Giovanni Chifari, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/giovannichifari/ Il mondo visto da Roma Thu, 23 Mar 2017 08:30:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Giovanni Chifari, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/giovannichifari/ 32 32 Spunti teologici su Amoris Laetitia https://it.zenit.org/2017/03/23/spunti-teologici-su-amoris-laetitia/ Thu, 23 Mar 2017 08:30:51 +0000 https://it.zenit.org/?p=100026 Alterità, reciprocità e differenze e dinamismo dell’amore coniugale. Gli interventi di don Massimo Naro e don Giuseppe Alcamo presso la Facoltà Teologica di Sicilia

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L’Amoris Laetitia come frutto di una Tradizione vivente che si rinnova sempre nel confronto con la Scrittura e con i soggetti di ogni cultura e tempo. Ad un anno dalla pubblicazione dell’Esortazione Apostolica, la X Giornata di Studi di Catechetica che si è svolta il 17 marzo presso la Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista” di Palermo, ha offerto alcuni spunti interessanti che qui proviamo a sintetizzare.
Papa Francesco ha più volte ribadito che l’Amoris Laetitia va letta tutta, dall’inizio alla fine. Un atto di magistero che com’è noto è giunto dopo un tempo di preparazione che aveva interpellato nelle sue fasi preparatorie e propedeutiche l’intera cristianità, dando voce alle comunità locali, alle facoltà teologiche e a diversi altri interpreti. Una prova di maturità per la comunità cristiana, chiamata non soltanto a proiettare aspettative dei singoli, bisogni e desideri, ma in modo più profondo, a mettersi in ascolto della voce dello Spirito e quindi della Parola dell’Evangelo. L’Esortazione allora nella misura in cui consegna una guida e una parola salda, ancorata alla Tradizione della Chiesa, non smette tuttavia d’interpellare, favorendo il dialogo e il confronto a più livelli, ricordando che la Tradizione è un’eredità vivente e quindi dinamica, dove cioè si realizza un’osmosi tra memoria e profezia. Segnale di tale processo sono le varie linee guida offerte da diverse conferenze episcopali, un’espressione di quella sinodalità auspicata dal Concilio Vaticano II.
Ritengo che in questa luce possano essere colti e valorizzati tutti quei contributi allo studio e alla ricerca teologica che vanno via via maturando nelle varie realtà accademiche e non.
Gli studi e le proposte del Forum teologico catechetico di Palermo possono essere letti e accolti in questa prospettiva. Fra i diversi contributi interessanti e degni di nota, focalizzeremo l’attenzione sulla relazione di don Massimo Naro, teologo sistematico, dal titolo: “Dall’altro, con l’altro, per l’altro: valorizzazione dell’alterità e delle differenze nell’esperienza familiare”; e quella di don Giuseppe Alcamo, docente di catechetica, che ha invece approfondito il cuore dell’Esortazione, il capitolo quarto: “L’amore nel matrimonio”, alla luce dell’inno di 1 Cor 13.
Alterità e differenze nella realtà coniugale
“Nulla è più esigente dell’amore”, così recitava il titolo della Giornata di Studi. Un amore esigente, perché tale è, spiega don Naro, la «serietà dell’amore coniugale», risposta «al suo fondamento vocazionale», a motivo del quale «anche il consenso che i coniugi si scambiano non è soltanto un reciproco sì, ma soprattutto un sì rivolto – all’unisono – nei confronti di Dio, una risposta positiva alla sua chiamata».
L’intervento del teologo sistematico ha consentito di inserire la questione dell’amore coniugale e familiare all’interno di quella configurazione relazionale, di «comunità e comunione» che caratterizza anche l’esperienza ecclesiale, e quindi di cogliere la portata ecclesiale dell’esperienza familiare. Un’operazione che ha messo in luce il nesso di continuità tra Amoris Laetitia e il Concilio Vaticano II, tra Gaudium et Spes e il magistero di Papa Francesco a partire dal suo pressante invito a non omologare l’unità della comunità ecclesiale in uniformità (AL 139).
Per lo studioso nisseno nel magistero di Papa Francesco, da EG a AL, è possibile rintracciare «una sintassi dell’alterità e della reciprocità» che «vale fontalmente per la Trinità e quindi per la Chiesa», ma che «entra in vigore anche per la realtà familiare e per l’esperienza coniugale». Il prof. Naro osserva che la presentazione dell’amore degli sposi come riflesso della Trinità costituisce una sorta di «antifona all’esortazione papale». E quindi con Amoris Laetitia «le dimensioni dell’alterità e della differenza» e lo stesso «statuto relazionale» escono da una considerazione implicita per essere maggiormente valorizzate, fino a descrivere la famiglia come «il luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri». Amoris Laetitia coniuga dunque «l’ecclesialità della famiglia e la familiarità della Chiesa».
La questione dell’Alterità tuttavia proviene da una stagione storica e culturale che ha visto un progressivo «misconoscimento dell’Altro» e che ha portato a un «fraintendimento teologico ed esistenziale dell’alterità», da Kant ad Hegel fino a Nietzsche, trovando una intensa dialettica nelle repliche di Barth prima e di Guardini dopo. Naro si muove invece sulla scia della svolta favorevole all’alterità, maturata da alcuni pensatori come Martin Buber e Michel de Certeau, proponendo una triplice declinazione dell’alterità: dall’altro, con l’altro e per l’altro.
Alterità dall’altro nel senso che «l’alterità tra l’uomo e la donna, tra il maschio e la femmina», già nel racconto biblico, è «un’alterità-compatibile, non assoluta, non confinata nell’estraneità», e dunque «sancisce la distinzione tra i due, ma non la distanza». Ciò significa che «tra Adamo e Eva – spiega ancora Naro – c’è una relazione di provenienza per la quale l’alterità è riscattata dall’ipoteca dell’estraneità». Sarebbe proprio questo uno degli aspetti che Gesù avrebbe suggerito ai farisei, fermi al legalismo più o meno marcato delle due scuole contendenti, Hillel e Shammai, con il rimando al testo di Genesi, e dunque alla realtà delle origini, nella polemica, da essi stessi sollevata, circa il matrimonio. Sulla questione dell’indissolubilità Naro richiama Walter Kasper, per affermare che essa «non dipende da alcuna legge, ma è insita “nella natura antropologica del matrimonio” e si deve al “progetto originario di Dio” (AL 62)», e poi rilegge Papa Francesco, che indicando la coppia, uomo-donna, come immagine di Dio, può affermare che  la loro differenza «non è per la contrapposizione, o la subordinazione, ma per la comunione e la generazione» (15 aprile 2015).
«L’alterità è allora una dimensione interna, interiore e costitutiva dell’essere umano», che si scopre come un «soggetto plurale», con un «respiro comunionale». Esperienza che lo porta a «vivere con l’altro», anzi, a «portarsi dentro l’altro» e «portarsi l’altro dentro». Così «maschio e femmina», spiega ancora Naro, «sono un merismo, come il cielo e la terra dell’essere umano».
Lo studioso riconosce le medesime intuizioni nell’Esortazione di Papa Francesco che «parla di un’“estetica dell’amore” coniugale, capace di ricondurre la “bellezza” all’«alto valore» dell’altro, che «non coincide con le sue attrattive fisiche o psicologiche» ma con la sua dignità di “essere umano” (AL 127-128). «Per “riconoscere la verità dell’altro” occorre “interpretare la profondità del suo cuore” (AL 138), onde riscoprirsi lì coinvolto e presente […] Così, nell’amore coniugale, si punta in definitiva a «rendersi a vicenda più uomo e più donna» e ad «aiutare l’altro a modellarsi nella sua propria identità»: “Per questo l’amore è artigianale” (AL 221). Esso “si prende cura dell’immagine degli altri” (AL 112)».
Il ritrovarsi nell’altro e il permanere con l’altro sono dunque per Naro «condizioni esistenziali basate – come scrive Francesco in AL 100 – su un reciproco «senso di appartenenza» senza cui «non si può sostenere una [effettiva] dedizione agli altri». Da qui, dunque, anche il vivere per l’altro, in cui consiste l’amore coniugale.
L’amore nel matrimonio
Don Giuseppe Alcamo si è invece soffermato sul tema dell’amore nel matrimonio (AL 89-164), investigando sulla visione dinamica dell’amore coniugale e familiare. Condizione di partenza la consapevolezza che «la logica della crescita dal punto di vista catechetico è decisiva, per comprendere non solo la complessità dell’amore coniugale e familiare in sé, ma anche in relazione alla fragilità dell’uomo». L’intuizione invece quella di sviluppare la correlazione tra il capitolo quarto di Amoris Laetitia e il testo paolino del capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi.
«La presentazione che in 1 Cor 13 Paolo fa dell’amore – esordisce don Alcamo – non è teorica né astratta, ma risponde ai bisogni dei suoi interlocutori: passare da uomini carnali a uomini spirituali, attraverso la debolezza della croce, che è “potenza di Dio e sapienza di Dio”(cf. 1Cor 1,24; 3,3-7)». Per Paolo, infatti, continua il teologo, «la debolezza umana è il luogo privilegiato dove si rivela la potenza di Dio», da qui nasce «tutta la sua teologia sul primato della grazia». Interessante il rimando ai casi spinosi che Paolo dovette affrontare presso la Chiesa di Corinto. Tra questi «il caso pubblico di un uomo che convive con la seconda moglie del padre, che scandalizza la comunità»; e «i conflitti tra i libertini e i puritani che si fronteggiano su questioni sessuali e sul matrimonio». La risposta di Paolo è il riferimento all’agape, come «il principio e il fondamento di una comunità che accoglie i doni dello Spirito» e quindi «l’agape di cui parla Paolo è quindi una via/persona da attraversare/incontrare e vivere».
«In sintesi – spiega don Alcamo – Paolo afferma, in positivo e in negativo, che l’amore è un mistero di non facile definizione, che produce degli effetti che per l’uomo sono di vitale importanza». Nulla quindi di scontato, non un’esperienza da intendere in modo idealistico, ma qualcosa che deve imparare ad attraversare i vari tempi dell’esistenza: «Nel descrivere il mistero dell’amore, Paolo sta contemplando il crocifisso che tutto sopporta, tutto crede, tutto perdona; ma anche la vita di Gesù di Nazareth che da Servo di Yhavè, non tiene conto del male ricevuto, non si lascia condizionare dalla cattiveria degli uomini. Per Paolo amare significa essere come Gesù, imitarlo, scegliere la via della sequela». Il richiamo delle parole con cui l’Apostolo cerca di rispondere a problematiche concrete della vita delle prime comunità cristiane, secondo don Alcamo, è illuminante per introdurre «la logica evolutiva del crescere nella fede». Focalizzare l’attenzione sul contesto che ha visto maturare gli orientamenti suggeriti da Paolo significa infatti «osservare una concreta esperienza credente dentro cui rileggere ed approfondire i contenuti della fede sul sacramento del matrimonio e sulla famiglia». Così anche Papa Francesco, richiamando l’inno paolino, nel capitolo quarto dell’Esortazione, ha inteso «esplicitare la prospettiva con cui vuole accostarsi alle famiglie a ai coniugi: non “dall’alto” dei principi, ma dal di “dentro” della famiglia stessa». E dunque Francesco «in continuità con il magistero dei suoi immediati predecessori, attua il superamento della dicotomia, che per tanti secoli dalla prassi pastorale è stata favorita, tra l’amore come agape e l’amore come eros e philia», abbracciando una «logica inclusiva». Sul piano dell’esercizio della prassi pastorale, secondo il prof. Alcamo, questo comporterà per la Chiesa «l’attuazione di un processo di decentramento da sé per incontrare l’uomo e nell’uomo incontrare Dio», nella consapevolezza che «per andare incontro a Dio dobbiamo percorrere la via che Egli stesso ha percorso per venire a noi; cercare Dio dove Dio stesso ci ha preceduti, ovvero nei bassifondi della storia, nei poveri e nei fragili, nelle famiglie vacillanti o infrante, nell’uomo e nella donna che restano sempre e per tutta la loro vita deboli». «A questa visione positiva sull’uomo – conclude il sacerdote –  deve seguire la presa di coscienza che il Vangelo è la risposta vera a tutte le domande dell’uomo, è la grande speranza».

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“A Bangui è scoppiata la pace” https://it.zenit.org/2017/01/11/a-bangui-e-scoppiata-la-pace/ Wed, 11 Jan 2017 11:40:18 +0000 https://it.zenit.org/?p=96950 Padre Antonino Serventini, missionario cappuccino in Centrafrica, racconta gli effetti della visita di Papa Francesco del novembre 2015

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“Il Papa ci ha fatto un dono grandissimo: dopo di lui, è ‘scoppiata la pace!'”. Esordisce così padre Antonino Serventini, missionario cappuccino a Bangui. Nella capitale della Repubblica Centrafricana la comunità religiosa dei Frati cappuccini ormai da diversi anni accoglie centinaia di rifugiati. Padre Serventini il 2 febbraio del 1996 ha fondato un gruppo di preghiera di Padre Pio chiamandolo profeticamente: “A l’Ecole de la vie”. Chiaro il messaggio: per ricostruire si deve ripartire dalla preghiera. Perfetta sintonia con Papa Francesco che, com’è noto, ha definito Bangui “capitale spirituale del mondo”, terra “da dove s’innalza l’invocazione alla pace”.
Proprio dell’effetto di quella storica visita del 29 novembre 2015 ci parla il religioso cappuccino, devoto di Padre Pio: “La visita ha portato speranza tra i giovani e il popolo”. Una speranza concretizzata nelle pieghe dei vissuti quotidiani: “Le scuole sono ripartite e hanno rafforzato tra di loro il ritmo di formazione e hanno finito bene l’Anno, sia quelle private (numerosissime), sia quelle statali. Ma soprattutto siamo stati in grado di eleggere pacificamente il nuovo Presidente della Repubblica (a Suffragio universale) e a insediarlo, con il suo nuovo governo. Si chiama Faustin Archange Touadera, ed è di religione cristiana, protestante Battista. Ora, anche se a fatica, egli porta Avanti il suo programma”.
Permangono tuttavia dei punti di criticità, nodi ancora da sciogliere, come quello degli sfollati e dei rifugiati. “L’altra realtà – che non è affatto lieta, confida il padre – è  la presenza e la permanenza di numerosissimi sfollati nei campi di raccolta.  Sono ancora decine di migliaia: il più affollato è ancora quello dell’aeroporto internazionale M’Poko. Le autorità stanno operando una re-inserzione guidata, per non dire forzata, perché le Compagnie aeree fanno pressione per motivi di sicurezza sia degli aerei che dei profughi. L’operazione è tuttora in corso. Altri Centri di raccolta restano le parrocchie: St Sauveur, St Joseph Moukassa, St Antoine de Padoue, e poi i Carmelitani, gli Apostoli di Gesù Crocefisso (provenienti da San Giovanni Rotondo) e noi Cappuccini”.
Una Chiesa diocesana, quella di Bangui, impegnata sul fronte della carità e dell’accoglienza, percorsi dai quali è stato esonerato il Seminario Inter diocesano, in modo da non intaccare i suoi scopi formativi specifici. Coinvolte invece le Parrocchie. L’obiettivo è quello del ritorno alla normalità dopo i saccheggi e gli orrori della guerra e quindi si punta al  reinserimento delle persone nei quartieri originari di appartenenza: “La strategia di reinserimento nei quartieri – continua padre Antonio – è sostenuta e sospinta dal Governo, dagli Organismi Internazionali, dalla Caritas dell’Arcidiocesi di Bangui, e supportata dal Vaticano. Ad ognuno è offerto un “Kit” finanziario o materiale, che prevede lamiere, cemento, legname per la ricostruzione della casa distrutta o danneggiata; oppure prevede l’alloggio in piccoli monolocali in campi di raccolta alternativi. Noi Cappuccini alloggiamo ancora i nostri sfollati da tre anni; siamo in trattative e stiamo aspettando”.
Una fase che deve dunque attraversare la fatica di ripristinare percorsi d’umanità capaci di generare incontri, dialoghi e cooperazioni e che intanto, a dire del nostro interlocutore, ha trovato una sua nuova guida morale:  “Il Papa ci ha regalato un cardinale: Dieudonné Nzapalainga!”, creato nell’ultimo Concistoro. “È inutile dirvi la nostra gioia e soddisfazione – continua padre Serventini – perché quest’uomo, religioso spiritano, di origine centrafricana, non ha esitato in tutti questi anni a mettere a rischio la propria vita pur di contribuire alla pace. Ed è un uomo di fede, che sa e sperimenta che niente è impossibile per Dio”.
Un servizio, quello del neo cardinale che genera percorsi di dialogo ecumenico. Racconta ancora il missionario: “L’11 dicembre scorso allo stadio, ventimila fedeli cristiani e musulmani abbiamo reso grazie a Dio”. Non finiscono qui le novità, continuano a sbocciare nuovi germogli, opera della grazia e di chi se ne fa strumento: “Un dono ancora più bello è stato il fatto che finalmente, dopo tre anni di assenza, il popolo cristiano – e non solo! – ha potuto riprendere il suo grandioso pellegrinaggio al Santuario mariano di Ngukomba, per la festa dell’Immacolata Concezione. Almeno 200mila persone erano affluite in questo ‘Sito’, nel suo decennale di fondazione: è un avvenimento di portata internazionale perché Vescovi, Arcivescovi ed Alte personalità religiose e civili – il presidente della Repubblica in prima linea – vi accorrono e rendono omaggio a Maria”.
 

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Diaconato al femminile o diaconia della Chiesa? https://it.zenit.org/2016/08/03/diaconato-al-femminile-o-diaconia-della-chiesa/ Wed, 03 Aug 2016 10:22:46 +0000 https://it.zenit.org/?p=81950 Un dilemma antico quanto il cristianesimo, riemerso sulla scia del Concilio Vaticano II

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Con la nomina della commissione che dovrà riflettere sul tema del diaconato al femminile, riprende anche un dibattito in verità mai sopito, che oggi più che mai necessita di essere accompagnato da un sereno discernimento.
L’entusiasmo mediatico con cui questa notizia è stata accolta e i commenti di quanti leggono questa prospettiva mediante una sapienza umana, cioè come occasione di rivalsa della donna o di una parità finalmente raggiunta, disperdono il reale valore della questione e allontanano da una riflessione utile e feconda.
Si tratta infatti di una questione non nuova che non può dipendere dalla sensibilità dell’onda mediatica che sospinge e poi si ritrae, suggerisce e poi dimentica e soprattutto non lascia alcun segno dopo il suo passaggio.
Così, se è da salutare con grande favore la disponibilità del Santo Padre per approfondire tale questione, potrà essere altresì utile interrogarsi sulla percezione ecclesiale di questo percorso che si apre.
Con rigorosa acribia e con umile e mite preghiera si dovrà discernere se la questione del diaconato al femminile sia il riflesso delle attuali attese e problematiche ecclesiali o sia la risposta all’ascolto della voce dello Spirito. Detto in altro modo: cosa serve alle nostre Chiese? Cosa chiede lo Spirito?
Se quindi non si parte dal diaconato al femminile ma dalla diaconia di Cristo, si potrà favorire un dialogo che non cada nel tranello del vuoto e infecondo scontro di visioni. Centrata su Cristo, la diaconia esprime il modus vivendi dei suoi autentici discepoli. Essa vive da sempre nella Chiesa a partire dalla sua triplice scansione: l’annuncio della morte e resurrezione di Gesù (diaconia kerigmatica), il dialogo con il mondo e con la storia (diaconia profetica) e anche la stessa trasmissione della fede mediante l’insegnamento (diaconia didascalica).
Tre operazioni o diaconie che per essere autentiche richiedono che il discepolo non separi il servizio dalla sequela di Cristo, come Egli stesso volle indicare ai suoi: “Chi mi vuol servire mi segua” (Gv 12,26). La diaconia nasce dunque dalla sequela di Cristo, non si nutre di auto candidature o autoreferenzialità e non ama un eccessivo sbilanciamento sul fare. Diaconizzare non significa semplicemente fare qualcosa. C’è infatti un fare sterile, anche quello apparentemente compiuto nel nome di Gesù (Mt 7,21ss) e invece un fare fecondo in una “santa inconsapevolezza” (Mt 25,13ss).
Per tutti potranno essere di giovamento e conforto le parole dell’Apostolo San Paolo: “Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. 2Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso. 3Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. 4La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, 5perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (1Cor 2,1-5)”.
C’è una forza intrinseca nell’annuncio e quindi nella diaconia della Parola. Ricordava don Giuseppe Dossetti: “La trasmissione della fede non ha bisogno né delle persuasioni, né dei discorsi, né degli argomenti dotti e neppure delle operazioni prodigiose, e che manifesta, se mai, la potenza dello Spirito Santo che è in essa proprio, portando gli altri alla fede, e a una fede che si fonda non sulle argomentazioni e nemmeno sui prodigi, ma su questo contatto di Spirito. Dobbiamo crederlo!” (G. Dossetti, La parola di Dio seme di vita incorruttibile, 71).
E quindi procedendo dalla diaconia in Cristo del discepolo e dunque della Chiesa e focalizzando l’attenzione su quest’ultima, si scorge un’indole tutta al femminile, una diaconia materna, come rileva don Giuseppe Bellia, forse ancora da scoprire: “La diaconia della Chiesa è associata all’opera di servizio della Chiesa/corpo di Cristo, della Chiesa/sposa, e perciò ha, o dovrebbe avere, un timbro e un’intensità al femminile, fatta di dedizione generosa e discreta, come ci mostra l’impegno instancabile e perseverante di molte donne nella vita della Chiesa, ancora in gran parte da riconoscere e rivalutare come esemplarità di servizio umile e fecondo” (G. Bellia, Servi di chi. Servi perché. Piccolo manuale della diaconia cristiana, 99).
I Vangeli ci dicono inoltre che alle donne è dato ciò che è concesso anche ai discepoli, a partire dall’insegnamento. Maria, sorella di Marta, ha scelto la “parte buona” e ascolta Gesù e il suo insegnamento, e ancora il vangelo di Marco assegna proprio alle donne i tre verbi che descrivono il discepolato: “seguire”, “servire”, “salire con Lui” (cf. Mc 15,40-41). Le donne seguono e servono Gesù fino alla croce, e sono considerate discepole.
C’è allora una diaconia al femminile nelle comunità cristiane dei primi secoli, e con studio e preghiera, si dovrà comprendere se tale diaconia può esser considerata anche diaconato. Un’analisi biblica serena e non di parte, potrà evitare fenomeni di distorsione della Parola, e un approfondimento rigoroso e documentato dei dati storici, potrà giovare alla riflessione.
L’analisi delle due ricorrenze neotestamentarie, Rm 16,1-4 e 1 Tm 3,8-12, invita ad una certa cautela. Di Febe, è detto, “nostra sorella, diacono”, e cioè, formula maschile introdotta da un articolo femminile, mentre nel brano delle lettere pastorali si sta parlando delle spose dei diaconi. C’è dunque bisogno di studio. Si ricordi per esempio che la vicenda dei sette, di cui si parla in Atti degli Apostoli, non appare per nulla configurata in modo ministeriale e inoltre essi, non sono mai chiamati diaconi.
Sintetizzando i risultati degli studi sulla prassi e l’approccio delle Chiese dei primi secoli, sembrerebbero emergere scelte differenti tra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente, nessun valore sacramentale per il diaconato femminile nella prima, sembrerebbe di sì nella seconda, a partire dalla testimonianza delle Costituzioni Apostoliche tuttavia un unicum a riguardo. Si tratta di una querelle molto nota agli studiosi: cheirotonia o cheirothesia? E cioè: Ordinazione sacramentale con epiclesi o solo benedizione? Tuttavia la vera questione, che ha sostenuto il dibattito dei teologi Martimort e Vagaggini, è di natura teologica: in che rapporto sta il diaconato femminile con il sacerdozio di Cristo?
Il Concilio Vaticano II, riscoprendo l’intima connessione tra Parola, Eucarestia e servizio è approdato al ripristino del diaconato nella Chiesa.

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Mons. Romero, vita e tempi, diaconia e martirio https://it.zenit.org/2015/05/18/mons-romero-vita-e-tempi-diaconia-e-martirio/ https://it.zenit.org/2015/05/18/mons-romero-vita-e-tempi-diaconia-e-martirio/#respond Mon, 18 May 2015 13:34:01 +0000 https://it.zenit.org/mons-romero-vita-e-tempi-diaconia-e-martirio/ Il futuro beato fu profeta di una Chiesa sempre chiamata ad essere esperto in umanità

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La beatificazione di Mons. Oscar Arnulfo Romero è un’utile occasione per guardare alla sua diaconia e al suo martirio ricercando nella sua esperienza biografica il passaggio di Dio, la lenta e graduale opera della grazia divina e la risposta dell’uomo. Vita e tempi di un discepolo di Cristo che si presenta come paradigma profetico di una Chiesa sempre chiamata ad essere esperta in umanità.

Cercando di scrutare il cammino della grazia divina nell’esistenza del sacerdote e vescovo salvadoregno, osserviamo che essa procede gradualmente, possiamo dire di luce in luce, avvalendosi anche dei rallentamenti, delle brusche frenate, dei cambiamenti di rotta rispetto a un’idea o una volontà di partenza che poi invece diviene altro. Quando accade tutto ciò è sempre buon segno, perché significa che si sta facendo la volontà di Dio e non la propria. E anche quando gli ostacoli provengono dal male, sono come riconvertiti in bene, nel senso che alla fine concorrono all’opera della grazia, operando purificazioni in chi ne è destinatario. Se ne incontrano diverse di queste situazioni nella biografia di Mons. Romero. In primis il suo amore per lo studio ma già a  dodici anni l’interruzione a causa di una grave malattia; poi la percezione della chiamata al sacerdozio, ingresso al seminario minore ma anche qui si registrano rallentamenti e diverse interruzioni degli studi, per andare a lavorare e aiutare la numerosa famiglia (otto fratelli) che ha problemi economici. Una maggiore continuità si registra dopo i vent’anni: seminario maggiore a San Miguel e poi Pontificia Università Gregoriana a Roma. Cinque anni (1937-1942) nei quali è anche ordinato sacerdote (4 aprile 1942) ma poi una nuova interruzione. La guerra impone il ritorno in patria e non può completare gli studi dottorali.

Un primo bilancio ci dice che se è evidente che la presenza di un dono divino sia sempre attaccato, è altresì vero che la grazia divina per opera dello Spirito, anche attraverso queste situazioni lo guida al dono di sé, a saper rinunciare ai suoi progetti e alle sue idee per accogliere quelli di Dio.

Si apre quindi un nuovo tempo di vent’anni, dal 1942 al 1962 nel quale padre Oscar Romero sarà parroco prima ad Anamores e poi a San Miguel. Saranno anni di un servizio pastorale silenzioso e inevidente. Romero appare come un uomo mite, un uomo di preghiera. Si dedica alla sua gente, senza mostrare alcun impegno sociale, nessun attivismo, preferisce non sbilanciarsi e non imitare l’interventismo di altri suo confratelli nel sacerdozio, sebbene il suo paese fosse in preda ad una dittatura oligarchica che si professava cattolica ma calpestava i diritti dei poveri e degli ultimi. In questo ventennio il Vangelo e l’Eucarestia risultano essere i punti fermi della sua vita spirituale e poi risulteranno decisivi anche per orientare il suo servizio.

La storia di Mons. Romero, come anche tante altre, ci mostra che tra Parola, Eucarestia e servizio c’è una circolarità costante e anche una sorta di “alleanza”, nella quale ogni elemento presente illumina l’altro e aiuta a ricomprenderlo in modo sempre più profondo, innescando processi di continua conversione. Se è vero che si parte sempre dalla Parola per poi giungere all’Eucarestia e poi al servizio, è vero anche che, con queste basi, la prossimità con i poveri consenta di tornare di nuovo alla Parola e poi all’Eucarestia con rinnovata consapevolezza, cioè con una più approfondita esperienza di Dio. E ancora il suo vivere e celebrare l’Eucarestia fra i poveri, come sorgente di consolazione, speranza e riscatto dalla loro oppressione sarà altresì motivo per un’ulteriore conversione. 

La mitezza di padre Romero e il suo tenersi fuori dai dibattiti sono attitudini ben viste da chi detiene il potere e considera il sacerdote come un tipo non pericoloso. Un profilo che evidentemente non dispiace anche alla chiesa salvadoregna che lo nomina nel 1966 come segretario della Conferenza episcopale del Salvador suscitando dissensi e proteste di una parte del clero che avrebbe voluto una persona diversa. Mons. Romero è considerato un conservatore ed esprime quel tipo di presenza ecclesiale, anche nel dibattito pubblico, che potremmo definire politically correct. Questo nuovo incarico tuttavia aumenta la sua esposizione pubblica, sempre molto discreta e limitata. La grazia agisce, ma rispetta i tempi dell’uomo, gli spazi della libertà personale di ognuno. Quattro anni dopo, nel 1970 viene nominato vescovo ausiliare e poi nel 1974 vescovo di Santiago de Maria. Da qui in avanti c’è un nuovo impulso, il contatto con i poveri, con gli ultimi, con gli oppressi, la conoscenza della realtà dei campesinos, contadini vessati e perseguitati dal governo, che tentavano di organizzarsi per reclamare condizioni di vita più umane e dignitose, getta nuova luce sulla Parola e  sull’Eucarestia. Ma la persecuzione si fa più drammatica e nel giugno del 1975 a Tres Calles cinque di questi contadini vengono assassinati dalla guardia nazionale. Mons. Romero va subito ad incontrare la sua gente, entra nei poveri villaggi dei contadini, portando la consolazione della Parola e celebrando insieme a loro l’Eucarestia. Parola ed Eucarestia insieme ai poveri e agli oppressi mentre sul piano pubblico, scriverà una dura lettera al Presidente Molina. Trova diverse ferite da sanare e anche una collera da orientare e contenere. Ascolta la sua gente, apprende fatti drammatici.  Molti di questi campesinos le notti dormono nei boschi, per timore di cadere nelle retate della guardia nazionale. Da dove iniziare se non dalla centralità della Parola di Dio? Una Parola per molti versi ancora inaccessibile alla gente, messa era in latino e la gente non capiva. Romero non offre un vangelo contemplativo e la gente inizia a comprendere che il regno di Dio inizia qui su questa terra, che si può fare esperienza di Cristo a partire dalla sua Parola. Non però un Vangelo inteso come strumento per far politica, non sulla scia di una certa teologia della liberazione, ma più semplicemente come luogo e sorgente di consolazione, speranza e futuro. Nascono dei gruppi biblici o comunità di base.

Nel 1977 è nominato arcivescovo di San Salvador. Ma accade un fatto che determinerà un’inversione di rotta: il 12 marzo del 1977 viene ucciso in un agguato padre Rutilio Grande, amico sincero di Romero. Sacerdote gesuita impegnato nel promuovere gruppi di auto aiuto per i contadini vessati e oppressi, uno che condivideva la vita dei poveri incarnando il Vangelo. Un profilo che suscitava fascino anche per Romero che però fino a quel momento era apparso un po “frenato”. Dopo la morte dell’amico sacerdote, Mons. Romero avrebbe dichiarato: “Se non cambiamo ora non cambieremo mai”. Sta di fatto che il comportamento di Mons. Romero da adesso in poi cambia. Egli diviene voce di chi non ha voce, e inizia a denunciare in modo più visibile e socialmente più incisivo gli abusi dei potenti. Il funerale di padre Rutilio Grande è celebrato con una “misa unica” (messa unica) alla quale partecipano tutti i sacerdoti della diocesi. altri sacerdoti moriranno nel giro di pochi mesi. Romero incarica un pool di avvocati di fare delle ricerche per indagare su diversi contadini scomparsi: “Donde estan?” (Dove sono?) non ha timore di gridare ai capi militari.

Si può parlare di un ulteriore passaggio della sua conversione. Chi conosce Romero lo descrive come una persona timida e mite, ma adesso le sue omelie sono dirette, sono fuoco, espressione di una “giusta collera”, quella verso le perpetrate ingiustizie. I suoi interventi sono inoltre trasmessi Le ogni domenica dalla radio panamericana e divengono un punto di riferimento per la gente che le attende con ansia. Papa Francesco nella Evangelii Gaudium ha giustamente ricordato che l’omelia dev’essere la continuazione della Parola di Dio appena proclamata. Qualcosa del genere accade in quelle di Mons. Romero. Egli comprende che il cambiamento nasce d
al primato della Parola, accolta nel cuore essa genera conversione e cambia i comportamenti dell’uomo anche a livello sociale. La custodia della Parola e un’ermeneutica sempre più realistica gli fanno concludere che «la persecuzione è qualcosa di necessario nella chiesa … perché la verità è sempre perseguitata» e poi aggiunge «come disse Gesù Cristo lo disse: “Se perseguitarono me, perseguiteranno anche voi”. La chiesa che compie il suo dovere non può vivere senza essere perseguitata». (Omelia 29.5.77)

Questa consapevolezza dona consolazione e secondo Romero aiuta a delineare la vera identità della Chiesa, che egli vorrebbe “sempre più slegata dalle cose terrene, umane, per poterle giudicare con maggior libertà dalla sua prospettiva che è quella del Vangelo, dalla sua povertà”. (Omelia 28.8.77)

La Parola aiuta a dare un senso a quanto sta avvenendo al popolo. Alla scuola della Parola la Chiesa stessa potrà vivere il Vangelo non come “strumento di potere”, poiché, ricorda Mons. Romero, «lamentiamo che in qualche periodo anche la nostra chiesa sia caduta in questo peccato», ma, aggiunge «vogliamo essere la chiesa che porta il Vangelo autentico, coraggioso, di nostro Signore Gesù Cristo, anche quando fosse necessario morire come Lui sulla croce» (Omelia 27.11.77).

Parole che lasciano intravedere come la grazia divina lo stia preparando al dono di sé. Un’esperienza che nasce quando ci si lascia inquietare e scandalizzare dal Vangelo. Romero ne parla con parole che  richiamano non poco quanto dirà qualche anno dopo un altro martire, padre Pino Puglisi.    

«Una chiesa che non provoca crisi, un Vangelo che non inquieta, una parola di Dio che non solleva malumori – come diciamo volgarmente -; una parola di Dio che non tocca il peccato concreto della società in cui si sta annunciando, che Vangelo è? Considerazioni pietose, così buone che non infastidiscono nessuno… così molti vorrebbero che fosse la predicazione. E quei predicatori che per non molestare, per non avere conflitti e difficoltà evitano ogni cosa spinosa, non illuminano la realtà in cui si vive … il Vangelo che vale è la buona notizia che venne a togliere i peccati del mondo. (Omelia 16.4.78)

Nei suoi interventi insiste sempre più sulla “Chiesa dei poveri” che non cerca il compromesso o il soccorso dei potenti. Agli inizi del 1979 riceve le prime minacce, tant’è che il Presidente in persona gli offre una scorta, ma Romero così risponde in più occasioni: «Prima della mia sicurezza personale, vorrei sicurezza e tranquillità per le 108 famiglie degli scomparsi, per tutti quelli che soffrono» (14.1.79) e poi «il pastore non vuole sicurezza, finché non darete sicurezza al suo gregge» (22.7.79). Un altro significativo passaggio:  «A cosa servono belle strade e aeroporti, belli edifici di tanti piani, se vengono costruiti con il sangue dei poveri, che non ne beneficeranno?» (29.7.79).

Un clima che si fa ancor più minaccioso nei primi mesi del 1980. Romero viene a conoscenza di essere in pericolo di morte, di essere fra coloro che potranno essere uccisi, ma sente altresì una forza ancor maggiore per la quale, proprio la vigilia del suo martirio, il 23 marzo del 1980, potrà affermare: «quello che faccio è uno sforzo perché tutto ciò che hanno voluto proporci il Concilio Vaticano II e le riunioni di Medellín e di Puebla, non resti sulle pagine e non ci limitiamo a studiarlo teoricamente, ma piuttosto lo viviamo e lo traduciamo in questa realtà conflittuale, predicando come si deve il Vangelo».

Predicare il Vangelo “come si deve” significa allora credere che è possibile il cambiamento, che la Parola accolta nelle coscienze possa generare una vita nuova. Mons. Romero continua a far sentire la sua parola a partire dalla Parola di Dio e sempre in stretta connessione con l’Eucarestia, predicando all’interno della messa. Queste parole accelereranno la sua dipartita perché saranno interpretate come un tentativo di destabilizzazione. Parole che ricordano l’omelia in cui padre Puglisi si rivolge a quanti erano stati autori delle intimidazioni, chiedendo di poterli incontrare e di poter parlare con loro, sperando sempre nella possibile conversione.

«Vorrei rivolgere un appello speciale, agli uomini dell’esercito e in particolare alle basi della Guardia Nazionale, della Polizia, delle Caserme. Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo; uccidete i vostri fratelli contadini. E di fronte ad un ordine di uccidere, che dà un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: NON UCCIDERE!… Nessun soldato è obbligato ad obbedire ad un ordine contro la legge di Dio… Nessuno è obbligato ad adempiere una legge immorale… Ormai è tempo che recuperiate la vostra coscienza e che obbediate alla vostra coscienza piuttosto che all’ordine del peccato. La Chiesa, difensora dei diritti di Dio, della legge di Dio della dignità umana, della persona, non può restare in silenzio di fronte a tanta abominazione. Vogliamo che il governo consideri seriamente che a niente servono le riforme se vengono ottenute con tanto sangue. In nome di Dio, quindi, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo, ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!».

Dopo di ciò, l’indomani, il 24 marzo 1980, all’interno della celebrazione eucaristica, svolta, come sempre nella cappella dell’Ospedale della “Divina Provvidenza” di El Salvador, dove Romero viveva, rinunciando alla canonica della Cattedrale, per stare con i poveri, con gli ammalati terminali di cancro, dopo l’omelia, lo sparo di un cecchino mette fine alla sua vita terrena, fa della sua diaconia un martirio.

Nelle parole della sua omelia, c’è la mistagogia del suo imminente martirio che non ha bisogno di alcun commento: «Abbiamo appena ascoltato nel Vangelo di Cristo che è necessario amare non tanto se stessi, che uno non deve preoccuparsi di non correre i pericoli della vita che la storia esige da noi e che colui che vuole allontanare da se il pericolo, perderà la sua vita. Al contrario, colui che si offre per amore di Cristo al servizio dei poveri costui vivrà come il grano di frumento che muore, ma muore solo apparentemente. Se non morisse resterebbe solo. Se c’è raccolto, perché muore, perché si lascia immolare in questa terra, decomponendosi e solo decomponendosi, produce il raccolto. […] Questa santa messa quindi, questa Eucarestia, è precisamente un atto di fede. Con fede cristiana sappiamo che in questo momento l’ostia di frumento si trasforma nel corpo del Signore che si offrì per la salvezza del mondo e che in questo calice il vino si trasforma nel sangue che fu il prezzo della salvezza. Che questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini alimentino anche noi per dare il nostro corpo e in nostro sangue alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per sé, ma per offrire concetti di giustizia e di pace al nostro popolo».

Finite queste parole si udì lo sparo. Parola, Eucarestia e poveri: diaconia e martirio di un uomo e una chiesa esperti in umanità.

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Fonte: Il diaconato in Italia, n° 192, aprile-maggio 2015

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Mons. Sako: "Stop alle fabbriche di morte" https://it.zenit.org/2015/03/22/mons-sako-stop-alle-fabbriche-di-morte/ https://it.zenit.org/2015/03/22/mons-sako-stop-alle-fabbriche-di-morte/#respond Sun, 22 Mar 2015 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/mons-sako-stop-alle-fabbriche-di-morte/ Il patriarca caldeo di Baghdad, Louis Sako, aggiorna sulla situazione in Medio Oriente, condanna la produzione di armi e commenta l'ultima strage in Tunisia

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È tornato di nuovo a San Giovanni Rotondo nell’Ospedale di Padre Pio, mons. Louis Raphael Sako, vescovo caldeo di Baghdad. Un’occasione propizia e opportuna per incontrarlo e approfondire nuove tematiche, cominciando da un aggiornamento sulla situazione in Iraq e concludendo con la triste strage di Tunisi ancora per mano dello Stato Islamico. Di seguito l’intervista, in cui il presule non risparmia una forte condanna a quelle “fabbriche di morte” che continuano a produrre armi.

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Mons. Sako, hanno avuto vasta risonanza internazionale le immagini delle distruzioni e degli scempi compiuti dall’Isis a Ninive. Chiese profanate e vandalizzate, croci rimosse e bandiere nere issate come segno di conquista. Un tentativo di cancellazione dell’identità di un popolo e della sua memoria storica. Cosa può dirci a riguardo?

È una tragedia. Ho sentito proprio oggi (19 marzo 2015) che un monastero del V secolo è stato distrutto vicino a Mosul. Questa è gente che vive nel deserto, non inteso però come un luogo nel quale incontrare Dio nel silenzio, ma nel senso dell’abbruttimento e imbarbarimento cui sembrano giunti. Questi non hanno rispetto per gli altri e neanche per se stessi. Non si sa neanche che cosa vogliono. Perché distruggere tutto? È bene che si sappia che uccidono anche tanti musulmani. Ma così non c’è futuro. Abbiamo solo un insieme di sequenze negative. Si vive nella paura. Vogliono annullare tutto per cominciare cosa? Un Islam così come lo pensano loro non è possibile, non lo desiderano neanche gli stessi musulmani che sono apertamente contro di loro. Io posso dire che in questo modo fanno male a tutti. Quando penso a questo gruppo dell’Isis mi viene in mente la bestia dell’Apocalisse (cf. Ap 12,3ss). Tutto distrugge: vita e ora anche la pietra. Mi riferisco al Monastero di San Giorgio, quello sul quale è stata rimossa la croce di Cristo e issata la bandiera nera del califfato. Ho studiato tre anni in questo monastero. Per noi, vedere questo patrimonio cristiano cancellato è una cosa triste. Mi domando se quando tornerà la pace potremo mai riparare tutto questo. Ci sono chiese con pietre “vecchie” che parlano della storia secolare della nostra cristianità, una pietra nuova e moderna, potrà dire poco.

Come legge l’alleanza fra la componente sciita irachena con quella iraniana? Potrà essere in grado di respingere l’avanzata del califfato?

Si tratta di una situazione complessa. Perché così diventa una lotta settaria. L’esercito iracheno è debole e la coalizione internazionale non sembra agire sul serio per sconfiggere l’Isis. Non vedo una fine vicina per questo conflitto e anche per la sofferenza del mio popolo, di tante famiglie, donne e bambini. Mi fa anche male vedere questi giovani sciiti o anche sunniti andare a morire senza scopo. Invoco una soluzione politico diplomatica invece che un’azione militare. Se non si ferma questo massacro ci saranno ancora molte altre distruzioni.

Lei ha fatto riferimento come chiave di lettura biblica al drago dell’Apocalisse, alla bestia di satana. L’Isis al pari delle ideologie del male del XX secolo. Ora, come si coniuga la presenza massiccia del male con il tempo della misericordia, per il quale anche Papa Francesco ha indetto un giubileo straordinario?

La festa di San Giuseppe ci offre una spiegazione di quanto intendo dire. L’umile padre putativo di Gesù ci rimanda al tema della coscienza. Lui è un uomo giusto, che sviluppa un suo pensiero critico e che anche quando è chiamato a giudicare cerca di non fare male a nessuno. Infatti, quando vede qualcosa che non va cerca di non giudicare e si ritira nel suo silenzio orante. Ritengo che oggi non ci sia un’adeguata formazione delle coscienze. Ce ne accorgiamo dal fatto che il deserto avanza. Non in senso geografico. Oggi si ritorna al deserto, cioè alla natura primitiva. Uno scenario che la Scrittura descrive come una landa desolata e di ululati solitari, in un mondo che ha smarrito l’impronta redentrice della creazione. Questi criminali non hanno nessun senso umano. Sono una fabbrica della morte. Hanno perduto la stessa dignità della loro esistenza. Invece erano chiamati ad essere una fabbrica della salute. Ho l’esempio sotto i miei occhi. Sono letteralmente conquistato dal carisma che si vive in questo Ospedale nel quale mi trovo, l’Ospedale di Padre Pio, Casa Sollievo della Sofferenza. Vorrei riportare questa testimonianza perché mi sembra molto indicativa per l’oggi. Qui si respira una sorta di alleanza per la salute. Tanta gente viene a lavorare qui per il medesimo obiettivo. Invoco sempre Padre Pio nei momenti di difficoltà, nella preghiera gli chiedo di intercedere presso il Signore per il mio popolo. E spero al più presto di poter trasmettere il suo carisma, anche nella visione ospedaliera, in Iraq. Tutto questo mi fa pensare che nel cuore dell’uomo c’è l’aspirazione al bene, e con il bene c’è la pace e c’è la felicità. E quando si opera il bene c’è tutto.

Abbiamo allora bisogno di testimonianze profetiche che, per usare la sua immagine, si configurino come “fabbriche della salute” e respingano con forza le “fabbriche di morte”.

Sì, entrerò più nel dettaglio dell’immagine. È molto brutto vedere che esistono al mondo fabbriche di armi, tanti Paesi che investono nella produzione di armi e tra questi purtroppo c’è anche l’Italia. E allora mi chiedo, ma l’Italia è il Paese dei santi, è il luogo con più santi del mondo, è una terra santa, ma perché continua a fabbricare armi che poi serviranno ad uccidere gente innocente? Perché non fabbricare cose buone in modo da poter dormire in pace con la propria coscienza? In armonia con sé stessa? Penso che l’uomo deve pensare a un cambiamento radicale di tutto ciò. È l’Italia è pronta per questa testimonianza virtuosa. Può essere da esempio per il mondo. Nel suo piccolo iniziare a innescare una tendenza positiva, uno stile nuovo che esprima la qualità della propria tradizione cristiana.

Che cos’altro vorrebbe aggiungere a beneficio di quanti hanno a cuore la pace, a quanti si impegnano per la giustizia e vorrebbero provare a fare qualcosa per invertire il corso delle cose.

Dico che siamo chiamati a ripensare un po tutto. La politica sia giusta e non abbia interessi individuali, non incoraggi cioè le brame di quei paesi che intendono solamente prevaricare gli altri e distruggere chi non corrisponde ai propri propositi. La politica non sia egoistica. L’economia non determini esclusione sociale e marginalizzazione dei poveri, che spesso diventano sempre più poveri, come ha ricordato Papa Francesco nella Evangelii Gaudium. Ma anche la religione sia in grado di parlare ai cuori e illuminare le menti. Poi il mio pensiero va ai giovani. Ho paura per i tanti bambini che non vanno a scuola. Sono milioni, tra Siria ed Iraq. La mia preoccupazione è che costituiscono un bacino dal quale potrà svilupparsi il fanatismo religioso, perché sono lasciati marginalizzati in balia di falsi profeti. In Iraq ci sono almeno dieci milioni di studenti. Ma a Mosul per esempio le scuole sono chiuse, così come a Tikrit. Questo non è giusto! Perché io ho potuto fare la scuola e altri no? Invece è necessario formare la gente, orientare verso il bene e non il male. Il bene infatti non è solo cristiano, è umano, è nella natura dell’uomo. Ogni bambino è un miracolo. Questo bambino tuttavia se non è orientato può divenire qualcosa di brutto, penso ai campi di addestramento dell’Isis dove si trovano bambini dall’età di sette anni in su. Ogni bambino è un progetto, è futuro. Non possiamo lasciarli così.

Un ultimo pensiero sulla strage del museo del Bardo in Tunisia…

Un ulteriore esempio del domino del male, cioè di tutte quelle relazioni negative che incrostate nel tempo, come vere e proprie strutture di peccato, falsificano la realtà. Cercare le ragioni di
questo male, non è facile. Perché c’è l’Isis? Perché abbiamo il fenomeno dei foreign fighters? Di chi  è la colpa? Della società? Dei governi? Delle religioni? Molti giovani non hanno lavoro, hanno fame, ma molti altri hanno dei vuoti interiori, non possiedono una vita spirituale. Ed ecco la strage in Tunisia. Un massacro che ci mette di fronte ad una ferma decisione verso ogni forma di male. Perché non fare qualcosa per evitare il male? Tutti questi turisti uccisi volevano vivere, avevano famiglie, sogni, progetti, desideri. Fa molto male vedere queste vite spezzate dall’odio.   

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Sako: "L'Italia non cada nella trappola delle minacce dell'Isis" https://it.zenit.org/2015/02/23/sako-l-italia-non-cada-nella-trappola-delle-minacce-dell-isis/ https://it.zenit.org/2015/02/23/sako-l-italia-non-cada-nella-trappola-delle-minacce-dell-isis/#respond Mon, 23 Feb 2015 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/sako-l-italia-non-cada-nella-trappola-delle-minacce-dell-isis/ In visita a San Giovanni Rotondo, il patriarca caldeo di Baghdad racconta: "Nel quartiere Palestin anche i musulmani vengono a pregare davanti alla statua di Padre Pio"

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«La fede non è credere in un’ideologia. Anche Isis ha una ideologia ma credere vuol dire amare e amare vuol dire vivere. Questo mi tocca il cuore, penso che oggi abbiamo più bisogno di un’esperienza di fede come amore che di una fede speculativa». È questo uno dei passaggi centrali dell’intervista o meglio della conversazione tenuta da ZENIT con Mons. Louis Raphael Sako, Patriarca Caldeo di Baghdad.

L’occasione è quella della sua breve permanenza a San Giovanni Rotondo, nell’Ospedale di Padre Pio, per un intervento chirurgico. Il giorno 19 febbraio, prima che il Patriarca vada a Roma e da lì a Baghdad, concede la possibilità di un incontro, un dialogo, una conversazione che affronta vari temi: dalla venerazione per San Pio da Pietrelcina fino ad arrivare alla difficile situazione della Chiesa irachena, passando per una riflessione sull’Isis e sulla crisi libica.

La prima riflessione è in realtà un feedback personale del Patriarca, e riguarda la sua esperienza di paziente e degente nell’Ospedale di Padre Pio. Mons. Sako è colpito dal clima che si vive nella struttura ospedaliera, che Padre Pio volle chiamare “Casa Sollievo della Sofferenza”. «Spirito di servizio, disponibilità, epifania del sorriso. Secondo me il miracolo di Padre Pio non è quello delle stigmate ma è questo ospedale che ha incarnato l’amore di Dio», ha dichiarato Sako.

Il discorso cade sul tema della sofferenza. Il Patriarca ne parla attraverso l’immagine del “muro della sofferenza”. Per superarlo è necessario un “legame umano e cristiano”. Qualcosa del genere ha sperimentato in questi anni in Iraq. Un tempo di prova per tutto il popolo iracheno e in particolar modo per i cristiani, che porta con sé un tentativo di risignificazione della propria fede. Ricentrare la propria fede in Cristo, ecco quello che si deve fare, anche quando non si riesce a comprendere.

A tal proposito Mons. Sako confida: «Se un cristiano non ha un’esperienza mistica non va. La fede non è una coscienza teorico speculativa, è un mistero, un cammino di amore, di fedeltà. E piano piano si avanza, si cresce. Noi non possiamo capire tutto. Se uno ha capito tutto, allora non c’è più sforzo né progresso. La gente ha spesso difficoltà a comprendere tutto ciò. Noi dobbiamo formarla».

Riflessione che ci fa entrare in un campo che invoca risposte di senso, un’ermeneutica di riferimento ed ispira anche un procedere attraverso domande più dirette.

Quanto lei dice può essere applicato anche come una chiave di lettura di quanto i cristiani stanno vivendo in questo tempo. Noi non possiamo capire tutto, c’è un piano che ci trascende. Ma come poter decifrare questo tempo? Che cosa dice all’esperienza cristiana questa nuova stagione di persecuzioni?

Il senso c’è. La priorità della fede. Questa gente si sacrifica per l’amore di quanto vive. Questo sangue ha un senso molto grande e profondo. Come dice Gesù: Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Per loro Gesù è il modello. Il sangue dei martiri è per noi grande forza e sorgente di speranza. Come ha detto Tertulliano: “Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. Così possiamo dire che è morte, ma è anche vita. Come ha detto anche il Signore: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28). Secondo me l’occidente deve vedere nel modello di questi martiri una chiamata, un appello alla conversione, alla religiosità e alla fede. Se qui ci sono problemi oggi è perché c’è un vuoto. La società occidentale sta perdendo i valori religiosi, c’è una cultura dell’individualismo, del piacere, del denaro che non soddisfa l’uomo che ha una tendenza all’assoluto.

Vuoto di senso in una società che ha reso incerto il cammino di riconoscimento della propria identità. A tal proposito come possiamo interpretare il fenomeno dei foreign fighters. Forse in un tempo di debolezza identitaria suscitano fascino identità che si manifestano attraverso modalità forti?

Io capito perché questi jihadisti occidentali vanno a fare la guerra santa, perché cercano un ideale. L’Isis mostra forza sul piano comunicativo ma anche su quello religioso. Hanno l’ideale di formare uno stato religioso. C’è un senso del martirio. Per loro si tratta di una guerra santa. Mai nessuna guerra è giusta. Loro hanno un ideale di Paradiso che deriva da una interpretazione letterale del Corano. A Baghdad ci sono tante milizie. Nell’Islam anche la religione è politicizzata. Invece si deve separare la religione dallo Stato. Non comprendono il pluralismo, e pensano che gli altri hanno falsificato la religione. Il movimento di islamizzazione corrisponde a una missione che loro ritengono di aver avuto. Altrimenti pensano di andare all’inferno.

Possiamo dire che esiste un problema nell’approccio con il Corano. Ricordiamo che per il fedele musulmano il Corano va recitato perché è parola diretta di Dio. Le Scritture ebraiche e cristiane presentano invece una parola mediata. C’è prima la cifra umana e poi quella divina (es. Dal Vangelo secondo Marco e poi si conclude proclamando: Parola di Dio). Questo può essere uno dei problemi del fondamentalismo?

Sì, certamente. Facciamo un esempio. Nel Corano ci sono i cosiddetti “versetti della spada”, che in un certo modo motiverebbero l’uso della violenza. Ricordiamo che lo stesso Maometto si volge alla conquista di La Mecca con un esercito. E la stessa dimensione della jihad passa da una mera lotta spirituale, interiore, pensiamo in ambito cristiano ai padri del deserto, a una lotta che individua all’esterno il proprio nemico. I musulmani devono leggere questi testi in modo simbolico. Devono poter fare esegesi. Non hanno un’ermeneutica. Quando l’Isis decapita qualcuno lo fa secondo un’interpretazione della legge musulmana. Per loro Dio ha dettato questo. Tutto è divino e anche un po’ magico. Lo fanno secondo la loro fede.

Nella diocesi di Baghdad e in genere nella Chiesa irachena quale spazio esiste per il dialogo fra cristiani e musulmani?

La dimensione della sofferenza, sul piano quindi prettamente umano, avvicina le due religioni. Per esempio a Baghdad c’è un Ospedale, il “San Raffaele”, dove trovano accoglienza sia musulmani sia cristiani. E in ogni stanza dell’Ospedale c’è una croce e anche un’immagine della Madonna. Anche Padre Pio è motivo di incontro tra musulmani e cristiani. Nel quartiere Palestin di Baghdad, all’interno della Parrocchia “La Vergine Maria”, dov’è parroco il vescovo ausiliario, mons. Warduni, c’è una statua di Padre Pio. La gente lo conosce. Sia cristiani sia musulmani si fermano a pregare lì. Piccoli esempi che ci mostrano che è possibile un dialogo. Tocca a noi cristiani prendere l’iniziativa. È importante la presenza cristiana in Iraq. Noi aiutiamo i musulmani ad aprirsi.

Cosa consiglierebbe al mondo e agli uomini del nostro tempo?

Per un mondo migliore ci dev’essere: Una riforma delle religioni. Nel senso che esse sono chiamate a riproporre, “aggiornare”, rievangelizzare e quindi rendere accessibile il proprio messaggio. In secondo luogo è necessario dare un senso e una speranza nuova alla vita umana. Serve poi una politica internazionale più giusta ed aperta che rispetti i diritti umani di tutti. Ogni uomo è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Infine urge una riforma dell’economia. Ci sia più giustizia tra i ricchi e i poveri.

Qual è il suo giudizio sulla crisi libica, sull’avanzata del califfato e la strategia di forte impatto comunicativo del riferimento a Roma? “Siamo a sud di Roma”, è stato detto.

Si tratta di una trappola. L’Italia deve essere attenta a non fare la guerra. Si può scegliere di controllare le frontiere ma è forse più importante monitorare quelli che s
ono lì. Sono più pericolosi i gruppi fondamentalisti dormienti. Meglio non cominciare una guerra di cui poi non si sa la fine come hanno fatto gli american in Iraq. E adesso abbiamo anche la guerra in Siria da ormai quattro anni.

Eccellenza, una domanda che richiama le sue esperienze di patrologo. I Padri della Chiesa ci dicono che l’ira, la collera, nasce sempre da una ferita. Come leggere ciò rispetto a quanto sta accadendo?

Oggi ci troviamo di fronte a un uomo ferito. Abbiamo nuove patologie spirituali. Papa Francesco non a caso parla di una Chiesa come ospedale da campo dopo una battaglia. In Iraq l’intervento delle forze militari occidentali ha comportato la distruzione di tutto, pensando che sarebbe stato possibile cominciare qualcosa di nuovo. Ma in che modo? Forse non si era studiata bene la questione. C’è stato il cambiamento di regime ma la gente si aspettava qualcosa di più. Dov’è la sicurezza? Senza sicurezza non c’è vita. Bisognava educare la gente alla libertà e alla responsabilità, alla democrazia. Una guerra è sempre una cosa cattiva e suscita nuove ferite, molte delle quali ancora non sanate.

In che modo la Chiesa irachena si fa prossima verso le sofferenze del proprio popolo? Quale diaconia?

Possiamo sintetizzarla in tre punti: servizio verso i poveri e gli ultimi; custodia e preservazione dell’identità cristiana e poi il dialogo con la religione musulmana.

Diamo dunque priorità alle famiglie sfollate. Abbiamo circa 120.000 cristiani e più di  2 milioni di  musulmani. Ci domandiamo come essere vicini e presenti in mezzo alla gente che soffre. Noi diamo loro da mangiare, da bere, diamo medicine, facciamo quello che possiamo. Solo la Chiesa fa questo. La CEI ci ha aiutato, anche il Vaticano e le Caritas. La gente è molto colpita quando la chiesa è vicina. Ma allo stesso modo ci sentiamo chiamati a difendere e proteggere la presenza cristiana, i  diritti dei cristiani. Su questo punto c’è uno sforzo con il governo centrale iracheno, perché la presenza cristiana è storicamente importante. Poi cerchiamo il dialogo con i rappresentanti dell’autorità religiosa musulmana. 

Sente papa Francesco vicino?

Sì certamente. L’ho incontrato tre volte. Mi ha sempre rincuorato e fatto forza. Ha mandato anche due messaggi. Un filmato e una lettera. Quest’ultima è stata letta alla presenza del card. Barbarin, c’è stata una processione e si sono raccolti in chiesa più di 5000 cristiani. Lui è molto vicino, prega per noi. Recentemente ha anche mandato il card. Filoni come inviato speciale.

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