Giovanni Maria Molfetta, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/giovanni-mariamolfetta/ Il mondo visto da Roma Sun, 27 Apr 2014 00:00:00 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.1 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Giovanni Maria Molfetta, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/giovanni-mariamolfetta/ 32 32 Per una possibile e reale generazione https://it.zenit.org/2014/04/27/per-una-possibile-e-reale-generazione/ https://it.zenit.org/2014/04/27/per-una-possibile-e-reale-generazione/#respond Sun, 27 Apr 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/per-una-possibile-e-reale-generazione/ Una riflessione sulla "incostituzionalità" della fecondazione eterologa

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Il divieto di fecondazione eterologa è incostituzionale. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della norma della legge 40 del 2004 che vieta il ricorso a un donatore esterno di ovuli o spermatozoi nei casi di infertilità o di coppie omosessuali. Diverse e comprensibili reazioni di disagio sono sorte a ribadire la miopia ebete di una legge che contrappone l’egoismo tirannico del diritto al figlio al diritto stesso del figlio circa la certezza sulle proprie origini.

Eppure sarebbe un’occasione sprecata non tentare almeno di capire quali siano le sottili implicazioni e quale il significato sincero che un fatto simile porta con sé. A partire dunque dalla lascivia che fa coincidere il progresso dell’uomo con la pretesa rattrappita di superare qualsiasi limite – salvo il bollare come limite l’uomo stesso nel suo più elementare e scientifico dato naturale – ciò che qui si rivendica violentemente è l’illusione di possedere l’origine della vita. Mentre invece  agli uomini è affidato in custodia l’inizio e lo sviluppo di tutte le cose ma l’origine di esse li trascende sempre.

In altri termini appare evidente come la differenza tra l’adozione e questo tipo di fecondazione sta infatti solo in questo; nell’opinione instabile che il figlio è veramente tuo se “l’hai fatto tu”. E dal momento che io non posso e questa mia condizione è un impedimento, per fortuna c’è la scienza che, nella sua magnanimità cieca e demente, elargisce poteri e capacità altrimenti impensabili. Ma questi figli, allora, sono figli di chi? E cosa vuol dire essere genitori? Chi è in grado di comprendere fino in fondo il dramma di quella madre che – come emerso dalla cronaca recente – a causa di una banale disattenzione da parte dei medici nell’applicare il corrispettivo codice a barre all’una e all’altra provetta, non sa di chi sia figlio quel figlio che ha in grembo? E ora che le stesse categorie di padre e madre hanno un sapore di vecchio e superato (come se il termine genitore,che gli viene oggi preferito, sia in sé stesso meno pieno della radicalità propria del medesimo contenuto) dovremo forse aspettarci i nuovi “figli della scienza”.

Più precisamente orfani impazziti e degenerati, ma nel senso più profondo della parola: chi non genera degenera! È questa l’immagine che Dante, nella sua Commedia che il Boccaccio definirà poi divina, ci offre del diavolo, conficcato nel ghiaccio. Il fuoco indica infatti la vita; il gelo, al contrario, allude alla fissità e alla sterilità del peccato; per questo egli è infelice, cioè incapace di fiorire e produrre frutto, e delira nella follia della sua impotenza. Pertanto c’è prima di tutto una crisi d’identità da evacuare, poiché essa conduce alla schizofrenia più cupa.

Perché quindi è possibile questo? E perché può non esserlo? Con la discrezione e la sensibilità tipiche del popolo russo, è Dostoevskij a scriverlo in uno dei suoi capolavori, I fratelli Karamazov, mettendo le parole in bocca a Smerdjakov, l’autore del parricidio intorno al quale si costruisce tutta la vicenda: Nel momento in cui egli confessa al fratellastro Ivan la ragione che lo ha spinto ad uccidere il padre, dice: «l’ho fatto perché ̔ tutto è permesso.̕ Me lo avete insegnato voi: ̔̔ perché se non esiste un Dio infinito, non esiste neppure la virtù, anzi non ce n’è proprio bisogno.̕ Così dicevate. E così ho ragionato io».

Di fronte ad eventi del genere la sola speranza che ci conforta è perciò nella fecondità della certezza che questo Dio di cui Dostoevskij parla esiste realmente e ci raggiunge ancor oggi nella vita della Chiesa. A noi il vero unico compito di riconoscerlo. Con letizia e amore di figli.

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La vera natura della Chiesa https://it.zenit.org/2014/04/18/la-vera-natura-della-chiesa/ https://it.zenit.org/2014/04/18/la-vera-natura-della-chiesa/#respond Fri, 18 Apr 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/la-vera-natura-della-chiesa/ Cosa c'è dietro la decisione del Papa di non sopprimere lo IOR

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Papa Francesco ha stabilito la scorsa settimana che l’Istituto per le opere religiose (Ior) non sarà soppresso. Il Pontefice ha infatti riaffermato “l’importanza della sua missione per il bene della Chiesa cattolica a cui continuerà a fornire servizi finanziari specializzati in tutto il mondo. Una decisione in realtà per nulla scontata, se si considera che lo stesso Bergoglio non escludeva mesi fa, tra le varie ipotesi, la netta soppressione dell’istituto. Lo Ior sarà, pertanto, investito da una radicale e necessaria riforma fondata sulla trasparenza e l’onestà. “Dev’essere così!” ha concluso con risolutezza il Papa.

Ho sempre trovato estremamente logico quel primo moto di sdegno e delusione che si avverte alla notizia dei tanti scandali che accadono, specie se all’interno di una realtà umana e imperfetta come la Chiesa che porta con sé, allo stesso tempo, la pretesa dolcissima di comunicare il divino. Spero però, dal canto mio, che una simile decisione da parte del Papa non mi colga come quasi tradito da quest’uomo che – a quanto risulta dalle più aggiornate statistiche – sembra ricordare molto un bonario Robin Hood, pronto a rinfrancare i più deboli con parole affettuose e a colpire i tanti ladri che insorgono da ogni dove con frecciate argute e insieme indulgenti. Dico ciò perché mi pare che questo di Francesco sia davvero un gesto originale, nel senso più vero del termine; un gesto, cioè, totalmente pervaso dell’unica origine dell’esperienza in seno alla quale si attesta. Al fondo di esso riposa dunque nientemeno che il segreto dell’immortalità della comunità cristiana e, con essa, della salvezza del mondo. No, non si tratta qui di facile e ardimentosa apologia condita di toni apocalittici; quanto invece di fare esperienza diretta di quel che la liturgia detta nella forma della preghiera: “la tua misericordia o Padre ci dia vita”. Alla base v’è – in altre parole – la pura e semplice promessa della nostra quotidiana resurrezione dalla misericordia di Dio che, con il suo sangue, riacquista l’uomo dalla morte del peccato per consegnarlo alla conoscenza viva di sè. Questo è e rimane il vero scandalo della storia umana.

Per questa ragione l’unica condizione che è richiesta a noi è la serietà con la miseria di cui siamo fatti e di cui siamo ogni giorno spettatori perchè in essa dimora il nostro solo merito e la causa della nostra felicità. “Felix culpa” si recita nell’ Exultet ; bisogna che questa nostra povertà sia difesa a rischio della vita come la ricchezza più grande che abbiamo poiché solo ai miseri Dio dona il Suo cuore.

Sembra allora davvero riecheggiare in questa scelta di Bergoglio quella medesima coscienza ed obbedienza che, un anno fa, in occasione della sua rinuncia al magistero petrino, avevano fatto dire a Benedetto XVI “Ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua!” Il riconoscimento di una tale verità ha segnato, proprio da un punto di vista dogmatico, uno dei punti più vivi della storia del cristianesimo, quando nel concilio di Cartagine del 411, l’allora vescovo d’Ippona Agostino si scontrò con i donatisti. Essi presumevano che la Chiesa si costituisse come una comunità di perfetti e, legando il valore dei sacramenti alla purezza della vita del ministero, esponevano i sacramenti al tribunale di un dubbio senza fine.

La risposta di Agostino è ancor oggi per noi invito forte e maturo a prender consapevolezza della grazia di cui l’uomo è costantemente fatto oggetto: “Non ti è detto: sforzati di cercare la via per giungere alla verità e alla vita; non ti è stato detto questo. Pigro, alzati! La via stessa è venuta a te e ti ha scosso dal sonno; e se è riuscita a scuoterti, alzati e cammina!”

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Aria di follia nella Silicon Valley https://it.zenit.org/2014/04/16/aria-di-follia-nella-silicon-valley/ https://it.zenit.org/2014/04/16/aria-di-follia-nella-silicon-valley/#respond Wed, 16 Apr 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/aria-di-follia-nella-silicon-valley/ Un "peccato d'opinione" è costato caro a Brendan Eich, Ceo di Mozilla, costretto alle dimissioni per aver donato 1.000 dollari a una campagna a favore del matrimonio naturale

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Il più classico e inappuntabile dei curriculum: lui, Brendan Eich, tipico uomo americano in carriera, stimato professionista della programmazione, inventore del linguaggio Javascript, ha contribuito alla nascita del fortunatissimo browser in seno a Netscape e, solo due settimane fa, è stato nominato Ceo di Mozilla, organizzazione per il software libero.

In sostanza nulla di strano, si tratta dell’ordinaria vita privata di un uomo come tutti, se non fosse per il fatto che appena nominato, Eich è stato costretto a dare le dimissioni a causa di un peccato davvero originale compiuto qualche anno fa non lontano dalla grande mela. Nel 2008 infatti Brendan Eich donò mille dollari in favore della Propotion 8, il referendum popolare che, fino allo scorso anno, ha reso illegale in California i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Da parte sua l’ingenuo programmatore risponde quanto già aveva detto nel 2012 quando, uscita fuori la vicenda, la comunità Lgbt lo aveva a lungo attaccato inserendolo nella loro lista di haters sui quali pende implacabile la condanna alla damnatio memoriae.

Brendan Eich ha perciò invitato il pubblico a trovare “un solo episodio in cui abbia mostrato odio o non rispetto verso qualcuno per affinità a un certo gruppo o per la sua identità personale”. Ma ciò che ora la Silicon Valley gli contesta è non già il peccato di discriminazione ma, più esattamente, quello d’opinione. E non bastano le scuse, vogliono la completa rieducazione, il pentimento interiore. Per redimersi il ceo di Mozilla deve dunque sposare e difendere a spada tratta la causa gay, diventandone un convinto attivista.

Certo, “il conformista è un animale assai comune” scriveva Gaber. Il vero punto della vicenda è però più profondo e non può neppure essere ridotto ad una becera e tiepida disputa da salotto parigino, ciascuno brandendo forconi (o matterelli) gonfi di morale in difesa o a sostegno dell’omofobia. Semmai, negli stessi termini ipocondriaci con cui oggi ogni forma di rapporto con le cose sembra necessariamente tradursi in paura, direi che il reale e pericoloso problema che qui si pone è l’homofobia. Vale cioè a dire l’avversione contro l’uomo a partire dall’attacco a quel principio di unità che egli, per il puro fatto di esistere, afferma e implora con tutta la propria persona.

Infatti l’uomo dorme, lavora, piange e ride – vive! – in seno a questa grande e dinamica possibilità: che la vita sia una e che sia una vita compiuta. A venti anni come a novanta. E che, in tutto quello che fa, egli possa non essere fesso, cioè diviso, ma intero e unito al suo interno. In gioco c’è nientemeno che la percezione di sé dentro l’universo. Per questo motivo il dualismo, nella sua forma più feroce e dittatoriale che è il relativismo, non si traduce mai come il passaggio “da uno a due” ma mina sempre alle radici di quest’unica possibilità; che tutte le cose parlino e risplendano dell’uno! Già Lewis intuiva la potenza di questo dato quando parlava di “armonia con sé stessi”, riprendendo in questo modo un’idea tipicamente medievale espressa ancor prima da Aristotele. Il filosofo greco, pertanto, dopo aver definito l’uomo “animale politico” – cioè sociale -, chiarisce che “politica” è téchne architectóniche (arte progettuale) che è essenzialmente l’arte di condurre a realizzazione, di portare a compimento le cose in unità.

In questo senso direi che la vera questione che è al fondo di tutta la vicenda prescinde coscientemente da qualsiasi discorso ideologico; anzi, proprio nella misura in cui ne rimane estranea, conserverà intatta la sua radicalità e non sarà così confinata nella vaghezza di un ragionamento ma vibrerà nell’esperienza dell’uomo comune. Quello stesso uomo comune al quale parlava Aristotele.

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Quando nacque l'Humanitas https://it.zenit.org/2014/04/06/quando-nacque-l-humanitas/ https://it.zenit.org/2014/04/06/quando-nacque-l-humanitas/#respond Sun, 06 Apr 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/quando-nacque-l-humanitas/ Una riflessione sulla storia romana, quando agli schiavi fu permesso di combattere, conquistare la libertà e diventare cittadini della Civitas romana

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«Gli dei lo vogliono». Con queste parole Scipione l’africano – così come Tito Livio ci riferisce nel libro XXX della sua storia di Roma – si congeda da Annibale la notte prima di Zama, rivelandogli il reale motivo per cui egli confida che l’indomani vedrà la certa vittoria dei suoi uomini sul campo di battaglia.

La lezione del martedì di Storia romana si sta avviando alle sue battute conclusive. Sono tre ore senza pausa ma nell’aula San Tommaso dell’università del Sacro Cuore di Milano regna il silenzio che anticipa le grandi imprese; il professor Giuseppe Zecchini, uno dei massimi studiosi viventi di Cesare, sta preparando la stoccata finale (deve aver certamente studiato la «Retorica» aristotelica) e la classe attende: «Con Zama assistiamo in assoluto ad una delle più gloriose azioni militari dell’antichità».

Prima ancora di questo emerge però un dato storicamente più rilevante: di ritorno dalla grande spedizione iberica, il venticinquenne Scipione, si era visto rifiutato il trionfo del senato romano che, pur gloriandosi del successo riportato, non dimenticava come questa sua azione fosse stata mossa unicamente dalla pietas verso il padre e lo zio rimasti uccisi in Spagna. In realtà sarà poi proprio questa che permetterà a Scipione di annientare definitivamente la potenza cartaginese in Africa.

Egli, infatti, senza il minimo sostegno economico da parte del senato, riuscì ad istituire e addestrare un esercito costituito in maggioranza da schiavi. Si trattava di un espediente già in uso presso i greci che, in caso di vittoria, scioglieva gli schiavi da qualsiasi vincolo con il padrone. Erano liberi, liberi di scappare, di andare via.

Al contrario, davanti al singolo schiavo che si era distinto in battaglia e aveva versato sangue per la vittoria dell’esercito, l’impero di Roma – il più grande che la storia abbia avuto – si piegava e lo chiamava a prender parte dell’“eterna” civitas romana.

Egli aveva combattuto fianco a fianco con dei cittadini romani, partecipando della stessa fatica e della stessa sorte dei cittadini romani; meritava ora pertanto questo onore: allora non gli era più detto: “hai vinto, ora sei libero, quindi và, fuggi!” ma piuttosto: “hai vinto, sei libero. Quindi resta da cittadino e, come me, fa grande Roma!”.

Prima del circolo degli Scipioni, prima di Panezio, Polibio e tutti gli altri illustri personaggi della cultura greco-latina del tempo, l’humanitas – non come concetto di ideale filantropia ma come virtù vissuta – nasceva qui.

I greci avevano inventato l’anima, Roma inventò l’individuo e, con esso, lo Stato; ad una libertà concessa come annientamento di legami e come fuga, si opponeva perciò coraggiosamente l’ipotesi di un ideale offerto e condiviso al cui servizio la libertà appena conquistata potesse liberamente esprimersi in tutto il proprio vigore.

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"È mezzanotte dottor Schweitzer" https://it.zenit.org/2014/03/30/e-mezzanotte-dottor-schweitzer/ https://it.zenit.org/2014/03/30/e-mezzanotte-dottor-schweitzer/#respond Sun, 30 Mar 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/e-mezzanotte-dottor-schweitzer/ Gilbert Cesbron racconta la vicenda umana e religiosa del teologo protestante, concertista e fondatore di un ospedale nel Congo francese per i malati di lebbra

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Teologo protestante, concertista d’organo e poi chirurgo e fondatore di un ospedale (a Lamberéne, nel Congo francese) cui dedicò tutte le sue forze divenendo, nel mondo, simbolo della generosa dedizione ai malati di lebbra. Fu tutto questo Albert Schweitzer e alla sua passione di uomo non potè rimanere insensibile lo scrittore filosofo francese Gilbert Cesbron, già autore di romanzi notissimi come I santi vanno all’inferno Cani perduti senza collare.

Significamente lo scrittore decise di dedicargli nel 1954 un dramma teatrale in due atti che, nella fermezza di uno stile per natura incline alla poesia, rende ragione del fascino che Schweitzer esercitò nel suo tempo. Il fascino di una vita tesa a un ideale.

È mezzanotte dottor Schweitzer” è un testo agile tanto quanto il tempo dell’azione in esso descritta che si svolge in due notti, nell’agosto del 1914, all’inizio della Grande Guerra. Il drammaturgo francese coglie qui il «personaggio» Schweitzer all’apice della sua vicenda umana.  Questi, giovane teologo, aveva pubblicato nel 1906 un volume dal titolo Storia della ricerca della vita di Gesù in cui giungeva alla conclusione che la figura storica di Cristo era sfuggente a causa della inadeguatezza delle fonti e della sua dimensione trascendente che la rendeva intangibile nel presente.

Decise perciò di imitare Gesù nell’aspetto che maggiormente lo commuoveva: la carità. Nei tre diversi modi in cui essa si declina si rivelano i tre personaggi principali del dramma (il dottore, il costruttore, il missionario) e, più precisamente, nell’amicizia e nella differenza tra il dottor Schweitzer e padre Carlo, emerge il centro il cuore sincero dell’opera, l’insufficienza e l’impotenza ultima dell’agire umano. Se questa costituisce il tragico punto d’arrivo del genio protestante, rappresenta invece per il cristiano l’avvento di Cristo.

Nel punto più basso dell’ inferno dantesco il diavolo piange per la sua impotenza; il cristiano, al contrario, sperimenta in essa la decisività della propria salvezza, non dipendente dalle sue opere ma dalla disponibilità al fatto vivo di Cristo.

Una tale posizione umana fiorisce nella consapevolezza -avvertita da un altro grande francese, Charles Peguy- che la sola dignità di tutto sia nell’essere amati. Papa Francesco ce lo ricorda continuamente già solo a partire dal suo motto, tratto da un ripesa del Venerabile Beda del Vangelo di Matteo: Miserando atque eligendo; (lo) guardò con misericordia e (lo) scelse

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Regala scarpe da neonato a donna incinta. Medico multato di 10.000 euro https://it.zenit.org/2014/03/27/regala-scarpe-da-neonato-a-donna-incinta-medico-multato-di-10-000-euro/ https://it.zenit.org/2014/03/27/regala-scarpe-da-neonato-a-donna-incinta-medico-multato-di-10-000-euro/#respond Thu, 27 Mar 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/regala-scarpe-da-neonato-a-donna-incinta-medico-multato-di-10-000-euro/ L'84enne Xavier Dor denunciato in Francia di "abortofobia". Quanto passerà prima che verranno multati anche i bambini per la loro paura del buio?

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È di pochi giorni fa la notizia del fatto, avvenuto in Francia, che ha visto Xavier Dor, medico di 84 anni, accusato di abortofobia. A presentare denuncia la donna incinta alla quale l’uomo avrebbe regalato un paio di scarpine da neonato con il chiaro scopo di dissuaderla dall’abortire.

L’uomo ha perciò dovuto pagare una multa di 10.000 euro, rischiando inoltre un mese di reclusione, perché riconosciuto colpevole di aver infranto la legge Weil del 1975 che ha introdotto il reato di intralcio all’aborto, considerando quest’ultimo un diritto di tutte le donne che non desiderano portare a termine la gravidanza.

Naturalmente ciò ha suscitato lo sconcerto di tanti, a partire dai numerosi movimenti pro life attivi in Francia, una nazione commossa solo nel secolo scorso dall’intelligenza umana di Jérὂme Lejene il quale, difendendo la dignità della vita umana tutta intera, scoprì nel 1959 la sindrome di Down.

Siamo chiaramente di fronte ad un paradosso: se oggi, infatti, è multata la fobia dell’aborto, non sarà difficile domani multare i bambini per la loro paura del buio e non passerà molto tempo prima che una madre sia multata per il timore che suo figlio getti via la propria vita. Sarà addirittura perseguitato quel ragazzo che solo per un momento sperimenterà la paura nell’accorgersi che il tempo trascorso con la propria amata non porta con se un inveramento del loro amore. Si assiste così alla stupida e insieme feroce messa in dubbio della semplice – direi quasi banale – evidenza delle cose. E questo fa terribilmente paura.

Ma perché un primo comprensibile sconcerto non imputridisca presto in una sterile e borghese indignazione, è necessario chiedersi cosa vi sia di buono in tutto questo per noi e per la vita della Chiesa. La risposta è inequivocabile: il rinnovarsi della coscienza di essere chiamati ad una guerra, l’unica degna di essere preparata. Si tratta di un duello da proporre con matura gioia in difesa della mera esistenza dell’essere che, in quanto tale, è e non può non essere. E dal momento che è e c’è, implora di essere riconosciuto e affermato.

Ciò rende la nostra una di quelle guerre per chi, pur non avendo grandi spalle, ha comunque del cuore e merita  di servire con dignità nella fanteria, sul terreno della scontatezza e con lo stemma dell’ovvio cucito sul petto. Sembra realmente riecheggiare ora nella carne quello che Chesterton, principe del paradosso, scriveva nella sua Londra agli inizi del 1900: «Fuochi verranno attizzati per testimoniare che due più due fa quattro, spade saranno sguainate per dimostrare che le fogli sono verdi d’estate». Se non altro, come tutte le sfide sincere, questa avrà almeno il pregio di evacuare la noia, quella disperazione abortita che è il grande nemico dell’umanità.

Quale gloria, dunque, ci verrà per essere usciti vincitori da questa impresa? Ancora l’autore inglese acutamente la coglie e così scrive: «Combatteremo per i prodigi visibili come se fossero invisibili. Guarderemo l’erba e i cieli impossibili con uno strano coraggio. Noi saremo tra quanti hanno visto eppure hanno creduto.»

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