Giampaolo Crepaldi, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/giampaolocrepaldi/ Il mondo visto da Roma Sat, 05 Nov 2016 09:00:29 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Giampaolo Crepaldi, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/giampaolocrepaldi/ 32 32 La coscienza come primario problema politico https://it.zenit.org/2016/11/05/la-coscienza-come-primario-problema-politico/ Sat, 05 Nov 2016 09:00:29 +0000 https://it.zenit.org/?p=91188 Osservazioni dell'arcivescovo di Trieste a margine del messaggio del cardinale Pietro Parolin al Centro Studi Livatino

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Per l’occasione del suo recente Convegno su “Coscienza senza diritti?”, tenutosi a Roma il 21 ottobre scorso nell’Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari, il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin ha inviato al Centro Studi Livatino un denso Messaggio incentrato sul tema del Convegno stesso, ossia sulla coscienza. Le osservazioni del cardinale vanno riprese e valorizzate in quanto colgono in profondità sia le difficoltà attuali nella concezione della coscienza sia le vie per uscire dalla palude contraddittoria di una coscienza fonte assoluta di diritti ma che proprio per questo finisce per perdere ogni diritto. Se ogni coscienza ha diritto a tutto, al punto da poter stabilire essa stessa cosa sia diritto e cosa sia torto, diventa anche possibile sostenere che la coscienza non ha diritto a niente, se il principio viene espressa in coscienza. Se il criterio non è il contenuto di verità, ma la pura espressione di un atto di coscienza, allora è possibile sostenere in coscienza che su questo o su quell’altro punto l’obiezione di coscienza non è ammessa. Questa è appunto la coscienza senza diritti.
Il cardinale Parolin fa riferimento ad una coscienza che si fonda su una “visione strutturata e valoriale della persona umana” e ad una che invece fa riferimento ad una visione “molto più fluida se non addirittura liquida di un uomo disancorato da solidi punti di riferimento secondo una malintesa idea di libertà”. In un regime di coscienza liquida, ogni coscienza è un assoluto e, quindi, si apre il conflitto delle coscienze. Non seguendo ogni coscienza se non la coerenza con se stessa, l’unico criterio per dirimere il conflitto tra le coscienze sarà quello della forza. Accade così che sempre più spesso le legislazioni in tema di “nuovi diritti” non contemplino il diritto all’obiezione di coscienza.
Come è possibile, ci si chiede, che in un regime di coscienza liquida, ove la coscienza può decidere tutto, si vieti poi di rifarsi alla propria coscienza nella forma dell’obiezione? La motivazione sta nel divieto di sostenere in coscienza che la coscienza può decidere tutto. Si ammette che la coscienza possa decidere tutto, tranne una cosa: che la coscienza possa decidere che decidere tutto è sbagliato. Chiunque sostenga che c’è qualcosa che precede la coscienza e la limita viene obbligato ad accettare il principio che la coscienza non ha limiti. In questo modo lo Stato e la legge impongono alla coscienza di accettare che niente deve essere imposto alla coscienza. Si noti la non solo apparente stranezza: si impone di non tollerare imposizioni. Sta qui tutta la contraddizione: si dice che niente deve essere imposto alla coscienza, ma poi si impone questo principio in modo assoluto e dogmatico.
Il Segretario di Stato ha anche elencato i “limiti” della coscienza dai quali, secondo la nuova ideologia, ci si dovrebbe liberare e ha collegato il discorso con le concezioni distorte della libertà. I limiti sarebbero “la natura, l’etica, la religione e la stessa cultura umanistica”. Il riferimento implicito è alle nuove correnti ideologiche che vogliono affidare al giudizio di coscienza anche la stessa natura della persona, la sua identità sessuata, cosa si intenda per relazioni familiari o il significato della procreazione. La nuova ideologia vuole obbligare a liberarsi da questi “limiti”. Si noti anche qui la medesima contraddizione vista sopra: l’obbligo alla libertà. La libertà può liberarsi di tutto ma non può liberarsi dell’idea di liberarsi di tutto. E’ vietato sostenere che la libertà ha dei limiti, cosa in vero necessaria affinché la libertà possa avere un senso. Ed infatti si assiste alla tendenza a imporre una libertà priva di senso. Una libertà imposta dal potere, del resto, non può che essere tale.
E’ evidente che una concezione simile della coscienza e della libertà produce disgregazione e individualismo da un lato e imposizione da parte del potere politico dall’altro. È la vecchia storia del privato e del pubblico. Ambiti di grande rilevanza pubblica – come la vita, la famiglia, la procreazione – vengono privatizzati e devoluti ad una coscienza totalmente libera, ma contemporaneamente questo è fatto con un forte atto di imposizione politica, ossia col divieto di orientare la coscienza secondo “la natura, l’etica, la religione e la stessa cultura umanistica”, per riprendere le espressioni del cardinale. Non credo si abbia sufficientemente presenti queste conseguenze prettamente politiche del tema della coscienza.
Il cardinale Parolin conclude il suo Messaggio al Centro Studi Livatino con due osservazioni: l’una riguarda l’importanza della coscienza nella visione cristiana e l’altra la sua formazione. In questo modo egli ha dato degli spunti per aprire nuove strade di vera libertà di coscienza. La coscienza è prima di tutto l’io consapevole, ossia capace di guardare, oltre che alle cose, anche dentro se stesso. La coscienza così intesa richiama l’anima personale, la spiritualità della persona, che è capace di valutare e giudicare le situazioni della vita che, rispetto ad essa, sono tutte contingenti. Su questo piano c’è bisogno di una cultura filosofica e teologica che riprenda il tema dell’anima. Secondariamente la coscienza è la capacità della ragione pratica di orientare l’azione in base al bene e al male. Bisogna qui ricordare che come la ragione teoretica intuisce immediatamente i primi principi del ragionamento, così la ragione pratica intuisce immediatamente i primi principi della morale, ossia la sua regola aurea – fare il bene, fuggire il male – e le sue primissime applicazioni. Credo che anche questa facoltà della coscienza debba essere riscoperta. Abbiamo bisogno oggi di tornare a riconoscere che tutti gli uomini, al di là delle loro diversità cultuali o religiose, sono capaci di conoscere alcuni elementi a tutti comuni sia sul piano teoretico che sul piano pratico. Abbiamo troppo insistito sulle diversità, bisogna recuperare ciò che ci accomuna, per arginare le derive centrifughe nella concezione della coscienza e della sua libertà.
Sta proprio qui l’importanza dell’invito del cardinale Parolin a ritornare a formare le coscienze. La nuova ideologia della coscienza come fonte del diritto e del torto non pensa di dover essere formata. Per formarla bisognerebbe prendere le mosse da principi altri dalla coscienza stessa ed è proprio questo che questa ideologia rifiuta. Una coscienza fonte della verità non ha bisogno di essere formata alla verità: essa conosce già la sua unica verità, ossia l’autodeterminazione, che purtroppo oggi è spesso l’unico criterio che guida la coscienza dell’uomo postmoderno anche davanti a scelte di cruciale importanza per la persona e per la comunità. Il punto di partenza per ritornare a formare la coscienza è il riconoscimento che una coscienza lasciata a se stessa diventa un carcere.
L’uomo è impedito ad uscire da sé. Quando il potere obbliga ognuno a seguire solo la propria coscienza, lo obbliga ad essere uno schiavo soddisfatto. Per farlo, come ho già detto sopra, deve però obbligare con la forza, perché la vera libertà dell’uomo lo spinge naturalmente ad uscire da sé per incontrare la realtà e, nella realtà, gli altri uomini. La formazione della coscienza è quindi costruzione della comunità, mentre abbandonare – o costringere – la coscienza a seguire solo “le proprie voglie” significa atomizzare la comunità in disparati punti privi di relazione.

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La famiglia negli insegnamenti di Papa Francesco https://it.zenit.org/2015/12/06/la-famiglia-negli-insegnamenti-di-papa-francesco/ https://it.zenit.org/2015/12/06/la-famiglia-negli-insegnamenti-di-papa-francesco/#respond Sun, 06 Dec 2015 10:25:14 +0000 https://it.zenit.org/la-famiglia-negli-insegnamenti-di-papa-francesco/ Il Pontefice invita a ripartire dall’abc dell’umanizzazione e dell’evangelizzazione, anche a proposito della famiglia

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Riportiamo di seguito il discorso pronunciato il 18 novembre 2015 da mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste, in occasione della conferenza “La famiglia nel magistero di Papa Francesco”, tenutosi nella Chiesa Metropolitana di San Lorenzo, a Genova.

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Papa Francesco parla con grande frequenza della famiglia. Tutti noi ricordiamo i grandi insegnamenti di Giovanni Paolo II sulla famiglia. Egli era stato chiamato “Il Papa della famiglia”. Memorabili, in particolare, le catechesi delle udienze generali dedicate all’amore umano. Non di meno l’insegnamento di Papa Francesco, che interviene sulla famiglia con un magistero organico e profondo. Ne ha parlato al presidente Obama, durante la visita negli Stati Uniti. Ne ha parlato a Cuba: “dove viene meno la famiglia le persone si trasformano in individui isolati, e dunque facili da manipolare e governare”. Ne ha parlato al presidente Mattarella il 18 aprile 2015 e nel viaggio nelle Filippine nel gennaio 2014. Ne ha parlato, proprio come Giovanni Paolo II, soprattutto nelle Udienze del mercoledì, dedicate per un lungo periodo – precisamente dal dicembre 2014 al settembre 2015 – alla famiglia. Un grande patrimonio di insegnamenti.

Ho citato i due Pontefici non per fare superficiali confronti, ma per sottolineare la continuità di un unico insegnamento, pur nella diversità dei linguaggi e delle forme comunicative adoperate. Giovanni Paolo II usava un linguaggio più circolare, Papa Francesco uno più diretto. Anche San Giovanni Paolo II formulò espressioni di grande efficacia comunicativa – ricordiamo, per esempio, il fortunato riferimento al “genio femminile” contenuto nella Lettera alle Donne o la felice espressione “ecologia umana” lanciata nella Centesimus annus per dire poi che la sua prima e principale struttura è la famiglia. Nel complesso, tuttavia, il suo dire era corposo, circolare, sostenuto, ad ampie volute. Il linguaggio di Papa Francesco è diverso, più agile e ricco di immagini. Prendiamo per esempio le espressioni “la famiglia è la Carta costituzionale della Chiesa” (17 ottobre 2015) oppure “per i malati la famiglia è il primo ospedale” (10 giugno 2015), oppure la famiglia “è una palestra che allena al perdono”.

Una carta costituzionale, un ospedale, una palestra: sono immagini semplici ed efficaci. Non si tratta di definizioni di tipo strettamente teologico e dottrinale, ma espressioni di predicazione capaci di trasmettere in forma viva un contenuto umano e cristiano. Non possiamo poi dimenticare come Papa Francesco, quando parla della famiglia, raccolga molte immagini dalla vita, anche dalla sua vita personale, come quando, parlando della Mamma, parlò della sua mamma: “eravamo cinque figli e mentre uno ne faceva una, l’altro pensava di farne un’altra, e la povera mamma andava da una parte all’altra, ma era felice. Ci ha dato tanto” (7 gennaio 2015).

Infine, ricordo alcune espressioni molto azzeccate di Papa Francesco su alcuni temi di spinosa attualità, rispetto ai quali egli era stato ingiustamente accusato di un certo silenzio. L’ideologia del gender egli l’ha chiamata “un errore della mente umana” (22 marzo 2015, a Napoli) e ha detto che essa è “una forma di colonizzazione ideologica della famiglia”. Ancora una volta un modo di esprimersi plastico ed efficace. Le questioni di linguaggio non sono mai solo tali. Esse rispondono ad un posizionamento ed esprimono una visione teorica ed una strategia. Vorrei azzardare, su questo punto, qualche ipotesi interpretativa.

La situazione attuale della famiglia è forse tra le più problematiche che si siano dovute registrare. I dati relativi al calo dei matrimonio, all’aumento delle convivenze, alle nascite fuori del matrimonio, alla denatalità, alle separazioni e ai divorzi, all’uso di contraccettivi con possibile effetto abortivo e così via documentano – anche nell’ultimo Rapporto del Censis – una forte crisi della famiglia. Nel frattempo le legislazioni di tutto il mondo la indeboliscono considerandola una struttura non naturale ma convenzionale e poliforme, in ossequio ad una antropologia liquida che rifiuta qualsiasi identità data. Negli interventi di Papa Francesco sulla famiglia si nota una forte consapevolezza di questa grave crisi culturale e sociale della famiglia a cui il Papa sembra far corrispondere un nuovo atteggiamento di risposta.

Il primo è di ricostruire dall’abc il lessico familiare. In un’epoca in cui si rischia di perdere il significato della parole “mamma” o “nonno”, emerge l’urgenza di risemantizzare queste parole. In un’epoca in cui le relazioni familiari si sbriciolano, i genitori non si incontrano mai con i figli se non a sera, i rapporti generazionali implodono e gli strumenti tecnologici fanno da supplenti dei ruoli familiari, è necessario tornare a spiegare cosa voglia dire parlarsi tra componenti di una famiglia. Ecco allora che Papa Francesco spiega l’importanza delle parole “grazie”, “scusa”, “permesso” nella micro vita familiare di tutti i giorni. Eccolo, come ha fatto di recente (11 novembre 2015) spiegare a genitori e figli che in famiglia bisogna anche lasciar stare smartphone e televisione e parlarsi dal vivo attorno alla tavola della cena. Nei primi mesi del 2015, il Papa ha dedicato le udienze del mercoledì a spiegare cosa significhino i termini mamma, papà, nonni, fratelli e sorelle.

Qualcuno può essere sorpreso che un Papa parli di queste piccole cose. Che, anziché discorsi di profonda teologia, spieghi che con uno switch off bisogna spegnere il cellulare quando si è a tavola. Io credo, però, che il Papa svolga così un compito indispensabile di rieducazione all’essenziale, nel tentativo di segnalare il pericolo di una degenerazione familiare che parte sì dagli attacchi ideologici e legislativi – che il Papa non manca di denunciare – ma che si concretizza anche nei piccoli baratri delle relazioni umane di tutti i giorni. Del resto – mi chiedo – si tratta veramente solo di indicazioni povere ed elementari, oppure con questa forma colloquiale e domestica – come seduto su un divano di una delle nostre abitazioni – il Papa sceglie di far capire contenuti molto più profondi? Per rispondere a questa domanda vorrei proporre alcune osservazioni sulla base della Dottrina sociale della Chiesa.

Papa Francesco non usa molto l’espressione Dottrina sociale della Chiesa. E’ vero che nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium egli cita molte volte il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa. E’ vero anche che in molte circostanze, soprattutto nei discorsi ai Dicasteri e alle Accademie pontificie, egli ha adoperato l’espressione. Riconosciuto questo, mi sento di dire che egli usa la Dottrina sociale della Chiesa più in modo implicito che esplicito, indiretto più che diretto. Ciò è particolarmente evidente quando si riferisce alla famiglia. Leggendo i suoi interventi sulla famiglia si riscontra la presenza di tutti i grandi temi della Dottrina sociale della Chiesa inerenti alla famiglia senza che ciò sia messo in evidenza e con un linguaggio, come già si diceva sopra, non dottorale ma piano e quotidiano. Potrei anche dire che la Dottrina sociale della Chiesa è presupposta e passa dall’interno dei suoi interventi, senza essere formalmente ripresa e ridefinita.

E’ abbastanza facile portare qualche esempio.

All’udienza generale del 2 settembre scorso, il Papa ha parlato della famiglia come antidoto all’attuale desertificazione della società. Con questa espressione immaginifica – il deserto – il Papa ha ribadito la tradizionale dottrina della famiglia come fonte di socialità, di accoglienza e come luogo dell’esperienza del dono che troviamo nella Caritas in veritate di Benedetto XVI o nella Familiaris consortio di Giovanni Paolo II. Già nell’udienza del 18 febbraio 2015 egli aveva insistito sul fatto che l’esperienza di essere fratelli e sore
lle si fa in famiglia e solo perché si fa in famiglia la si può poi fare nella Chiesa e nella società. Così è per l’aiuto ai più deboli: è in famiglia che ci si abitua a farlo non per motivi ideologici, ma per amore.

Alla catechesi del 19 agosto scorso, Papa Francesco ha parlato della famiglia come scuola di lavoro, ammonendo che se si vuole salvare il lavoro bisogna salvare la famiglia, con ciò richiamando gli insegnamenti della Rerum novarum di Leone XIII e della Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Alle udienze del 22 e del 29 aprile di quest’anno ha parlato della reciprocità complementare tra uomo e donna, valutando negativamente le ideologie che oggi pretendono di negarla e ha poi chiesto la parità di trattamento sul lavoro tra uomo e donna. Nel primo caso ha ripreso e attualizzato gli insegnamenti di Benedetto XVI sull’ideologia del gender, contenuti soprattutto nel discorso alla Curia romana del dicembre 2012. Nel secondo ha ripreso le considerazioni di Giovanni Paolo II sulla conciliazione tra lavoro e vita familiare e l’adeguata valorizzazione del “genio femminile” nella società contenute nella Familiaris consortio e nella Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II.  

Nell’udienza dell’11 febbraio 2015, Papa Francesco ha parlato a lungo dei figli come un dono: “I figli sono un dono, sono un regalo: capito? I figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso inconfondibilmente legato alle sue radici. Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo”. In questo modo e con questo linguaggio diretto egli ha veicolato i contenuti della bioetica e della biopolitica cattolica, dalla Humanae vitae di Paolo VI alla Evangelium vitae di Giovanni Paolo II fino ai successivi documenti della Santa Sede.

Ho citato qui molti documenti magisteriali i cui contenuti si riverberano negli interventi di Papa Francesco, ma senza essere esplicitati. Potremmo forse definirli dei contenuti “leggeri”, non appesantiti dalla forma accademica della citazione ma inseriti nel flusso della vita. Ho fatto questi quattro esempi, per mostrare come gli interventi di Papa Francesco sulla famiglia sono sì effettuati con un linguaggio domestico che si concentra su immagini e frasi particolarmente evocative – “chi non vive per servire non serve per vivere” – ma con ciò non si esime dal veicolare contenuti molto alti. Mi sono occupato qui di temi legati alla Dottrina sociale della Chiesa, ma lo stesso discorso si potrebbe fare per altri ambiti dell’insegnamento della Chiesa.

Vorrei ora tornare, avviandomi alla conclusione, al metodo che, come abbiamo visto, non è mai solo un problema di metodo. A me sembra che Papa Francesco ci voglia indicare una via caratterizzata da due elementi: il primo è ripartire dall’abc dell’umanizzazione e dell’evangelizzazione, anche a proposito della famiglia. Faccio notare che non ho parlato solo di evangelizzazione ma anche di umanizzazione. Nei discorsi del Papa sulla famiglia i due elementi si intrecciano sempre e, del resto, tutti constatiamo la necessità di recuperare, insieme al cristianesimo e tramite di esso, elementari condizioni umane di vita. Il secondo è che bisogna lavorare soprattutto sulle relazioni, perché non solo la famiglia è soprattutto relazione ma la società intera oggi gioca proprio lì la sua esistenza. Ciò non significa per nulla non collocarsi correttamente anche nei confronti delle istituzioni, delle leggi, delle politiche, ma bisogna ricordare che queste tre realtà non sono statiche, ma rispondono alle sollecitazioni che giungono dal basso, nella trama delle relazioni familiari e sociali. Qui i modelli veramente vincenti sono quelli che danno vita a comportamenti, ad atteggiamenti, a pratiche di vita, a relazioni. Da qui, probabilmente, una certa ritrosia o parsimonia del Papa a dare definizioni e la sua propensione a indicare comportamenti da assumere, prassi da promuovere, dimensioni di vita da valorizzare o, come egli ama dire, processi da avviare.

In questa dimensione relazionale e vitale, va collocata naturalmente prima di tutto la vita di fede. Il 25 marzo 2015, il Papa ha proposto una preghiera per la Famiglia in vista dell’allora prossimo Sinodo ordinario sulla famiglia. Vi invito a non dimenticarla, ora che il Sinodo si è concluso. Questo per dire che mi sembra che Papa Francesco ci voglia insegnare che il cristianesimo è vita vissuta, carne incarnata. In fondo la famiglia si salverà se nelle nostre famiglie penetrerà la vita della Famiglia di Nazareth.

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Nella “Laudato Si’” la lode a Dio diventa appello alla responsabilità solidale https://it.zenit.org/2015/07/07/nella-laudato-si-la-lode-a-dio-diventa-appello-alla-responsabilita-solidale/ https://it.zenit.org/2015/07/07/nella-laudato-si-la-lode-a-dio-diventa-appello-alla-responsabilita-solidale/#respond Tue, 07 Jul 2015 12:06:17 +0000 https://it.zenit.org/nella-laudato-si-la-lode-a-dio-diventa-appello-alla-responsabilita-solidale/ Il Vescovo di Trieste commenta l’enciclica di Papa Francesco

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L’enciclica Laudato Si’ di Papa Francesco è la prima enciclica interamente dedicata alla cura del creato secondo la visione cristiana. Dobbiamo essere grati al Santo Padre per averci dato questo insegnamento di grande ampiezza e sistematicità. Questa enciclica rappresenta una organica sistemazione della sapienza accumulata dal magistero pontificio più recente, sulla scorta naturalmente dell’insegnamento biblico ed evangelico e alla luce delle verità della fede cattolica.

Non può non essere notato, in particolare, che l’enciclica Laudato Si’ si collega espressamente in più punti alla Caritas in veritate di Benedetto XVI, che viene ripetutamente citata. Ed infatti era stata questa enciclica ad affrontare per la prima volta in modo ampio e culturalmente approfondito due tematiche che ora Papa Francesco ulteriormente sviluppa. La prima di queste due tematiche è quella della tecnica. La Caritas in veritate vi aveva dedicato un intero capitolo e la Laudato si’ la affronta con completezza, parlandone in modo diffuso. Lo sviluppo della tecnica ha portato i suoi frutti, ma anche ha rivelato le debolezze dello spirito di tecnicità, che ora Papa Francesco chiama il paradigma tecnocratico. È un paradigma di possesso e di autoesaltazione individualistica che dà agli uomini il senso del potere senza però quello della responsabilità. Papa Francesco utilizza molto, qui, il pensiero di Romano Guardini, pensatore molto caro anche a Benedetto XVI.

Il secondo tema della Caritas in veritate che transita nella Laudato Si’ per esservi sviluppato è quello del rapporto con la natura. Comunemente viene detto il problema ambientale o ecologico. La prospettiva della Laudato Si’, però, è più ampia, come dirò meglio più avanti, come più ampia era la prospettiva della Caritas in veritate. Non esiste un problema solamente ecologico, o della natura intesa unicamente in senso ambientale. Il problema ecologico è prima di tutto un problema antropologico e, infine, un problema teologico, ossia del rapporto della creatura col Creatore. C’è, quindi, una chiara linea di sviluppo tra le due encicliche.

Papa Francesco dice che la sua prima enciclica va ad arricchire l’insegnamento sociale della Chiesa. Il motivo non è dato solo dal fatto che oggi la questione ecologica è percepita da molti come un problema sociale emergente. Certo, anche questo ha la sua importanza. Dipende però soprattutto dal fatto che la tutela del creato, nella sua capacità di riconciliare, se bene intesa, l’uomo con la natura, compresa la propria natura, e con il Creatore, può essere una “chiave” dell’intera questione sociale. Dalla natura, afferma Papa Francesco, l’umanità trae le condizioni di vita, ma trae anche i motivi di vita, se è capace di vederla secondo l’insegnamento di Dio. Il creato ci parla e la cura per esso è anche cura dell’uomo secondo il progetto di Dio. Ed invero, nella Laudato Si’, Papa Francesco tocca tanti temi che, a prima vista, non verrebbero ascritti alla questione del creato: parla della famiglia e della vita, del lavoro e dell’impresa, dello sviluppo e della povertà. Come se il rapporto con il creato e il Creatore fosse un punto di vista integrale sulla vita sociale.

Non manca, il Papa, di toccare in più punti il rapporto tra la tutela della vita umana e della famiglia e la cura per il creato. Benedetto XVI aveva approfondito questo legame, che veniva da lui proposto nella Caritas in veritate come un segno fortemente distintivo della visione cattolica dell’ecologia, vale a dire la sua relazione con l’ecologia umana, già ampiamente proposto da Giovanni Paolo II. Papa Francesco parla di aborto e di diritti dell’embrione umano, contrasta l’idea di una pianificazione familiare imposta politicamente e sfida il modello neomalthusiano secondo cui la salvezza dell’ecosistema dipenderebbe dalla riduzione pianificata delle nascite. Secondo lui questa è una ideologia che rientra nel paradigma tecnocratico proprio della ragione strumentale che la Laudato si’ denuncia. Papa Francesco fa anche notare la contraddizione di tanti movimenti ecologisti che difendono l’ambiente naturale ma non l’ambiente umano. La natura, se intesa come il creato, non può essere assunta a pezzi, ma in modo integrale. E’ un disegno unico ed unitario.

È questo il senso dell’espressione “ecologia integrale” che il Papa adopera spesso. L’aggettivo integrale non sta qui a significare il radicalismo di una ideologia. Papa Francesco sa bene che anche i movimenti ecologisti sono spesso vittime di una ideologia semplificatoria e riduttiva. Integralità significa piuttosto: attenzione a tutte le interconnessioni, orizzontali ma soprattutto verticali, e potrebbe essere intesa anche come globalità, secondo l’ottica del tutto. E’ molto attento Papa Francesco a mettere in evidenza le relazioni, i collegamenti vitali, le forme della collaborazione comunitaria come risposta alla globalità interconnessa dei problemi. Questo deriva dal fatto che il creato è un “tutto”, non una somma di particolari, ma un senso unitario e coordinato, un unico discorso sull’uomo.

Di questa ecologia “integrale”, Papa Francesco mostra tutti gli aspetti, da quello sociale a quello culturale, da quello proprio della vita quotidiana su su fino a quello sacramentale ed eucaristico. Tutto si tiene, ma ciò che tiene il tutto è sempre la vita cristiana, la vite del tralcio innestato in Cristo. Papa Francesco spinge il discorso molto in alto, fino a parlare della Santissima Trinità. I dogmi della fede cattolica non sono privi di significato per la nostra vita su questa terra e per lo stesso modo di trattare la terra.

Farà forse discutere l’espressione “conversione ecologica” e non è escluso che questo punto possa venire strumentalizzato, assieme ad altri, da parte dei movimenti ecologisti troppo condiscendenti con lo spirito del mondo. Il Papa fa molti esempi concreti e quotidiani, piccoli, se vogliamo, ma questo non significa che all’impegno ecologico egli non dia un significato molto alto e completamente cristiano, ossia collegato con l’intera dottrina della fede. Anche la “conversione ecologica” va intesa in questo senso alto. Conversione non a risparmiare acqua o a non sprecare energia, ma conversione al Creatore di cui il creato esprime la magnificenza e la bontà. In questa luce, anche i piccoli atti quotidiani di rispetto delle cose, degli animali, dell’ecosistema e dei nostri fratelli più poveri possono assumere il significato di essere segni visibili di una conversione più profonda.

E’ presente nella Laudato Si’ una attenzione particolare per il tema della povertà e dei poveri. Non stupisce in Papa Francesco. La povertà non si spiega mai solo in termini economici e la lotta alla povertà non si fa mai solo con interventi economici. A pagare la noncuranza per il creato sono soprattutto i poveri. Ma spesso le ideologie che hanno millantato di difendere i poveri sono state le principali distruttrici dell’equilibrio naturale. Il nesso tra degrado ambientale e povertà c’è, ma la soluzione sta nella capacità di vedere il problema dal punto di vista dell’intero: dell’ecologia integrale. Lì anche i poveri trovano il loro posto, perché se cambiano i cuori e si rappacificano con il creato e il Creatore, anche le relazioni umane si arricchiranno.

Il Papa chiama “consumismo” un atteggiamento della mente e del cuore: adoperare le relazioni e le persone come strumenti. Il pericolo che di questa espressione dell’enciclica si impossessino ideologie sociali ed economiche di retroguardia c’è. Il Papa parla di “mercato” o di “logica di mercato” intendendo la mentalità del possesso tecnocratico applicata all’economia, senza le precise distinzioni fatte per esempio da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus. Ed anche qui il pericolo suddetto può riconfermarsi. Ma al fondo del suo discorso aff
erma che la povertà non è solo un problema economico o sociologico. Essa dipende da come gli uomini si rapportano a Dio e al suo progetto di salvezza su di loro che ha avuto inizio con la creazione.

L’enciclica scende anche sul terreno delle teorie scientifiche e sulle prospettive pratiche di gestione ambientale. Utilizza concetti presi dalla sociologia contemporanea, come quello di “decrescita” o di “sostenibilità”, ancora oggetto di dibattito. Si muove, insomma anche sul terreno del possibile e di quanto potrebbe anche essere altrimenti. Affronta anche temi spinosi e contrastati come quello dell’uso degli OGM in agricoltura. Talvolta lo fa per raccogliere dati come base per una proposta etica e religiosa, altre volte presenta il problema controverso ed auspica un ulteriore approfondimento, come nel caso degli OGM, ma senza prendere posizione. In altri casi ancora usa espressioni oggi molto adoperate, ma cercando di collocarle in un  contesto più ricco di significato, per emanciparle da prospettive riduttive.

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Per ogni approfondimento Osservatorio Internazionale cardinale Van Thuan: http://www.vanthuanobservatory.org/notizie-dsc/notizia-dsc.php?lang=it&id=2158

 

 

 

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Senza trascendenza l'umano si corrompe https://it.zenit.org/2014/12/03/senza-trascendenza-l-umano-si-corrompe/ https://it.zenit.org/2014/12/03/senza-trascendenza-l-umano-si-corrompe/#respond Wed, 03 Dec 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/senza-trascendenza-l-umano-si-corrompe/ L'Europa e la dignità della persona umana nelle parole di Papa Francesco a Strasburgo

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A distanza di qualche giorno dal discorso di papa Francesco al Parlamento europeo di Strasburgo e dopo i numerosi commenti a caldo da parte della stampa, vorrei riprendere quelle sue riflessioni, che rappresentano una nuova tappa degli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa sull’Europa.

In continuità con i predecessori

L’Europa di cui parlava san Giovanni Paolo II era molto diversa da quella di oggi. Era l’Europa che sentiva ancora le ferite profonde della seconda guerra mondiale, del comunismo, dei muri. Basta leggere la Centesimus annus, o il libro “Memoria e identità”, o i numerosi suoi discorsi tra cui anche quello tenuto proprio al Parlamento europeo venticinque anni fa, per cogliere la diversità storica di quella prospettiva rispetto ad oggi. San Giovanni Paolo II si interrogava sul misterium iniquitatis a causa del quale l’Europa, culla dell’umanesimo e del cristianesimo, era diventata il luogo dei totalitarismi disumani che avevano tentato di estromettere Dio dalla vita del Continente.

Perfino l’Europa di cui parlava Benedetto XVI, nonostante il breve tempo intercorso, non è più esattamente quella. Egli ne vedeva la vocazione nell’incontro tra ragione e fede cristiana, ma nel frattempo la fede dell’Europa nella ragione si è decisamente indebolita e la capacità della cultura e della politica degli Stati europei e della stessa Unione di rifarsi al deposito normativo contenuto nella natura dell’essere umano ha ulteriormente perso slancio e fiducia.

Eppure, nonostante queste diversità, sia Giovanni Paolo II che Benedetto sono presenti nelle parole di papa Francesco a Strasburgo. Questo discorso segue un registro più esistenziale che non storico o filosofico. Ma nelle osservazioni sulla “trascendente dignità” della persona umana e nell’analisi del rapporto tra i due termini – trascendente e dignità – recupera, rinnova e rilancia gli insegnamenti precedenti.

L’Europa e la trascendente dignità della persona

La dignità della persona umana – ha detto papa Francesco – è stata messa a fuoco in Europa. Ciò non significa che qui essa sia sempre stata rispettata e lo sia tuttora. E’ certo, però, che in Europa è nata la spinta a rispettarla, a codificarla in un elenco di diritti, a teorizzarla e a mobilitare tante energie per realizzarla. E’ qui che papa Francesco riprende il grande tesoro delle riflessioni dei suoi due predecessori. La dignità della persona umana può essere vista pienamente senza partire dalla sua trascendenza? Le si può rimanere fedeli, anche nelle difficoltà e quando bisogna pagare qualcosa di caro per farlo, senza essere sostenuti da motivazioni di ordine trascendente? Si può provare pentimento e rimorso quando la si ferisce se non in riferimento ad un obbligo di coscienza trascendente?

Giovanni Paolo II, Benedetto, Francesco: tutti dicono che la dignità umana è sì umana, ossia propria dell’uomo, qualcosa di suo, qualcosa che gli appartiene in quanto uomo e che nessuno gli può togliere, ma che non trova però nell’uomo la sua ultima fondazione.

O la dignità umana è “trascendente” oppure non è garantita fino in fondo, non è adeguatamente sorretta, non è completamente spiegata.

Rimane qualcosa di alto, certamente, ma di assunto come privo del suo fondamento ultimo: assunta ma non fondata. Anche papa Francesco dice che tale dignità non può essere oggetto di deliberazione umana e il Parlamento di Strasburgo, come ogni parlamento umano, deve rispettarla e porsi al suo servizio.

Il filo conduttore del discorso di papa Francesco a Strasburgo è che, senza la trascendenza, le cose umane si corrompono, perché non hanno in se stesse la loro salvezza. Ciò non significa che solo chi crede sia in grado di rispettare la persona umana. Possiamo constatare prove di questo rispetto in tutti. Ma come comunità si finisce per annebbiare la consapevolezza comune circa questa dignità e per introdurre elementi che la corrompono. La difesa della dignità umana è nelle nostre mani, ma la dignità umana non è nelle nostre mani.

Ciò che costituisce la comunità europea

Papa Francesco propone una strada per accorgersi che si sta perdendo di vista la dignità umana. Questo avviene non solo quando non si ha riguardo per evidenti situazioni di degrado umano come la povertà, la fame, la disoccupazione. Si perde di  vista la dignità umana anche quando si esaltano troppo i suoi diritti, fino ad esasperarli. Questa, secondo papa Francesco, è la contraddizione dell’Europa ai nostri giorni. Si pensa di valorizzare la persona ampliando le sue chance di vita senza criterio e intestandole automaticamente i diritti conseguenti. Se la persona può fare qualcosa anche lo deve fare e bisogna permetterglielo per legge. In questo modo, però, annota Francesco, vengono amplificati i diritti individuali e si perde il senso del limite originario costituito dai doveri. Quale la via per risolvere la questione?

Considerare la persona non come individuo ma come un essere relazionale, comunitario, dato che proprio dalla valorizzazione della comunità derivano le limitazioni dei diritti individuali, che, lasciati a se stessi, sono sempre irresponsabili. Vivere in comunità significa prendersi cura responsabilmente gli uni degli altri.

Nascono così i doveri che limitano e orientano i diritti. Sempre attento agli aspetti dell’esistenza, papa Francesco fa notare come nei Paesi dell’Unione europea emerga un evidente paradosso: più aumenta la soddisfazione dei diritti individuali e più gli individui si sentono soli. Più il welfare o le normative di legge soddisfano i desideri individuali, compresi quelli più eccentrici ed innaturali, e più l’individuo si affloscia in se stesso, vittima del cerchio involutivo dei suoi desideri.

Un continente “vecchio”?

Arriviamo così ad un altro punto interessante del discorso del Papa a Strasburgo. I dati sociologici in questo caso sono più eloquenti degli approfondimenti filosofici. L’Europa sta invecchiando prima di tutto demograficamente. Ma sta invecchiando anche come spinta ideale, come voglia di essere e di fare nel mondo. Il Papa segnala, giustamente, la nuova dimensione globale dei problemi, per cui l’Europa non può più ritenersi al centro del mondo. Questa sua centralità era un tempo garantita dalla geografia e dalla storia, oggi non lo è più. Questa, però, è a suo avviso solo una causa seconda, non fondamentale. La vecchiezza europea nasce all’interno della stessa Unione europea.

E’ una crisi culturale e morale. Una crisi di identità. Anche Benedetto XVI aveva detto molto su questo argomento e la riunificazione del Continente dopo il crollo del muro di Berlino e l’estensione dei confini dell’Unione ad oriente, che tanto stavano a cuore a Giovanni Paolo II, non ha risolto il problema dell’identità europea. Perché è un problema interno che l’Unione europea non risolverà senza confrontarsi con la propria origine cristiana.

Papa Francesco, come dicevo, indica la strada della relazionalità, della riscoperta della dimensione comunitaria per superare la solitudine individualistica dell’uomo come “monade”. A questo punto però il problema si ripropone: da dove nasce questa dimensione comunitaria? Prima si era posto il problema da dove nasca la dignità della persona, ora fa lo stesso per la comunità. Siamo noi a costituire la comunità, mettendoci insieme con un pactum societatis a cui fa seguito – come voleva Hobbes – unpactum subiectionis, ovverossia il potere? In questo caso il potere non avrebbe limiti, perché esso fonderebbe la comunità. Oppure siamo chiamati a vivere insieme da un fondamento trascendente? Da una natura relazionale che rivela il progetto del Creatore? Torna così il tema della trascendenza non solo della persona umana presa in se stessa ma anche della comunità umana.

Trascendenza e su
ssidiarietà

Sentirsi comunità, vedersi come costituti da altro, non chiudersi nel proprio individualismo di persone, di piccole comunità, di singole nazioni … è fondamentale – secondo papa Francesco – per tornare a pensare in grande e superare la vecchiezza dell’Europa. L’individualismo toglie energie non solo ai singoli, incentrandoli narcisisticamente sui propri desideri, ma anche ai corpi intermedi delle società e alle stesse nazioni. I corpi intermedi sono tentati di attendersi dallo Stato quello che possono invece fare loro, assumendosi i propri doveri. Gli Stati sono tentati di attendersi dall’Unione europea quello che dovrebbero fare loro. E’ dalla trascendenza che deriva il principio ordinatore della sussidiarietà.

A questo proposito, il Papa ha toccato due argomenti oggi molto sentiti in Europa: l’ambiente e le migrazioni. Ambedue, però, vengono da lui ricondotti ad un dovere di impegno che trova solo in Dio la sua causa ultima. I due argomenti sono sentiti dai cittadini europei, ma anche questo interesse può essere ammalato di narcisismo. Si può difendere l’ambiente e dimenticare l’uomo. Questo capita quando l’equilibrio ambientale è considerato il puro effetto di tecniche individuali e collettive e non di un atteggiamento di accoglienza della propria natura umana come un dono, quindi con una origine trascendente, prima ancora che per la natura ambientale. Anche il problema delle migrazioni non è risolvibile senza uno sguardo in comune verso la comune natura umana.

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Questione sociale e questione fiscale oggi https://it.zenit.org/2014/03/04/questione-sociale-e-questione-fiscale-oggi/ https://it.zenit.org/2014/03/04/questione-sociale-e-questione-fiscale-oggi/#respond Tue, 04 Mar 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/questione-sociale-e-questione-fiscale-oggi/ L'Editoriale di mons. Giampaolo Crepaldi sul bollettino de l'Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân

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In questo fascicolo affrontiamo uno dei problemi principali della questione sociale oggi: il nodo del fisco. Crediamo con ciò di parlare di una questione di grande attualità, da tutti sentita in modo acuto, al centro di polemiche politiche ed anche di impasse programmatiche, perché tutte le belle parole della politica spesso si scontrano con il muro della questione fiscale che sembra oggi più grande di ogni ricetta per risolverla.

Se si elencano tutte le problematiche connesse con la questione fiscale si rimane sbalorditi dalla sua pervasività. Famiglia, natalità, lavoro, occupazione, risparmio, consumo e produzione, competitività internazionale, delocalizzazioni, welfare, sistema previdenziale, equità e conflitti sociali, vincoli europei per i Paesi membri … ogni elemento della vita sociale è direttamente o indirettamente connesso con il fisco e con le politiche fiscali. Ed anche in questo campo si notano i grandi cambiamenti intervenuti con la globalizzazione, sicché i livello delle politiche fiscali nazionali sembra oggi insufficiente, a fronte di spostamenti finanziari, imprenditoriali e di risorse umane aventi carattere ormai globale. Più che collaborare tra loro, gli Stati si fanno una guerra fiscale, per attirare capitali o industrie o per essere attraenti per ogni forma di investimento. Spesso l’abbassamento delle tasse con questi scopi è fatto a scapito della tutela dei diritto del lavoro o mediante lo smembramento del welfare. Gli organismi fiscali internazionali non riescono a mettere ordine e i paradisi fiscali, il cui pesò è ben più rilevante di quanto si pensi, incrociano evasione, elusione e riciclaggio.

Il dibattito sul fisco è molto vivace soprattutto in Italia, dove c’è la maggiore pressione fiscale in Europa,  che serve però soprattutto a coprire la spesa corrente, senza che il debito pubblico sia ridotto. E’ per questo che mancano le risorse per gli investimenti produttivi, per la riduzione della tassazione sul lavoro, per il potenziamento del mercato interno. Ne risultano penalizzate le imprese, i lavoratori e le famiglie. In Italia la questione fiscale è connessa quindi con la riforma dello Stato, in tutte le sue dimensioni, riforma cui finora nessuno è riuscito a mettere mano. Senza un profondo progetto ispirato al principio di sussidiarietà, che riconsideri quanto lo Stato deve fare e quando devono invece fare altri soggetti, a minor costo e con qualità maggiore, non si risolverà la questione fiscale e con essa la questione sociale.

Ma come riformare lo Stato senza una coerente visione di come oggi può essere formulato il bene comune con le sue necessità? Serve quindi un ripensamento più ampio della stessa riforma dello Stato, un ripensamento delle relazioni comunitarie stesse, per capire il senso profondo delle condizioni entro le quali diventa ragionevole pagare le tasse.

Un tempo il problema fiscale era considerato prevalentemente dal punto di vista della morale individuale. La problematica si concentrava sui casi in cui era doveroso pagare le tasse e dove si poneva la soglia oltre la quale diventava possibile una dissociazione etica. Oggi, senza perdere questo aspetto dato che in fondo tutto si decide nel cuore dell’uomo, va visto anche come un problema politico, di organizzazione della vita comunitaria in modo “fiscalmente sostenibile”, ossia dove la fiscalità è coniugata secondo criteri di sussidiaretà e di solidarietà ed è concepita in modo favorevole alla famiglia, alla procreazione, alla vita oltre che allo sviluppo economico. Il fisco diventa uno dei mezzi principali per l’organizzazione di una vita degna, con riferimento non solo alla giustizia commutativa, ma anche alla giustizia sociale generale e alla logica del dono.

Le politiche fiscali sono fortemente direttive dei comportamenti e della mentalità dei cittadini e delle famiglie. Il fisco può premiare certi atteggiamenti e sanzionarne o disincentivarne altri. In Italia, per esempio, è classico l’esempio della famiglia. Oggi il fisco italiano incentiva le convivenze di fatto e penalizza il matrimonio. Incentiva la vita da single e penalizza le famiglie numerose. La politica fiscale manifesta sempre un’ideologia costruttiva della società in un modo o nell’altro. Occorre far aumentare la consapevolezza che gli strumenti fiscali non sono solo tecnici, ma esprimono diverse visioni del bene comune in conflitto tra loro. Questo aiuterebbe ad evitare gli approcci superficiali e qualunquistici, le accuse generiche di evasione senza analizzare i contesti istituzionali del fisco in quel particolare settore di attività umana. C’è bisogno di uno sguardo d’insieme sulla questione fiscale, ed è qui che può svolgere il suo ruolo utile la Dottrina sociale della Chiesa.

Fin dalla Rerum novarum (1891) di Leone XIII, la questione sociale è stata collegata con la questione fiscale. La prima enciclica sociale sosteneva il dovere dei cittadini di pagare le tasse, come contributo responsabile al bene comune, come atto di giustizia commutativa e distributiva, come contributo al pagamento di quanto oggi vengono chiamata i beni pubblici, senza dei quali una comunità politica non può dirsi tale. La Rerum novarum non esprime una cultura fiscale statalista. Non assegna al solo Stato il compito della redistribuzione della ricchezza, né gli assegna il monopolio delle funzioni di welfare. Non erano tempi di statalismo, quelli, anche se l’enciclica leonina, nonostante il noto contenzioso pratico e teorico della Chiesa con lo Stato, non ebbe remore a parlare anche dei doveri dello Stato. Non ne fece, però, il centro della questione fiscale. Ecco perché all’imposizione fiscale la Rerum novarum pose anche precisi limiti, che vanno di pari passo con il dovere di pagare le tasse da parte dei cittadini. Le tasse non devono essere eccessive, non devono essere lesive dei diritti del cittadino e della famiglia, non devono fiaccare la responsabilità individuale. Già nella Rerum novarum c’era l’idea della sussidiarietà fiscale, una imposizione che sorga e si legittimi dal basso piuttosto che dal vertice di uno Stato che imponendo le tasse impone se stesso alla società civile. Dicevo all’inizio che oggi lo Stato italiano adopera gran parte del gettito fiscale per pagare le spese correnti, e siccome anche questo non è sufficiente si indebita pure, non per investire, ma per mantenere la sua immensa macchina. La cosa poteva forse avere una plausibilità ai tempi della società industriale e dello Stato-macchina pesante, ma non più oggi.

Importanti aggiornamenti sulla questione fiscale sono arrivati puntualmente dalle successive encicliche sociali, sempre però secondo la linea di una fiscalità non statalistica. Sono note le critiche della Centesimus annus allo Stato assistenziale, costoso e inefficiente che non impiega in modo consono quanto reperito con il fisco. Fino ad arrivare alla Caritas in veritate di Benedetto XVI che accoglie l’idea della sussidiarietà fiscale, una concezione che rompe definitivamente con la centralità dello Stato in questo campo.

Questo numero del Bollettino è aperto dagli interventi di Ferdinando Leotta (“La Dottrina sociale della Chiesa e il fisco”) e di Luigino Bruni(“Il paradosso dell’imposta tra munus e donum”). Sono due interventi di ampio respiro, che ci permettono di inquadrare in profondità l’argomento. Viene spiegato quale sia il senso vero dell’ imposizione fiscale, le sue finalità e i suoi limiti. Ne risulta anche la grande attualità degli spunti della Dottrina sociale della Chiesa in questo campo. Segnalo qui anche l’ampio saggio di Daniel Passaniti, pubblicato nella sezione Rapporti dal Mondo, che dall’Argentina coglie l’occasione per fornirci il quadro teorico fondamentale delle politiche fiscali in ordine al bene comune.

Il Bollettino entra poi nel merito delle ripercussioni delle politiche fiscali sulla famiglia e sulla scuola. L’intervista a Matteo Lepore è incentrata sulla scuola e in pa
rticolare sulla libertà di educazione. Giuseppe Brienza presenta e discute di “quoziente familiare” e di “fattore famiglia”. Che le politiche familiari indirizzino i comportamenti è documentato dai due Zoom di Giuseppe Brienza e di Giorgio Mion. Nel primo (“Per le coppie di fatto Imu ed altre tasse meno care”) si mostra un caso evidente di penalizzazione della famiglia tramite la modulazione della tassa sulla casa. Nel secondo (“Cosa manca al 5×1000 per essere veramente per il bene comune”) si analizza il caso italiano del 5 per mille per mostrarne tutti i limiti, se non viene inquadrato in una corretta visione del bene comune e del ruolo non centrale ma sussidiario dello Stato.

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Conservare la memoria per il rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali https://it.zenit.org/2014/02/10/conservare-la-memoria-per-il-rispetto-della-persona-e-dei-suoi-diritti-fondamentali/ https://it.zenit.org/2014/02/10/conservare-la-memoria-per-il-rispetto-della-persona-e-dei-suoi-diritti-fondamentali/#respond Mon, 10 Feb 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/conservare-la-memoria-per-il-rispetto-della-persona-e-dei-suoi-diritti-fondamentali/ Omelia dell'Arcivescovo di Trieste, in occasione del Giorno del Ricordo, pronunciata durante la Messa celebrata alla Foiba di Basovizza

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Distinte autorità, cari amici, fratelli e sorelle!

Ricorre quest’anno il decimo anniversario della legge istitutiva del Giorno del ricordo. Fu quello, nel 2004, un atto esemplare del Parlamento italiano. Il testo della legge, pur nel rigore formale della sua espressione giuridica, è assai impegnativo nei suoi intendimenti, affermando: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale Giorno del ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.

Siamo tutti invitati, quindi, in questo giorno così particolare, a conservare e rinnovare la memoria di una tragedia che violentemente colpì anche le nostre amate terre.

Conservare e rinnovare la memoria non significa continuare ad alimentare odi e recriminazioni, che ormai sarebbero ingiustificati sul piano morale e anche sul piano storico.

Conservare e rinnovare la memoria significa piuttosto andare, con sincerità e chiarezza, alla ricerca delle ragioni – ideologiche, culturali e politiche – che hanno alimentato la violenza, la sopraffazione, la morte di tanti fratelli e sorelle.

Conservare e rinnovare la memoria significa soprattutto coltivare quei valori umani, civili e culturali che hanno nel rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali il loro punto di partenza e il loro orizzonte di senso.

Cari amici,  quando in Europa si è rispettato la persona umana, considerata nella sua dimensione integrale, si sono scritte pagine gloriose di solidarietà e di pace; quando in Europa si è disprezzato la persona umana si è stati travolti dall’odio della guerra e dalla decadenza morale.

Le tragiche esperienze vissute nelle terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e nella più complessa vicenda del confine orientale devono consolidare nelle nostre coscienze la consapevolezza della dignità assoluta dell’uomo – di ogni uomo – e a rendere trasparente l’esigenza del rispetto dei suoi fondamentali diritti.

“Esistono beni – scrisse il Beato Giovanni Paolo II che tra poco sarà canonizzato e che lottò tutta la vita per la promozione della persona umana – che non si possono acquistare al mercato: fondamentale tra essi è la dignità della persona umana.

Oltre ai bisogni materiali ci sono pure esigenze spirituali che per loro natura debbono essere soddisfatte nella gratuità di uno scambio, in cui la persona è riconosciuta ed amata per se stessa.

Occorre superare la mentalità meramente utilitaristica, che ignora le dimensioni trascendenti della persona umana e la riduce al circolo angusto della produzione e del consumo.

Una società così concepita non è capace di integrare i più deboli e poveri, né riesce a soddisfare ciò che attendono le nuove generazioni, anche per superare una certa diffusa cultura che le rinchiude in se stesse, le porta a ricercare paradisi artificiali ed a sfuggire alle responsabilità della vita familiare e sociale.

Occorre adoperarsi per una società nuova, in cui le persone possano contare di più, in cui alla lotta sia sostituito l’incontro di libertà e responsabilità, l’alleanza tra libero mercato e solidarietà, per promuovere un tipo di sviluppo che tuteli la vita, difenda l’uomo, specie il povero e l’emarginato, rispetti il creato, che è opera della mano di Dio”. E’ con questi sentimenti e propositi che vogliamo vivere il Giorno del ricordo.

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La "Evangelii Gaudium" di Papa Francesco e la Dottrina sociale della Chiesa https://it.zenit.org/2013/12/02/la-evangelii-gaudium-di-papa-francesco-e-la-dottrina-sociale-della-chiesa/ https://it.zenit.org/2013/12/02/la-evangelii-gaudium-di-papa-francesco-e-la-dottrina-sociale-della-chiesa/#respond Mon, 02 Dec 2013 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/la-evangelii-gaudium-di-papa-francesco-e-la-dottrina-sociale-della-chiesa/ Commento di mons. Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, sulla Esortazione apostolica del Santo Padre

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L’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” contiene molti aspetti che riguardano, direttamente o indirettamente, la Dottrina sociale della Chiesa. E’ un testo connotato dalla centralità, nella vita del cristiano, dall’incontro con Gesù Cristo, il Salvatore e il Misericordioso. Il “gaudio” di cui parla papa Francesco non è un generico sentimento psicologico, è la gioia della persona rinata, della salvezza incontrata e sperimentata nella vita di grazia, della misericordia che perdona i nostri peccati se anche noi lo vogliamo, della luce che la fede in Gesù Cristo getta su tutta la nostra vita, personale, familiare, comunitaria, sociale. E’ un’Esortazione Apostolica “cristocentrica”, perché dalla luce di Gesù Cristo prendono luce il creato, la Chiesa, l’umanità, la storia.

Questa impostazione cristocentrica è molto importante anche per la Dottrina sociale della Chiesa che, come in molte occasioni aveva insegnato Giovanni Paolo II, è “annuncio di Cristo nelle realtà temporali” e solo in questa luce si occupa del resto. E’anche importante perché comporta, tra l’altro, la priorità dell’annuncio sulla denuncia. Anche questa è una impostazione già presente nel magistero sociale della Chiesa e che ora papa Francesco riprende e sviluppa ulteriormente. L’annuncio deve essere fatto con gioia, perché ha all’origine un “sì” che viene prima di ogni osservazione critica sulle condizioni sociali di oggi. In principio c’è l’annuncio della salvezza, della misericordia e della giustizia. Siamo grati al Santo Padre per avere incentrato la sua Esortazione sull’essenziale.

Un aspetto non solo formale della “Evangelii Gaudium” è che il Papa usa frequentemente il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, lo raccomanda esplicitamente e lo cita spesso. Il Compendio è molto adoperato in America Latina, forse più che in Europa, e fa piacere che ora il Papa latinoamericano lo riproponga a tutta la Chiesa. Del resto, l’impianto del Compendio risponde proprio alle esigenze che papa Francesco esprime in questa Esortazione Apostolica: in principio c’è il progetto di amore di Dio sull’uomo, che riempie l’uomo di gioia e che lo spinge ad uscire verso gli altri per partecipare questa gioia a tutti. Non che questo comporti un rifiuto o una sottovalutazione del livello etico dei problemi sociali. Anzi, il livello etico viene sollevato più in alto e protetto dalle sue sempre possibili degenerazioni moralistiche. La legge nuova dell’amore non toglie la legge della Tavola, ma la eleva e la purifica.

I temi e la prospettiva della Dottrina sociale della Chiesa sono presenti in tutta l’Esortazione, ma si concentrano soprattutto nei capitoli II e IV. In quest’ultimo capitolo, dal titolo “La dimensione sociale dell’Evangelizzazione”, il Santo Padre riprende con nuovi accenti i grandi temi del rapporto tra annuncio di Cristo e sua ripercussione comunitaria, tra la confessione della fede e l’impegno sociale, ma enuncia anche prospettive nuove, che arricchiscono il magistero precedente. “Il tempo è superiore allo spazio”, “L’unità prevale sul conflitto”; “La realtà è più importante dell’idea”; “Il tutto è superiore alla parte”. Si tratta di quattro prospettive nuove a partire dalle quali ripensare l’insieme delle relazioni sociali.

Sempre dal punto di vista della Dottrina sociale della Chiesa, un’importante novità della “Evagelii Gaudium” è l’ampio approfondimento, contenuto nel capitolo IV, della cosiddetta “scelta preferenziale per i poveri”. Il Papa ne parla dal punto di vista dell’amore evangelico di Gesù per i piccoli e gli ultimi. E’ una ricca riflessione sull’atteggiamento dei credenti e della Chiesa nei confronti dei poveri e su quanto da essi si possa imparare. L’inclusione sociale dei poveri diventa qui qualcosa di più che una politica sociale. Diventa la prospettiva stessa del nostro vivere in società, l’aspetto che continuamente ci ricorda il motivo ultimo per cui esiste la comunità politica. Trova spazio, esplicitamente o implicitamente, tutta la riflessione della Dottrina sociale della Chiesa sulla solidarietà e il bene comune, visti questa volta dal punto di vista dei poveri. Viviamo in un momento particolare, da questo punto di vista. La crisi economica fa aumentare le disuguaglianze e, quindi, anche i poveri e la povertà. Un nuovo sguardo sui poveri a partire dai poveri evangelicamente intesi sarà di grande aiuto per tutti.

Dalla lettura della “Evangelii Gaudium”, tra i tanti spunti e sollecitazioni, emerge l’importante concetto di “pace sociale”, che il Papa approfondisce, sempre all’interno del capitolo IV. C’è la pace diplomatica tra le nazioni, c’è la pace politica tra i partiti, ma c’è anche la pace sociale tra i ceti e tra i cittadini. Su questa si riflette poco, eppure è oggi quella più dirompente perché le disuguaglianze e la precarietà del lavoro finiscono per mettere i cittadini e i gruppi sociali gli uni contro gli altri. Il testo dell’Esortazione, a questo proposito, contiene delle salutari provocazioni indirizzate all’economia e alla politica affinché rimettano al centro di se stesse la persona umana e un autentico bene comune.

La “Evangelii Gaudium” ha un aspetto fortemente missionario, conseguente alla impostazione cristocentrica di cui si parlava all’inizio. Tutta la Chiesa è invitata da papa Francesco ad avere il coraggio della missione, superando inerzie ed eccessivi scrupoli che paralizzano. Questo è vero anche per la Dottrina sociale della Chiesa. Giovanni Paolo II aveva scritto nella Centesimus annus che essa ha un aspetto “concreto” e “sperimentale” e invitava tutti i credenti a mettersi in gioco con coraggio, inserendosi nel grande fiume di quanti da sempre nella Chiesa hanno dato il loro impegno per il bene comune dei fratelli. Che la Chiesa esca da se stessa per la missione non vuol dire né che bisogna uscire “dalle chiese” né che si debba abbandonare la dottrina e la vita sacramentale. Vuol dire, secondo papa Francesco, farsi guidare sempre dall’essenziale, e l’essenziale, nella vita del cristiano, va donato a tutti. 

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Tornare al lavoro in tempo di crisi https://it.zenit.org/2013/10/03/tornare-al-lavoro-in-tempo-di-crisi/ https://it.zenit.org/2013/10/03/tornare-al-lavoro-in-tempo-di-crisi/#respond Thu, 03 Oct 2013 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/tornare-al-lavoro-in-tempo-di-crisi/ Editoriale del "Bollettino di dottrina Sociale della Chiesa"

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Riportiamo l’editoriale del “Bollettino di dottrina Sociale della Chiesa” (Anno VIII (2012), numero 4, ottobre-dicembre) scritto da Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Internazionale cardinale Van Thuan. 

***

È indubbiamente un frangente particolare per la storia economica e sociale quello in cui prende vita questo numero del Bollettino, caratterizzato da una crisi economica internazionale grave e perdurante.

Certamente, però, non si può pensare ad una crisi in termini globali senza riconoscere le profonde differenze con le quali essa si manifesta nei diversi angoli del pianeta: mentre,infatti, i Paesi emergenti si interrogano sui temi della sostenibilità di una forte crescita,in Europa i governi si confrontano con una recessione apparentemente irrisolvibile.

Tuttavia, un tratto comune si ritrova nella tornare al lavoro in un tempo di crisi questione del lavoro: se nei Paesi occidentali le emergenze paiono essere quelle della precarietà, della disoccupazione giovanile e del continuo venir meno di posti di lavoro un tempo considerati “sicuri”, in altri Paesi ancora vigono condizioni di lavoro massacranti e che mettono a repentaglio l’integrità – fisica, intellettiva e morale – dei lavoratori.

Potrebbero sembrare problemi diversi,perché i contesti in cui si generano sono profondamente differenti; tuttavia, in essi si intravede una duplice ragione di comunione: una prima ragione risiede nelle strette interrelazioni che avvincono l’intera economia globalizzata, tanto che non si può più, ingenuamente, pensare a problemi singolari senza collocarli in un ampio sistema di concause a molteplice effetto. Basti, ad esempio, fare riferimento al fenomeno della delocalizzazione produttiva che “sposta” i problemi del lavoro da un angolo all’altro del pianeta.

Il presente numero del Bollettino, però,intende concentrarsi su un secondo ordine di condizioni, che paiono affondare alle radici del problema e non tanto alla sua presente fenomenologia. Per questo, si è scelto di non concentrarsi su singole – pur importanti – problematiche che investono l’odierno mondo del lavoro, ma si compie qui un percorso di “ricerca di senso” teso ad illuminare il ragionamento economico e politico sul lavoro.

Appare, infatti, impossibile approcciarsi al tema del lavoro come fosse un mero problema tecnico, scevro di gravi implicazioni etiche: proprio l’aver dimenticato i fondamenti umanistici del lavoro pare motivo di crisi e di riflessione profonda.

Dunque, la dimensione economica della crisi risulta, senz’altro, la più evidente: la costante perdita di posti di lavoro, ad esempio,è la naturale conseguenza della stagnazione dei mercati e della sfiducia che li invadono.

Tuttavia, il problema non è (solo) economico, ma anzi la prospettiva economica non è che una conseguenza di problemi ben più profondi.

Il tema del lavoro palesa, ad esempio, una dimensione sociale, che si riverbera sull’equilibrio dei contesti sociali e su quel fondamento della società che è la famiglia; ha poi una dimensione politica, atteso che la sostenibilità dei provvedimenti di ammortizzazione sociale ed il sostegno all’occupazione divengono temi imprescindibili per qualsiasi forza politica si proponga di governare qualsiasi Paese.

Ancora, esiste una dimensione giuridica del problema del lavoro, attesa la palese insufficienza degli istituti giuslavoristici in vigore;ciò si dimostra con palese virulenza tanto in Italia – dove la legislazione sul lavoro appare spesso ancorata a modelli di mercato irrealistici – quanto in quei Paesi dove le tutele del lavoro sono, invece, del tutto insufficienti.

Vi è, infine, una dimensione profondadella questione, connessa alla comune e diffusa perdita del significato profondo dellavoro, nella sua “sostanza etica”, per usare la felice espressione del Beato GiovanniPaolo II, che mettendo in luce la radicebiblica del pensiero cristiano sul lavoro,ne rammentava come in esso il lavoratore si palesa quale «…persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso» (LE, 6).

Per questo, tra tutti i problemi aperti – rispetto ai quali servono decisioni al tempo stesso creative, solide e coraggiose – si vuole, in questo Bollettino, ribadire quanto il pensiero economico e politico necessitino di una “purificazione” mediante il loro radicamento in un fondamentale quadro etico di riferimento. I rischi di un’economia e di una politica, avanzate sotto il profilo dello sviluppo scientifico, ma sradicate dalle loro radici (etiche) di servizio alla persona umana, sono gravissimi, soprattutto su temi che coinvolgono direttamente la persona nel suo “compiersi” spirituale, morale e materiale.

Ha scritto Benedetto XVI: «La scienza può contribuire molto all’umanizzazione del mondo e dell’umanità. Essa però può anche distruggere l’uomo e il mondo, se non viene orientata da forze che si trovano al di fuori di essa» (SS, 25). Non è possibile, dunque,abbandonare l’uomo-lavoratore ad un pensiero debole, che genera raffinati tecnicismi svuotati di senso: ciò diverrebbe non solo disumano, ma anche poco lungimirante e,dunque, contrario alla stessa economia.

Il contributo della Dottrina sociale della Chiesa, a questo riguardo, diviene fondamentale perché nel suo continuo dialogo con il mondo – e con il mondo del lavoro, in particolare – permette di porre in luce alcuni elementi fondamentali del ragionamento.

Si pensi, ad esempio, alla solidarietà internazionale ed intergenerazionale, che genera responsabilità reciproche tra Paesi e sistemi economici e che, dunque, impedisce di “trasferire” i problemi del lavoro da un angolo all’altro del pianeta senza preoccuparsi delle conseguenze di tali azioni, magari dettate da considerazioni efficientistiche. E qui tornano in mente, ad esempio, i dibattiti – purtroppo così attuali – sulle scelte di questa o quella multinazionale che deve decidere in quale Paese chiudere i propri stabilimenti produttivi; nulla sarebbe più distruttivo, in tali contesti, di miopi posizioni sindacali che vedessero nella scelta di tagliare stabilimenti in altri Paesi una soluzione efficace per la difesa del lavoro dei propri iscritti. Ma ancor peggio sarebbe pensare ad una bieca concorrenza tra Stati che – giocando sulla pelle dei lavoratori – trovino nella diminuzione dei sistemi di sicurezza sociale un metodo per trattenere o attirare investimenti stranieri: questi rischi sono stati messi in luce, recentemente, da Benedetto XVI nella sua Enciclica Caritas in Veritate.

Ancora, la Dottrina sociale della Chiesa richiama costantemente alla funzionalizzazione della crescita economica allo sviluppo integrale, che impone di guardare con attenzione ai temi dello sviluppo non limitandosi a semplificazioni estreme quali quella dell’equivalenza indistinta tra sviluppo e crescita dei ritmi produttivi o quella della decrescita. Le scelte, in tal senso, non possono che essere orientate ad un bene integrale,che non considera mai una sola dimensione della vita umana e sociale, ma comporta un atteggiamento inclusivo.

Si pensi, poi, al richiamo alla dignità di ogni lavoro sia nella sua dimensione tecnica,perché collabora alla complessiva realizzazione del disegno di sviluppo umano, sia nella sua dimensione soggettiva, perché esercitato da persone umane. In questo senso, molto è il lavoro da fare per recuperare dignità e centralità di ogni funzione lavorativa, soprattutto nei settori di servizio alla persona.

Vi è, poi, il richiamo costante al lavorocome mezzo di raggiungimento di un’equità sociale duratura e stabile, condizione perun sostenibile sviluppo economico; a taleriguardo, scrive Benedetto XVI: «La dignità della persona e le esigenze della giustiziarichiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano
aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza e che si continui a perseguire quale priorità l ’obiettivo dell ’accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti».

Sopra ogni cosa, però, torna il fondamentale recupero metodologico della dimensione soggettiva del lavoro: esiste uno spazio di umanesimo nel lavoro, perché esso permette il pieno compimento della persona umana.

Esiste, quindi, anche una dimensione spirituale del lavoro, in quanto momento in cui l’uomo diviene collaboratore alla creazione: in esso l’uomo incontra il Creatore e adempie al suo ruolo di coadiutore del continuo lavoro di creazione.

Se, dunque, si approccia il tema del lavoro come centrale per lo sviluppo dell’umanità,esso non può mai ridursi a singoli problemi:l’obiettivo di questo numero monografico,dunque, è quello di rispondere all’urgenza di umanizzazione del discorso economico ed al bisogno di porre a sistema diversi problemi tecnici radunandoli al servizio della persona. 

Per ogni approfondimento http://www.vanthuanobservatory.org/

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Il principio della difesa della vita umana e l'impegno pubblico della fede cattolica https://it.zenit.org/2013/05/11/il-principio-della-difesa-della-vita-umana-e-l-impegno-pubblico-della-fede-cattolica/ https://it.zenit.org/2013/05/11/il-principio-della-difesa-della-vita-umana-e-l-impegno-pubblico-della-fede-cattolica/#respond Sat, 11 May 2013 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/il-principio-della-difesa-della-vita-umana-e-l-impegno-pubblico-della-fede-cattolica/ L'intervento di monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, al convegno per la Marcia per la vita, che si è svolto oggi all'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum

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1. Dedico questo mio intervento ad una riflessione sulla centralità del tema della difesa della vita umana fin dal concepimento per la Dottrina sociale della Chiesa e, in generale, per continuare a permettere che la religione cattolica abbia un ruolo pubblico, come deve necessariamente avere1. Ritengo importante situare la riflessione sulla difesa della vita, anche quella condotta dal punto di vista scientifico-medico come viene fatto in questo convegno, dentro la Dottrina sociale della Chiesa, ossia dentro il rapporto della Chiesa con il mondo. Perché in questo consiste il ruolo pubblico della fede cattolica, che non parla solo all’interiorità delle persone, ma esprime la regalità di Cristo anche sull’ordine temporale e attende la ricapitolazione di tutte le cose in Lui, Alfa e Omega. La regalità di Cristo ha un significato spirituale2, certamente, ma ne ha anche uno cosmico e sociale. Senza questa dimensione pubblica, la fede cattolica diventa una gnosi individuale, un culto non del Dio Vero ed Unico ma degli dèi, una setta che persegue obiettivi di rassicurazione psicologica rispetto alla paura di essere “gettati” nell’esistenza.

2. Innanzitutto il tema della difesa della vita porta con sé il messaggio della natura. Ci dice che esiste una natura e, in particolare, una natura umana. Non ci sono altre motivazioni valide per chiedere il rispetto del diritto alla vita e, per contro, chi non lo rispetta è perché nega l’esistenza di una natura umana o la riduce ad una serie di fenomeni governati dalla necessità. La vita, invece, ciriconduce alla natura orientata finalisticamente, come lingua, come codice3. La nostra cultura ha perso l’idea di fine4. Ha cominciato a perderla quando Cartesio ha interpretato il mondo come una macchina e Dio come colui che ha dato un calcio al mondo, o forse anche prima. Oggi viviamo in una cultura post-naturale, come dimostra ampiamente il perversare dell’ideologia del gender5, da vedersi come una cultura post-finalstica. Il principio di causalità, che nella filosofia classica, era connesso con quello di finalità, se ne è staccato. La realtà non esprime più un disegno ma solo una sequenza di cause materiali. Rilanciare una cultura della difesa della vita significa allora anche recuperare la cultura della natura e la cultura dei fini.

3. Il concetto di natura porta con sé la dimensione dell’indisponibile. Se la natura è “discorso” e “parola”, essa esprime un senso che ci precede. Non siamo solo produttori di parole, siamo anche uditori della parola che promana dalle cose, dalla realtà, dalla sinfonia dell’essere. Ammettere la vita come dono inestimabile significa riconoscere che nella natura c’è una parola che ci viene incontro e che ci precede. Ogni nostro fare deve tener conto di qualcosa che viene prima: il ricevere precede il fare6. C’è qualcosa di stabile prima di ogni divenire. Negare la natura apre la porta culturale alla manipolazione della vita, perché viene meno la dimensione dell’accoglienza e della gratitudine. Non si è accoglienti e grati nei confronti di ciò che produciamo noi, ma solo di ciò che ci viene incontro e si manifesta come un dono di senso. Se questa dimensione viene meno a proposito della vita nascente si indebolirà anche in tutte le altre situazioni della vita e la società perderà inesorabilmente la dimensione della reciproca responsabilità, come afferma la Caritas in veritate al paragrafo 287.

4. Se la natura è un discorso che ci interpella non ne è però il fondamento ultimo. La natura non dice mai solo se stessa. La vita nascente non dice mai solo se stessa. E’ discorso che rimanda ad un Autore. Anche nella persona umana nessun livello dice solo se stesso e non c’è nulla nell’uomo di esclusivamente materiale. Nessun livello della realtà è pienamente comprensibile rimanendo al suo proprio livello. Quando pretendiamo di considerare qualcosa solo al suo livello finisce che non la consideriamo più nemmeno a quel livello. Il Cardinale Caffarra, questa mattina, ha concluso la sua Lezione con una citazione da Gómez d’Ávila8, autore che riprendo qui volentieri anch’io: «Quando le cose ci sembrano essere solo quel che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor meno. La natura rivela il Creatore, si presenta non solo come discorso ma anche come “discorso pronunciato”, come Parola. Quando si è tentato di staccare la natura dal Creatore si è finito per perdere anche la natura. Quando si vuole staccare il diritto naturale dal diritto divino si finisce per perdere anche il diritto naturale. Quando si stacca la dimensione fisica della persona dalla sua dimensione spirituale e trascendente si finisce per non tutelare più nemmeno la sua dimensione fisica. Se si pensa che la natura dica solo se stessa finisce che la natura non ci dice più niente. Oggi la vita nascente rischia di non dire più niente, ossia di non venire nemmeno più compresa come vita nascente, ma come semplice processo biologico. Nei suoi confronti ci si comporta sempre più come produttori piuttosto che come uditori. Ma non è la natura a non dirci più niente, è la nostra cultura che ha perso il codice per comprenderla. E questo codice non è solo un alfabeto umano.

5. Allora il tema della difesa della vita rimanda alla natura, rimanda a quanto ci precede e rimanda al Creatore. Difendere la vita è difendere la vita, ma è anche fare un’operazione culturale alternativa alla cultura attuale: ricominciare a parlare di un ordine e non solo di autodeterminazione. C’è un ordine che ci precede voluto da un Ordinatore. Il Creato è un ordine e non un mucchio di cose gettate a caso. Questo ordine è ordinato ed ordinativo, ossia esprime un dover essere e un dover fare. In altre parole è un ordine morale. Se quello ontologico è un ordine, non può non tradursi in un ordine morale9. Eliminato il bene ontologico non c’è più spazio per il bene morale. All’ordine morale radicato nell’ordine ontologico appartiene anche la società, la convivenza umana. Ecco perché il tema della difesa della vita è centrale per la costruzione della convivenza umana degna della dignità naturale e soprannaturale della persona. Ecco perché – credo di poter dire – negli elenchi dei cosiddetti “principi non negoziabili” che in varie occasioni il Sommo magistero della Chiesa ha formulato, il principio del rispetto della vita figura sempre al primo posto e non manca mai.

6. Solo se c’è una natura, e solo se questa natura è in sé un discorso, è possibile l’uso della ragione. Parlo qui non della ragione misurante i fenomeni, ma della ragione che scopre orizzonti di senso. Solo se l’ordine sociale si fonda su una simile natura è possibile l’uso della ragione pubblica. Viceversa, si avrà solo la ragione procedurale10. Si capisce quindi perché la difesa della vita abbia una importanza fondamentale per ricostruire la possibilità stessa di un uso pubblico della ragione. Ed infatti – lo vediamo – la negazione del dovere pubblico di proteggere la vita nascente nasce da una diserzione della ragione ad essere ragione pubblica, riducendosi a ragione privata. La verità accomuna, le opinioni dividono. E’ molto significativo che anche filosofi come Habermas abbiano di recente riconosciuto la fondamentale importanza del concetto di natura11, visto ancora in senso non pieno, ma comunque tale da riconoscere i limiti di una ragione solo procedurale, con il che il dialogo pubblico è inquinato in partenza.

7. L’uso pubblico della ragione è di fondamentale importanza per il ruolo pubblico della fede cattolica. Questa, infatti, non trasferisce immediatamente il diritto rivelato nel diritto civile, ma si affida al diritto naturale, quindi al concetto di natura e di ragione pubblica12. A quest’ultima spetta il compito di riconoscere l’ordine sociale come un discorso finalistico sulla convivenza umana. La fede non si sostituisce al
la ragione. Ma non la abbandona nemmeno a se stessa. Se non c’è ordine naturale non c’è ragione pubblica, se non c’è ragione pubblica non c’è dialogo pubblico tra ragione e fede. Se non c’è dialogo pubblico tra ragione e fede non c’è dimensione pubblica della fede cattolica. Se non c’è dimensione pubblica della fede cattolica non c’è la fede cattolica. Lo riscontriamo: man mano che la ragione si privatizza anche la fede si privatizza. Se il credente, quando entra nella pubblica piazza, deve rinunciare alle ragioni della propria fede, alla fine pensa che la propria fede non abbia ragioni. Ma senza ragioni viene meno non solo il versante pubblico della fede, bensì anche quello personale ed intimo. Ecco perché il tema della difesa della vita umana fin dal concepimento è fondamentale per mantenere e sviluppare il dialogo tra la ragione e la fede. E, come si sa, proprio in questo consiste la Dottrina sociale della Chiesa.

8. Da queste semplici e sintetiche osservazioni risulta tutta l’importanza non solo della Marcia di domani, ma anche di questo convegno. Tutta l’importanza del multiforme impegno di chi mi ascolta e delle realtà associative che ognuno di voi ha dietro di sé, a difesa della vita umana nascente. Risultano anche, per contrasto, le gravi conseguenze che un affievolimento di questo impegno porta con sé, e non solo in ordine al tema specifico, appunto la difesa della vita, ma anche in ordine alla vita della fede. La fede nella vita è benefica anche per la vita della fede. Per ottenere questo risultato è necessario collocare il tema della difesa della vita dentro la Dottrina sociale della Chiesa, come del resto ha fatto il Magistero a cominciare dalla Evangelium vitae. In questo caso non si chiude il tema della vita dentro un recinto. In realtà così facendo lo si colloca là dove la Chiesa si interfaccia con il mondo e dove ragione pubblica e fede pubblica dialogano tra loro dentro l’unità della Verità.

*

NOTE

1 Ho illustrato le ragioni teologiche del ruolo pubblico della fede nel primo capitolo del mio libro Il Cattolico in politica. Manuale per la ripresa, Cantagalli, Siena 20122.

2 Come ha detto Benedetto XVI in Messico nel Discorso a León del 25 marzo 2012.

3 Della natura umana come “lingua” ha parlato, per esempio, Benedetto XVI nel Discorso ad un gruppo di Vescovi degli Stati Uniti in visita “ad limina”del 19 gennaio 2012-

4 Cf R. Spaemann-Reinhard Löw, Fini naturali. Storia e riscoperta del pensiero teleologico, Ares, Milano 2013.

5 Cf G. Crepaldi e S. Fontana, Quarto Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo – La colonizzazione della natura umana, Cantagalli, Siena 2012.

6J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, dodicesima edizione con un nuovo saggio introduttivo, Queriniana, Brescia 2003, pp. 41. Ho ritenuto di dover interpretare l’intesa enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate in questa chiave: G. Crepaldi, Introduzione a Benedetto XVI, Caritas in veritate, Cantagalli, Siena 2009, pp. 7-42.

7 «Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate n. 28).

8 In margine a un testo implicito, Adelphi, Milano 1996.

9 Lo spiega molto bene J. Pieper in La realtà e il bene, Morcelliana, Brescia 2011.

10 G. Crepaldi, Ragione pubblica e verità del Cristianesimo negli insegnamenti di Benedetto XVI, in G. Crepaldi, Dio o gli dèi. Dottrina sociale della Chiesa, percorsi, Cantagalli, Siena 2008, pp. 81-94.

11 M. Borghesi, I presupposti naturali del poter-essere-se-stessi. La polarità natura-libertà di Jürgen Habermas, in F. Russo (a cura di), Natura cultura libertà, Armando, Roma 2010.

12 Benedetto XVI, Discorso al Reichstag di Berlino, 22 settembre 2011.

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Ricominciamo dal 26 febbraio https://it.zenit.org/2013/02/19/ricominciamo-dal-26-febbraio/ https://it.zenit.org/2013/02/19/ricominciamo-dal-26-febbraio/#respond Tue, 19 Feb 2013 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/ricominciamo-dal-26-febbraio/ Dichiarazione dell'Osservatorio Cardinale Van Thuân sulle prossime elezioni politiche

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Un diffuso malessere

Davanti all’impegno civico, morale ed anche religioso del voto elettorale alle prossime elezioni politiche del 24 e 25 febbraio 2013 molti cattolici provano sentimenti di confusione e di sconforto. Mai come in queste elezioni l’elettore cattolico, consapevole della posta in  gioco e desideroso di applicare gli insegnamenti della Chiesa, si è trovato smarrito davanti ad un quadro politico che non lo soddisfa e nel quale i principi che egli ritiene fondamentali rischiano di smarrirsi. Lo sconforto è un sentimento umano che in certe situazioni è comprensibile, ma che deve essere vinto dalla fede, dalla speranza e dalla carità cristiane. Vogliamo fare alcune considerazioni sia per prendere atto dei motivi profondi di questo sconforto, sia per indicare una ripresa da attuare a cominciare dal 26 febbraio prossimo.

Con l’inizio del governo tecnico presieduto da Mario Monti nel novembre 2011 poteva iniziare oggettivamente un periodo di decantazione politica. Poteva essere il momento giusto per iniziare un’opera di chiarimento dottrinale e di riorganizzazione pratica dentro il mondo cattolico, in modo tale da affrontare le successive elezioni politiche di fine legislatura con una prospettiva praticabile e non disorientante.

L’urgenza di un simile percorso era resa evidente da due dinamiche di ampia portata. Da un lato l’acutizzarsi della crisi finanziaria ed economia, che era all’origine del governo Monti stesso e della inusitata prassi istituzionale che lo aveva costituito, la quale richiedeva da parte della cultura cattolica che si rifà in modo convinto alla Dottrina sociale della Chiesa uno sforzo originale di riflessione.

Dall’altro la chiara percezione, suffragata da ingenti pronunciamenti del Magistero, che la crisi era antropologica e richiedeva di insistere sulla centralità dei principi non negoziabili. Sul piano culturale era un’occasione molto opportuna per disporre una proposta culturale organica incentrata sui principi non negoziabili di cui bisognava dimostrare anche la capacità di illuminare gli aspetti di politica economica e sociale necessari per affrontare la grave emergenza della recessione e della disoccupazione. Questo, purtroppo, non è stato fatto e tale carenza è all’origine del disorientamento e della delusione di molti cattolici.

Non sono mancati gli orientamenti del magistero

Bisogna chiedersi se siano mancati gli orientamenti magisteriali e di pensiero necessari a farlo, se siano mancate invece le occasioni, o se sia mancata la volontà. Bisogna riconoscere che non sono mancati né gli orientamenti magisteriali né le occasioni. Le occasioni sono state sprecate dentro logiche tattiche limitate.

Con la convocazione di Todi 1 (17 ottobre 2011) era iniziato, forse non nel migliore dei modi, ma era iniziato un percorso di riflessione, che è poi continuato con Todi 2 (21-22 ottobre 2012) ed infine si è concluso piuttosto miseramente con l’annullamento del previsto Todi 3. Le occasioni, come si vede, ci sono state.

Quanto al magistero, oltre al grandioso patrimonio del più recente magistero pontificio, in questa difficile fase non sono mancate le precise indicazioni del cardinale Bagnasco, presidente dei Vescovi italiani. Proprio a Todi 1 egli aveva tenuto un discorso formidabile che, anche da solo, avrebbe potuto costituire la base di partenza per un cammino comune di chiarimento finalizzato alle elezioni di fine legislatura. Tra le altre cose il cardinale Bagnasco aveva detto che il bene comune non è un mucchio di valori e di principi senza un loro ordine intrinseco. Ce ne sono alcuni di primaria importanza, che servono a dare luce a tutti gli altri dato il loro carattere architettonico. Questi principi sono i cosiddetti “principi non negoziabili”.

Bisogna riconoscere che questo importante discorso del Cardinale non è stato assunto come punto di partenza e di riferimento per il lavoro successivo e le stesse conclusioni di Todi 1 si sono concentrate sui problemi politici del momento, in particolare sul passaggio al nuovo governo tecnico. Un lavoro più approfondito è stato fatto a Todi 2, da cui era emerso il manifesto “Una buona politica per tornare a crescere” che aveva avuto importanti adesioni. Ma a Todi 2 il quadro era già compromesso in quanto erano risultati evidenti due limiti, che poi emersero con sempre maggior forza man mano che la situazione politica declinava verso le elezioni.

I cosiddetti principi non negoziabili non vennero assunti come “principi” ma come “valori” e collocati, quindi, in un paniere allo stesso titolo di altri valori da perseguire politicamente. In questo modo essi perdevano la loro capacità di illuminare l’intero progetto politico e, soprattutto, perdevano il loro valore discriminante e di demarcazione tra un impegno politico che si potesse chiamare cattolico e uno no, si riducevano a valori che potevano esserci o anche non esserci e che potevano essere combinati o scambiati con altri valori. Non essendo stato precisato il quadro teorico, mentre le tensioni politiche si facevano più aspre, anche il quadro delle adesioni al percorso di Todi cominciò ad incrinarsi, fino a dissolversi in prossimità di Todi 3.

Che le indicazioni magisteriali non siano mancate in questa fase che va dal giuramento del governo Monti alle elezioni di fine legislatura, nemmeno nella più recente fase preelettorale, è dimostrato dall’alto valore del discorso del Cardinale Bagnasco al Consiglio permanente della CEI del 28 gennaio 2013. Qui il cardinale non solo ribadisce la dottrina dei principi non negoziabili, ma ne propone anche una articolazione etico-politica molto utile a chiarire le urgenze del momento. Leggendo però questo discorso non si può evitare di notare la sua lontananza dalla concreta prassi di molti uomini politici cattolici, che ormai si erano allocati politicamente in modo anche decisamente difforme rispetto alle indicazioni del cardinale Bagnasco.

Comportamenti sorprendenti

Abbiamo assistito ad una vasta gamma di comportamenti sorprendenti: chi si è candidato in partiti che contengono nel loro programma punti indubbiamente lesivi della legge morale naturale e della stessa salvaguardia della identità della persona; chi ha utilizzato gli incontri di Todi per ritagliarsi una posizione politica personale; chi ha immediatamente messo da parte i principi non negoziabili non appena ha visto la possibilità di aggregarsi ad un contenitore ove erano presenti anche forze laiche o laiciste con cui bisognava combinarsi; chi ha iniziato una lotta contro altri cattolici presenti nel suo stesso partito; chi ha utilizzato l’appartenenza a movimenti ecclesiali per lanciarsi in politica dentro raggruppamenti che avrebbero portato avanti istanze contrarie all’ispirazione del movimento ecclesiale originario. Ne è conseguito un quadro disorientante e deludente.

Sul piano teorico c’è stato chi ha detto che i principi non negoziabili sono importanti ma non urgenti, chi ha affermato che essi non devono essere presenti in un programma di governo ma devono essere affrontati in Parlamento, chi ha negato che esista una “dottrina” dei principi non negoziabili, chi ha messo in dubbio che esista un elenco preciso di tali principi, chi ha continuato a chiamarli “valori”, chi ne ha aggiunto altri di proprio conio a quelli elencati da Benedetto XVI, chi ha sostenuto che essi limitano l’autonomia dei laici in politica e quindi sarebbero addirittura contrari al Vaticano II, chi ha detto che non rispettano la laicità della politica, chi ha detto che non esistono principi non negoziabili in quanto l’annuncio cristiano è da farsi sempre dentro una situazione, chi ha detto che al massimo essi servono ad una convergenza dei cattolici in Parlamento ma non sono discriminanti per la scelta del partito di appartenenza e così via.

Si sono ripercossi su questo tema i soliti grandi temi teologici che stanno dividendo da tempo il mondo cattolico, che il
magistero pontificio ha già chiarito ma i cui chiarimenti stentano a filtrare nel corpo ecclesiale a causa di una sorda opposizione. Gli strumenti di informazione cattolica, come per esempio i Settimanali diocesani, hanno spesso dato voce a tutte le posizioni, oppure si sono astenuti limitandosi a sottolineare il dovere del voto o ha chiedere “dialogo, condivisione e sobrietà” e in questo modo hanno accentuato il disorientamento dei fedeli.

Un grave pericolo

In questi ultimi mesi numerosi Stati si sono decisamente incamminati sulla strada di leggi tragicamente lesive della dignità della persona, del matrimonio e della famiglia. Il riconoscimento giuridico del “matrimonio omosessuale” è un fatto dirompente dato che  apre alla possibilità della filiazione, non solo tramite adozione ma soprattutto tramite inseminazione artificiale. Coloro che usufruiranno di queste leggi saranno una minoranza ma il cambiamento culturale sarà travolgente: si va incontro al rischio di perdere il senso della paternità e della maternità e di considerare la filiazione un fatto tecnico che apre la strada a forme di violenza inaudita. Ebbene, mentre questa valanga travolgente si abbatte sulla natura umana, i cattolici italiani si sono divisi sulle tattiche di piccolo cabotaggio, hanno messo da parte le indicazioni del magistero, non hanno saputo individuare le vere emergenze e hanno escogitato i più sottili sofismi.

Esiste la concreta possibilità che nel prossimo Parlamento i cattolici siano pochi e divisi e che venga a mancare un pur piccolo nucleo che possa essere punto di riferimento riconoscibile per la difesa dei principi connessi con la natura umana. C’è la concreta possibilità che nel giro di pochi mesi, nella prossima legislatura, vengano approvate a raffica leggi che importino anche in Italia la devastata situazione dell’Inghilterra o della Francia: che il limite dei tre embrioni previsto dalla legge 40 venga sfondato, che diventi possibile divorziare con una mail; che la pillola abortiva RU486 sia data in mano alle ragazzine come l’aspirina; che un bimbo possa avere 6 genitori, che sia possibile partorire a pagamento per conto terzi, che il giudice decida di affidare un bimbo a due omosessuali e così via.

Serve un nuovo inizio

Difficile, davanti a questo quadro possibile, non parlare di grave inadeguatezza dei cattolici italiani in questa ultima fase della vita politica italiana. Questa fase che doveva essere di decantazione della politica e avrebbe dovuto favorire un chiarimento e una convergenza dei cattolici è stata sprecata. Il disorientamento e la delusione esprimono la diffusa percezione di questa occasione perduta. Non rimane che pensare al 26 febbraio, il giorno dopo le elezioni. Bisognerà ricominciare a lavorare in un senso molto diverso. Per questo ci siamo attardati sull’analisi di questo ultimo periodo, perché possa scaturire dal 26 febbraio qualcosa di veramente nuovo. Il nostro Osservatorio è a disposizione  a collaborare con chiunque voglia unirsi a noi in questo sforzo.

+ S.E. Mons.Giampaolo Crepaldi

Presidente dell’Osservatorio

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