fatica e speranza il loro ministero nelle differenti comunità. La dedizione con cui operano, soprattutto in un momento di transizione culturale come questo, è il segno tangibile di quanto l’incontro con il Signore possa trasformare un catechista in un genuino evangelizzatore.

A partire dal Concilio Vaticano II questo che oggi presentiamo è il terzo Direttorio. Il primo del 1971, Direttorio catechistico generale, e il secondo del 1997, Direttorio generale per la catechesi, hanno segnato questi ultimi cinquant’anni di storia della catechesi. Questi testi hanno svolto un ruolo primario. Sono stati un aiuto importante per far compiere un passo decisivo al cammino catechetico, soprattutto rinnovando la metodologia e l’istanza pedagogica. Il processo di inculturazione che caratterizza in particolare la catechesi e che soprattutto ai nostri giorni impone un’attenzione del tutto particolare ha richiesto la composizione di un nuovo Direttorio.

La Chiesa è dinanzi a una grande sfida che si concentra nella nuova cultura con la quale si viene a incontrare, quella digitale. Focalizzare l’attenzione su un fenomeno che si impone come globale, obbliga quanti hanno la responsabilità della formazione a non tergiversare. A differenza del passato, quando la cultura era limitata al contesto geografico, la cultura digitale ha una valenza che risente della globalizzazione in atto e ne determina lo sviluppo. Gli strumenti creati in questo decennio manifestano una radicale trasformazione dei comportamenti che incidono soprattutto nella formazione dell’identità personale e nei rapporti interpersonali.

La velocità con cui si modifica il linguaggio, e con esso le relazioni comportamentali, lascia intravedere un nuovo modello di comunicazione e di formazione che tocca inevitabilmente anche la Chiesa nel complesso mondo dell’educazione. La presenza delle varie espressioni ecclesiali nel vasto mondo di internet è certamente un fatto positivo, ma la cultura digitale va ben oltre. Essa tocca in radice la questione antropologica decisiva in ogni contesto formativo, come quello della verità e della libertà. Già porre questa problematica impone di verificare l’adeguatezza della proposta formativa da qualunque parte provenga. Essa diventa, comunque, un confronto imprescindibile per la Chiesa in forza della sua “competenza” sull’uomo e la sua pretesa veritativa. Forse, solo per questa premessa si rendeva necessario un nuovo Direttorio per la catechesi.

Nell’epoca digitale, vent’anni sono paragonabili senza esagerazione ad almeno mezzo secolo. Da qui è derivata l’esigenza di redigere un Direttorio che prendesse in considerazione con grande realismo il nuovo che si affaccia, con il tentativo di proporne una lettura che coinvolgesse la catechesi. È per questo motivo che il Direttorio presenta non solo le problematiche inerenti la culturale digitale, ma suggerisce anche quali percorsi effettuare perché la catechesi diventi una proposta che trova l’interlocutore in grado di comprenderla e di vederne l’adeguatezza con il proprio mondo. Esiste, comunque, una ragione più di ordine teologico ed ecclesiale che ha convinto a redigere questo Direttorio. L’invito a vivere sempre più la dimensione sinodale non può far dimenticare gli ultimi Sinodi che la Chiesa ha vissuto. Nel 2005 quello sull’Eucaristia fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa; nel 2008 La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa; nel 2015 La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo; nel 2018 I giovani, la fede e il discernimento vocazionale.

Come si può osservare, ritornano delle costanti in tutte queste assemblee che toccano da vicino il tema dell’evangelizzazione e della catechesi come si può verificare dai documenti che ne hanno fatto seguito. Più in particolare è doveroso far riferimento a due scadenze che in maniera complementare segnano la storia di questo ultimo decennio per quanto riguarda la catechesi: il Sinodo sulla Nuova evangelizzazione e trasmissione della fede nel 2012, con la conseguente Esortazione apostolica di Papa Francesco Evangelii gaudium, e il venticinquesimo anniversario della pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, ambedue toccano direttamente la competenza del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

L’evangelizzazione occupa il posto primario nella vita della Chiesa e nel quotidiano insegnamento di papa Francesco. Non potrebbe essere altrimenti. L’evangelizzazione è il compito che il Signore Risorto ha affidato alla sua Chiesa per essere nel mondo di ogni tempo l’annuncio fedele del suo Vangelo. Prescindere da questo presupposto equivarrebbe a rendere la comunità cristiana una delle tante associazioni benemerite, forte dei suoi duemila anni di storia, ma non la Chiesa di Cristo. La prospettiva di Papa Francesco, tra l’altro, si pone in forte continuità con l’insegnamento di san Paolo VI nella Evangelii nuntiandi del 1975. Ambedue non fanno altro che riferirsi alla ricchezza scaturita dal Vaticano II che, per quanto riguarda la catechesi, ha trovato nella Catechesi tradendae (1979) di san Giovanni Paolo II il suo punto focale.

La catechesi, quindi, va intimamente unita all’opera di evangelizzazione e non può prescindere da essa. Ha bisogno di assumere in sé le caratteristiche stesse dell’evangelizzazione, senza cadere nella tentazione di diventarne un sostituito o di voler imporre all’evangelizzazione le proprie premesse pedagogiche. In questo rapporto il primato spetta all’evangelizzazione non alla catechesi. Ciò permette di comprendere perché alla luce di Evangelii gaudium, questo Direttorio si qualifica per sostenere una “catechesi kerygmatica”.

Cuore della catechesi è l’annuncio della persona di Gesù Cristo, che sorpassa i limiti di spazio e tempo per presentarsi ad ogni generazione come la novità offerta per raggiungere il senso della vita. In questa prospettiva, viene indicata una nota fondamentale che la catechesi deve fare propria: la misericordia. Il kerygma è annuncio della misericordia del Padre che va incontro al peccatore non più considerato come un escluso, ma un invitato privilegiato al banchetto della salvezza che consiste nel perdono dei peccati. Se si vuole, è in questo contesto che prende forza l’esperienza del catecumenato come esperienza del perdono offerto e della vita nuova di comunione con Dio che ne consegue. La centralità del kerygma, comunque, deve essere recepita in senso qualitativo non temporale. Richiede, infatti, che sia presente in tutte le fasi della catechesi e di ogni catechesi. E’ il “primo annuncio” che sempre viene fatto perché Cristo è l’unico necessario.

La fede non è qualcosa di ovvio che si recupera nei momenti del bisogno, ma un atto di libertà che impegna tutta la vita. Il Direttorio, quindi, fa sua la centralità del kerygma che si esprime in senso trinitario come impegno di tutta la Chiesa. La catechesi come espressa dal Direttorio, si caratterizza per questa dimensione e per le implicanze che porta nella vita delle persone. Tutta la catechesi, in questo orizzonte, acquista una valenza peculiare che si esprime nell’approfondimento costante del messaggio evangelico. La catechesi, insomma, ha lo scopo di far raggiungere la conoscenza dell’amore cristiano che porta quanti l’hanno accolto a divenire discepoli evangelizzatori. Il Direttorio si snoda toccando diverse tematiche che non fanno altro che rimandare all’obiettivo di fondo.

Una prima dimensione è la mistagogia che viene presentata attraverso due elementi complementari tra loro: anzitutto, una rinnovata valorizzazione dei segni liturgici dell’iniziazione cristiana; inoltre, la progressiva maturazione del processo formativo in cui tutta la comunità è coinvolta. La mistagogia è una via privilegiata da seguire, ma non è facoltativa nel percorso catechetico, rimane come un momento obbligato perché inserisce sempre più nel mistero che si crede e si celebra. È la consapevolezza del primato del mistero che porta la catechesi a non isolare il kerygma dal suo contesto naturale. L’annuncio della fede è pur sempre annuncio del mistero dell’amore di Dio che si fa uomo per la nostra salvezza. La risposta non può esulare dall’accogliere in sé il mistero di Cristo per permettere di fare luce sul mistero della propria esperienza personale (cfr. GS 22).

Un ulteriore tratto di novità del Direttorio è il legame tra evangelizzazione e catecumenato nelle sue varie accezioni (cfr. n.62). È urgente compiere la “conversione pastorale” per liberare la catechesi da alcuni lacci che ne impediscono l’efficacia. Il primo, lo si può identificare nello schema scolastico, secondo il quale la catechesi dell’Iniziazione cristiana è vissuta sul paradigma della scuola. La catechista sostituisce la maestra, all’aula della scuola subentra quella del catechismo, il calendario scolastico è identico a quello catechistico… Il secondo, è la mentalità secondo la quale si fa la catechesi per ricevere un sacramento. È ovvio che una volta terminata l’Iniziazione si crei il vuoto per la catechesi. Un terzo, è la strumentalizzazione del sacramento a opera della pastorale, per cui i tempi del sacramento della Confermazione sono stabiliti dalla strategia pastorale di non perdere il piccolo gregge di giovani rimasto in parrocchia e non dal significato che il sacramento possiede in se stesso nell’economia della vita cristiana.

Papa Francesco ha scritto che “Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente una cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove. In questa prospettiva, tutte le espressioni di autentica bellezza possono essere riconosciute come un sentiero che aiuta ad incontrarsi con il Signore Gesù… Si rende necessario che la formazione nella via pulchritudinis sia inserita nella trasmissione della fede” (Eg 167).

Una nota di particolare valenza innovativa per la catechesi può essere espressa dalla via della bellezza soprattutto per permettere di conoscere il grande patrimonio di arte, letteratura e musica che ogni Chiesa locale possiede. In questo senso, si comprende perché il Direttorio abbia posto la via della bellezza come una delle “fonti” della catechesi (cfr. nn. 106-109). Un’ultima dimensione offerta dal Direttorio si ritrova nell’aiutare a inserirsi progressivamente nel mistero della fede. Questa connotazione non può essere delegata a una sola dimensione della fede o della catechesi. La teologia indaga con gli strumenti della ragione il mistero rivelato. La liturgia celebra ed evoca il mistero con la vita sacramentale. La carità riconosce il mistero del fratello che tende la mano. La catechesi, alla stessa stregua, introduce progressivamente ad accogliere e vivere globalmente il mistero nell’esistenza quotidiana.

Il Direttorio fa propria questa visione quando chiede di esprimere una catechesi che sappia farsi carico di mantenere unito il mistero pur articolandolo nelle diverse fasi di espressione. Il mistero quando è colto nella sua realtà profonda, richiede il silenzio. Una vera catechesi non sarà mai tentata di dire tutto sul mistero di Dio. Al contrario, essa dovrà introdurre alla via della contemplazione del mistero facendo del silenzio la sua conquista. Il Direttorio, pertanto, presenta la catechesi kerygmatica non come una teoria astratta, piuttosto come uno strumento con una forte valenza esistenziale. Questa catechesi trova il suo punto di forza nell’incontro che permette di sperimentare la presenza di Dio nella vita di ognuno. Un Dio vicino che ama e che segue le vicende della nostra storia perché l’incarnazione del Figlio lo impegna in modo diretto. La catechesi deve coinvolgere ognuno, catechista e catechizzando, nell’esperire questa presenza e nel sentirsi coinvolto nell’opera di misericordia.

Insomma, una catechesi di questo genere permette di scoprire che la fede è realmente l’incontro con una persona prima di essere una proposta morale, e che il cristianesimo non è una religione del passato, ma un evento del presente. Un’esperienza come questa favorisce la comprensione della libertà personale, perché risulta essere il frutto della scoperta di una verità che rende liberi (cfr. Gv 8,31). La catechesi che dà il primato al kerygma si pone all’opposto di ogni imposizione, fosse anche quella di un’evidenza che non permette vie di fuga. La scelta di fede, infatti, prima di considerare i contenuti a cui aderire con il proprio assenso, è un atto di libertà perché si scopre di essere amati. In questo ambito, è bene considerare con attenzione quanto il Direttorio propone circa l’importanza dell’atto di fede nella sua duplice articolazione (cfr. n. 18). Per troppo tempo la catechesi ha focalizzato il suo impegno nel far conoscere i contenuti della fede e con quale pedagogia trasmetterli, tralasciando purtroppo il momento più determinante come l’atto di scegliere la fede e dare il proprio assenso.

Ci auguriamo che questo nuovo Direttorio per la Catechesi possa essere di vero aiuto e sostegno al rinnovamento della catechesi nell’unico processo di evangelizzazione che la Chiesa da duemila anni non si stanca di realizzare, perché il mondo possa incontrare Gesù di Nazareth, il figlio di Dio fatto uomo per la nostra salvezza.

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