The post Il nostro sguardo sulla natura: pietà, philia o tenerezza? appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Prima ancora dell’uso fattone da Galileo, ad esempio nella dedica a Ferdinando de’ Medici del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, o ancor prima ne Il Saggiatore, nel Medioevo si diffonde anche l’immagine del “Libro della natura” come libro in cui intravedere le vestigia di Dio, desacralizzando la natura e cogliendola come frutto dell’operato divino. In questo modo doveva risultare facile e di certo ragionevole percepire il mondo della natura come una totalità da intelligere e da contemplare; una totalità, allora, che facilmente poteva anche divenire oggetto della filosofia, che nella sua vocazione (e identità) originaria è scienza della totalità. Questo non comportava l’esclusione della Ragione dall’indagine intorno alla natura; sebbene appartiene all’età moderna l’idea di rappresentare matematicamente i fenomeni naturali, già Ruggero Bacone faceva della matematica proprio lo strumento privilegiato per ottenere la comprensione della natura – sebbene con una forte connotazione ontologica che non lo rende troppo facilmente quel “precursore” che spesso si è voluto credere1.
Alla luce di questa storia passata, ci si chiede se oggi, di fronte ai problemi suscitati dall’emergenza ambientale e all’operare umano che ne è la causa, sia possibile ritrovare uno spazio contemplativo da dove intuire la natura non solo come luogo di masse in movimento e di energie da sfruttare, non solo come oggetto di tecniche da realizzare, ma anche come oggetto e sorgente di meraviglia. Il termine ecologia rende poca giustizia alla ricchezza che deriverebbe da un simile accostamento concettuale: ecologia è, letteralmente, il “pensiero dell’ambiente” (dal gr. oikos ambiente, casa e logos discorso) e costituisce una vera e propria scienza che vuole studiare le relazioni tra ambiente e organismi che vi abitano. Il termine non indica altro in sé, nonostante che negli ultimi decenni sia stato sempre usato alludendo alla richiesta di rispetto verso l’ambiente, che sarebbe più propriamente da connettere con l’“ambientalismo”.
Questo ha potuto provocare quelle esagerazioni ideologiche che hanno inteso l’uomo inserito nell’ambiente indistintamente, come un ente tra gli altri, naturalizzandolo fino a perderne le connotazioni più proprie: quali, ad esempio, la sua emergenza sulla natura, la capacità di contemplarla, di rappresentarla, di ispirarsi ad essa per scrivere poesie…
Per rappresentare la natura con un significato più ampio, per farne più di un semplice luogo di eventi da quantificare ma anche un luogo di enti da pensare nella loro dimensione ontologica, il pensiero potrebbe affiancare alla scienza e alla filosofia della scienza anche una filosofia della natura, per comprendere significati ulteriori a quelli compresi dalla scienza e applicati poi dalla tecnica. Scienza – filosofia della scienza – filosofia della natura: tre modi diversi, ma complementari e contigui, per parlare di cose medesime o affini.
Se queste riflessioni interessano essenzialmente il piano teoretico del nostro discorso, pur importantissimo, non sarebbero sufficienti e complete se non si cogliesse anche un’altra urgenza: quella di sentirsi in un legame più stretto con la natura per coglierne il senso, oltre al significato. La natura ci interpella, e occorre rispondere. Non solo mediante intellectus e ratio, ma anche mediante un sentire. Questo sentire non dovrebbe commutarsi in un sentimento di “pietà” per la natura, motivato dallo sfruttamento ambientale che ha dato luogo a numerose impietose ribellioni che l’umanità ha pagato caro, e a scenari metropolitani duri da vivere – da cui le importanti ricerche dell’ingegneria ambientale – e incapaci di suscitare poesia. Come osservava K. Lorenz, «L’alienazione generale, e sempre più diffusa, dalla natura vivente è in larga misura responsabile dell’abbrutimento estetico e morale dell’uomo civilizzato»2. Sembrerebbe maggiormente adeguato un altro atteggiamento, un altro sentimento, capace di evocare l’antica philia tra l’uomo e la natura che consente al primo di essere sorretto dalla bellezza della seconda e alla seconda di essere rispettata e curata. Si dà il caso, infatti, che è fin troppo facile percepire una strana pace al cospetto di ambienti incontaminati, sensibili di una immanente armonia: lo dimostra chiaramente la storia della letteratura e dell’arte.
A congiungere nell’uomo philia e bellezza vi è un sentimento, capace di donargli uno sguardo gratuito e stupito di fronte alle cose: è la tenerezza3, la capacità di aprire l’io al tu per recepire la bontà che è al di fuori di sé, restarne stupiti, e tornare al sé per orientarlo nuovamente alla bontà, lasciando che anche la sensibilità sia coinvolta sotto il segno della delicatezza e del rispetto.
Se la tenerezza coinvolge una dimensione incontrollata dell’animo umano, non per questo tale dimensione è incontrollabile. Può essere esercitata ed assunta, come un habitus dell’anima capace di orientare i desideri della sensibilità, in quanto modo di essere e disposizione d’animo, stabile e duratura, che può essere acquisita attraverso l’abitudine e che determina l’ethos dell’individuo (cf. Arist., Etica nicomachea II 1, 1103a15-20). Una strada silenziosa e forse faticosa, perché coinvolge ugualmente il sentire, il volere e il capire, ma una strada plausibile che potrebbe fare dell’uomo il protagonista del “pianeta nuovo”: non si può impostare un rapporto sereno e maturo con la natura e il Creato se non si coinvolgono l’uomo nella sua interezza e nella sua capacità di agire, se l’uomo non decide di possedersi per donarsi con entusiasmo al progetto di una bella umanità. La tenerezza consente di scorgere il bello e il buono laddove spesso non viene visto; la tenerezza fa scegliere il bello e il buono per promuoverlo, laddove spesso verrebbe facile scivolare nel cinismo e nello sconforto. Ma per questo la tenerezza interpella la volontà, perché va scelta, prima di essere promossa. Occorre per questo un’educazione, che passa prima di tutto per il sentimento di rispetto dell’ambiente, già incoraggiato nei programmi formativi delle scuole. Sebbene sia solo un primo passo, da rendere più generalizzato e consapevole.
Ecco allora l’idea di affiancare all’ecologia una “eco-tenerezza”. Nel senso di imparare a vedere e gustare la natura come fonte di una bellezza che c’è prima di noi e la cui bontà attende di essere gustata con tutti i sensi per capirne il senso: il senso di essere-lì-per-l’uomo, come una totalità donata sotto il segno di una benedizione originaria, per riempire la sua anima di ampi spazi calmi e orizzonti incontaminati, dove l’intelligere darebbe i contenuti all
a ratio.
Flavia Marcacci è docente di Storia del pensiero scientifico presso la Pontificia Università Lateranense
*
NOTE
[1] Cf. F. Alessio, Introduzione a Ruggero Bacone, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 61-87; G. Molland, Roger Bacon’s Knowledge of Mathematich, in J. Hackett (ed.), Roger Bacon and the sciences, Brill, Leiden-New York- Köln 1997, pp.151-173.
[2] K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1977, p. 39.
The post Il nostro sguardo sulla natura: pietà, philia o tenerezza? appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>The post La questione femminile tra identità e differenza appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Il documento dichiara fin da subito la problematicità di provare a pensare una cultura femminile, che riesca a valorizzare l’innegabile peculiarità femminile, pur muovendo dall’analisi dei ruoli ai quali nella storia è stata ridotta la differenza tra uomo e donna. Da un indiscriminato indifferentismo, infatti, consegue l’esclusione pratica di ogni differenza, a svantaggio dell’intera società e a svantaggio delle donne: queste di nuovo vedrebbero scomparire dalla dimensione pubblica le loro proprie modalità di partecipazione alla vita collettiva. Ovvero, l’uniformità procede insieme alla emarginazione, sottolinea il documento. Occorre dunque pensare in maniera consistente e fondata il rapporto tra identità personale e genere di appartenenza, come anche il rapporto tra biologia e cultura. Il documento stimola a interrogarsi se la «questione di “genere” può essere legata in qualche maniera a questa visione “disuguale” tra uomo e donna, da cui deriva la pretesa di crearsi una identità “culturale”?». In altre parole, il “genere” può essere una “reazione” alla “disuguaglianza”, per cui diventa urgente però superare la “reazione” per trovare una “soluzione”. D’altra parte la Parola di Dio è chiara sul valore e l’importanza della differenza per dare pienezza all’essere umano, ma anche la biologia attesta questa diversità (dimorfismo sessuale).
Questa impostazione del problema non significa negare che ci siano situazioni che con difficoltà rientrano in questa spiegazione o che ne esulano, ma invita a trovare un quadro teoretico che dia soddisfacenti risposte: tenere insieme identità e contraddizione. Non si può infatti risolvere banalmente il problema appiattendo femminile e maschile su immagini stereotipate e concettualmente povere, incapaci di dare una piena risposta alla cultura del nostro tempo. L’obiettivo è piuttosto la promozione della ricchezza che può derivare da una nuova alleanza tra mondo maschile e mondo femminile.
D’altra parte è innegabile che pensare la “donna” costringe a pensare l’“uomo”: definire questa relazione come complementare non dà sufficientemente conto della “reciprocità” tra i due, della dinamicità della relazione. Su questa dinamicità si fonda l’identità di ognuno dei due. Si tratta in fondo del classico problema filosofico: la coniugazione tra l’identico e il diverso. Questo problema, che nella storia della filosofia è stato esplorato ampiamente nel campo della logica e della metafisica, non è stato invece troppo esplorato in merito alla questione del maschile e del femminile, come evidenziava un testo di Geneviève Fraisse (La differenza tra i sessi, Bollati Boringhieri, Torino 1996). È urgente una risposta.
Molti altri spunti sono offerti dal documento dell’Assemblea plenaria, che riflette anche sulla simbologia della generatività e sul rapporto tra donne e religione. L’obiettivo è la ricerca di un equilibrio, che certamente è poco attraente sul piano mediatico ma sollecita e stimola la capacità riflessiva di coloro che sono interessati al problema e di tanti cristiani.
The post La questione femminile tra identità e differenza appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>The post Per vivere la reciprocità nella differenza uomo e donna appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>Dapprima quelle dello spazio: la donna è spazio, come grembo e come capacità di accoglienza. L’icona della maternità attraversa tutte le pagine, al punto di divenire prototipo di femminilità, per ogni donna sposata e non sposata. Al punto che Roberta Vinerba non si trattiene dal dire che anche nel pensare e nel catechizzare occorre dare spazio all’affettività, che dà quella coloritura – ben più che banalmente emotiva – capace di trasmettere empaticamente concetti e vita.
E allora mi viene da pensare all’idea di spazio e a come la scienza dell’ultimo secolo ce l’ha fatta ripensare. Non più uno spazio statico, un contenitore che da vuoto si fa pieno, quasi come non sia importante ciò di cui è fatto lo spazio in funzione di ciò che deve accogliere. Un esempio: sappiamo tutti che una scatola di cartone non può contenere acqua. Questo spazio “assoluto” non esiste, non c’è. Come d’altronde una donna così non può esistere, né sarebbe giusto che esistesse. E pensando a Roberta Vinerba proprio non ci immaginiamo il suo “spazio femminile” come statico: tutt’altro, ne conosciamo il vigore e l’inventiva! Perché lo spazio è dinamicità al punto che Einstein ci ha insegnato a parlare di spazio-tempo, e non di tempo e di spazio. Al punto che ha un ruolo attivo nella generazione delle forme e in morfogenesi (sia biologica che geologica) anche la geometria ha un suo ruolo “fisico”.
In questo spazio così attivo trovo rappresentate le donne di oggi: che eroicamente corrono, sperticandosi in imprese eroiche nel mettere insieme mille cose, dalle più grandi alle più piccole, proprio come l’infinito che è infinitamente grande e anche infinitamente piccolo. Tutto è prezioso nella vita di una donna e nulla si perde o disperde nel mistero della dinamicità della vita. Fortunatamente aiutate – almeno quelle sposate – da uomini che un certo cammino lo hanno fatto. Uomini che aiutano, che sono padri, che sostengono e comprendono, che sanno anche dare equilibrio e senso del limite.
Fortunatamente uomini che sono cresciuti e non sono più quei mariti-padroni di antica memoria. Come è stato possibile? Sicuramente perché qualche donna ha avuto il coraggio di recriminare qualcosa. Ha pure guadagnato qualcosa nelle strutture sociali, che però stentano ancora a dare reale parità di opportunità, considerando le donne come madri e gli uomini come padri. Da questo punto di vista – non ce lo nascondiamo – c’è ancora tanto da fare e ci sono da abbattere molte pigrizie culturali.
Ma se questa storia di “emancipazione” prosegue verso una buona direzione, è stato possibile perché siamo in Occidente, culla della cristianità e luogo dove il Vangelo ha più inciso sulla storia. Perché viviamo in un mondo con radici cristiane che noi donne oggi possiamo far molto di quello che fanno anche agli uomini: perché alcuni uomini hanno deciso di amare queste donne, più belle perché più libere di esprimere capacità e talenti. Perché la questione femminile non sia solo questione di rivendicazione, il Vangelo deve svolgere pienamente il suo ruolo. Ricordando che l’immagine di un rapporto sano tra maschile e femminile è nell’amore cristiano, al punto che i coniugi vi possono trovare l’ispirazione più fondata per farsi complici e compagni, aiutarsi e sostenersi.
È una scommessa sulla comunione tra maschile e femminile, perché è impossibile privarsi di uno dei due poli. Questa comunione cambia il mondo e può liberare tutta la bella dinamicità femminile. Questa presenza femminile è però fragile e delicata, e va aiutata e difesa. Socialmente e culturalmente. I primi a dover difendere questo spazio sono gli uomini, che rinunciano a rimanere eterni bambini e colgono nel rapporto con le donne un’opportunità di crescita e maturazione, perché nella comunione con loro trovano più bellezza che nel relegarle chissà dove. Non c’è emancipazione della donna né crescita dell’uomo se non all’interno di una dinamica di comunione: è l’autentico messaggio evangelico che rende liberi di passare dalla rivendicazione alla comunione e l’immagine del matrimonio cristiano tra uomo e donna diviene così profezia, per la società e per la Chiesa (“mentre nella relazione Cristo-Chiesa la sottomissione è solo della Chiesa, nella relazione marito-moglie la «sottomissione» non è unilaterale, bensì reciproca”, Mulieris Dignitatem 25).
Vengo così al secondo aspetto che mi ha colpito del libro: qua e là Vinerba usa la parola reciprocità. Non complementarità, che è statica e dà alle donne un ruolo, a un uomo un altro. E tutto si ferma in un gioco di ruoli e di caratterizzazioni che né fanno bene alla realtà né afferrano la vita concreta di una coppia uomo-donna e di ogni comunità di persone dove ci sono uomini e donne, che, nel corso del tempo, si trovano spesso a interagire e venirsi incontro in tanti modi.
La reciprocità è quella dinamicità dello spazio in cui la forma dà corpo alla materia, in cui tutto si fa relazione e l’uno diventa per l’altro scambio e ricchezza. La reciprocità ha nella libertà il suo presupposto, poiché sia l’uomo che la donna possano sperimentarsi nel mondo e per il mondo. Siamo di nuovo al gender, allora, e tutto è solo scambio e relazione – ovvero, situazioni, storia, cultura? Certo che no. Ogni forma deve riferirsi a una materia, insegnava S. Tommaso commentando Aristotele.
Dunque non solo relazione, ma una relazione ontologicamente ordinata, dove le differenze vengono rispettate (e non inventate o presupposte!), dove le differenze non sono motivo di esclusione ma di inclusione, per rendere il mondo più ricco. Tertium datur. Così uomo e donna, nella loro reciprocità, imparano a fare i conti con la loro materia (la loro biologia) e a integrarla in una “forma”: imparano cioè a essere persone, e sessuate, e a portare l’essere uomo e donna in tutte le cose che fanno. Anche quando fanno le stesse cose, uomo e donna imparano a cogliersi come differenti e reciproci.
A volte a fatica, perché a essere uomini e donne si impara e a volte non è immediato; altre volte, invece, perché fare spazio alla differenza è fatica… Ma ogni grande opera d’arte è nata anche da esercizio e fatica, perché solo dalla fatica nasce la vera bellezza. Che è sempre dinamica e reciproca.
* Flavia Marcacci è professoressa presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense, moglie e madre di tre figli.
Per leggere il testo completo si può cliccare qui.
The post Per vivere la reciprocità nella differenza uomo e donna appeared first on ZENIT - Italiano.
]]>