Carlo Bellieni, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/carlobellieni/ Il mondo visto da Roma Wed, 04 May 2016 08:15:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.7.1 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Carlo Bellieni, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/carlobellieni/ 32 32 Cuore e amore al posto dell’alcol https://it.zenit.org/2016/05/04/cuore-e-amore-al-posto-dellalcol/ Wed, 04 May 2016 08:15:52 +0000 https://it.zenit.org/?p=73665 L’aumento delle dipendenze va di pari passo con l’indebolimento dei legami sociali, dei sogni collettivi e con l’aumento della solitudine su un fondo di depressione

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Lo sballo alcolico di massa diventa sempre più frequente nelle piazze europee, ci dice la cronaca di questi giorni. Il problema è affrontato ancora male dalla società che non corre ai ripari, mentre il fenomeno è ben conosciuto e descritto nei dettagli. Alessandra di Pietro, ne “Il gioco della Bottiglia” racconta attraverso storie di ragazzi l’angoscia dei genitori per il figlio che torna a casa ubriaco, e l’angoscia di una generazione di figli che sono restati senza genitori, troppo presi dal lavoro e dall’impreparazione a crescerli.
“Tra gli 11 e i 15 anni da noi aumenta sensibilmente la percentuale dei giovani che consuma alcol una volta a settimana, quindi con regolarità”, si legge nel libro che spiega lo scarso effetto preventivo delle leggi, e addirittura un effetto contrario dei pur giusti tentativi di spiegare ai ragazzi gli effetti disastrosi dell’alcol su fegato, cervello e sulla libidine.
Ma il libro ci spiega che la situazione in Italia è ancora meno grave che per esempio in Spagna o Danimarca. Forse il peggio deve ancora venire.
In Inghilterra il fenomeno – riportano le cronache di ottobre – si chiama Carnage, l’organizzazione di eventi che è stata caratterizzata da sballi alcolici di massa, con perdita di controllo del branco che va a infestare in semiincoscienza le strade di grandi città britanniche.
Perché ora sballarsi in gruppo è normale, non più una provocazione o una protesta; lo sballo di gruppo ha sostituito nelle strade le manifestazioni, le proteste, le rivendicazioni. Il gruppo oggi è il luogo dello sballo e paradossalmente nel quadro grigio dell’alcolismo è l’ultimo fattore umano, perché ci si potrebbe ubriacare da soli, ma farlo in gruppo mostra un ultima spiaggia di (malriposta) socialità, dunque di umanità. Che però è umanità malata.
Il problema è allora come curare questa malattia. Ci dà una mano il libro Le Desir Malade (Il desiderio malato) di Marc Valleur e Jean-Claude Matysiak esperti di dipendenze patologiche: la malattia dell’umanità che cerca lo sballo di gruppo è un virus che ha colpito il senso del desiderare.
L’uomo non ha perso il suo desiderio di felicità e bellezza, solo che il desiderio si è ammalato; non è che sia riversato verso fini errati (la crescita di sostanze che danno dipendenza è solo la conseguenza); il dramma è che oggi il desiderio umano in molti è catatonico; è cieco e senza bussola, e si attacca agli appigli più facili, condivisi da molti (droga, azzardo, alcol, fumo) perché sono bisogni elementari che hanno sostituito gli altri bisogni elementari (pace, giustizia, liberazione) ma che richiedono organizzazione, impossibile nella società solitaria, inadatta alla ricerca del vero piacere come riporta l’ultimo numero della rivista francese Psychologies: “L’aumento delle dipendenze va di pari passo con l’indebolimento dei legami sociali, dei sogni collettivi e con l’aumento della solitudine su un fondo di depressione” .
I due psichiatri francesi nel libro sostengono che cent’anni fa soddisfare certi desideri anche trasgressivi sembrava una conquista di libertà; oggi è divenuto una noiosa banalità. “E questo è un problema”, scrivono. “È lo stesso desiderio che si è ammalato, dato che noi ci siamo assuefatti a ogni soddisfacimento. Forse oggi si soffre meno di rimozione del desiderio, ma l’isteria è stata rimpiazzata da altre due malattie: la depressione, di cui soffrono quelli che non hanno più l’energia di difendere nella competizione per il piacere la loro parte di bottino. E la dipendenza (dal gioco d’azzardo e dalle varie sostanze d’abuso)”.
Gli attuali bevitori da sballo hanno ereditato geneticamente questa malattia del desiderio dai genitori assenti, da padri-non-padri e da cinquant’anni di ideali sostituiti col consumismo.
Sulle generazioni precedenti non si può più intervenire; ma sul futuro si può? Forse sì. Valorizzando e rincuorando il 44% dei giovani che, riporta la Di Pietro, non si sballano ma di cui non parla nessuno, perché l’Italia e l’Europa vivono solo reattivamente, puntando solo sulle emergenze e non sui progetti.
Ma il convincimento sull’adolescente funziona poco se viene dalla generazione precedente o dal “potere costituito”, ed è forte se viene dai suoi pari, secondo quanto riporta l’Autrice. Se ne parla poco, ma è l’Italia nascosta dalla corsa alle emergenze, quella che invece va raccontata.
 

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Conviene rimandare figli, lavoro e famiglia dai 20 anni ai 30? https://it.zenit.org/2015/11/08/conviene-rimandare-figli-lavoro-e-famiglia-dai-20-anni-ai-30/ https://it.zenit.org/2015/11/08/conviene-rimandare-figli-lavoro-e-famiglia-dai-20-anni-ai-30/#respond Sun, 08 Nov 2015 15:59:51 +0000 https://it.zenit.org/conviene-rimandare-figli-lavoro-e-famiglia-dai-20-anni-ai-30/ Secondo una studiosa americana, procrastinare le decisioni importanti in nome della “libertà”, pregiudica la capacità di costruire, creare e progettare

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In aereo qualche giorno fa, accade una scena non tanto rara: una bambino che strilla disperato per la situazione per lui insolita e restrittiva. Strillava, aveva poco più di un anno e per un bambino è normale esprimersi a quel modo, ma quello che mi colpiva era l’atteggiamento dei genitori: il padre da un lato ogni tanto gli dava un’occhiata e gli piazzava in mano l’iPad con annesso videogioco e musica a tutto volume  e la madre era invece assorta a leggere un libro, che non sarebbe niente strano se non il fatto che il libro si intitolava (mi ci è caduto l’occhio e mi è sembrato molto ironico) Le mamme non sbagliano mai.

Forse la signora non aveva letto ancor bene il libro o il libro era troppo indulgente; fatto sta che la signora e il marito avevano evidentemente bisogno di qualche ripetizione, ma non era colpa loro: da almeno trent’anni nessuno ha più insegnato alle mamme a fare le mamme. E per questo c’è solo una scuola: guardare. Ma oggi le amiche e le sorelle i figli non li fanno più (ad avercele poi, amiche e sorelle…) e le ragazze crescono sapendo tutto di un PC o su come impiattare un dessert (oggi va molto di moda alla TV!) e molto poco del proprio utero, e ancor meno di quello che un giorno potrebbe uscire dal detto utero: provate  a domandare ad una ragazza di 15-18 anni anche solo quanto dura una gravidanza o come si allatta un bambino!

Suggerisco allora un’altra lettura che non so se è stata tradotta in italiano, di Meg Jay psicologa femminista, intitolata The Defining Decade: Why Your Twenties Matter — And How to Make the Most of Them Now (“Il decennio basilare: perché i tuoi venti anni contano – E come sfruttarli appieno ora”) edito da Machette negli States, che si rivolge alle ventenni e fa rizzare i capelli ai benpensanti in quanto mette in crisi – da femminista per i disastri che questo provoca proprio alle donne! – un dogma postmoderno, cioè quello della giovinezza intesa come eterna distrazione e prolungata all’infinito, almeno fino ai cinquant’anni.

La Jay spiega che rimandare figli, lavoro e famiglia dai vent’anni ai trenta è farsi rapinare gli anni più belli e fruttuosi dall’inedia e dall’inattività (creando un buco di dieci anni colmato dal nulla, come se “i trenta anni fossero i nuovi vent’anni”), perdendo la capacità di costruire e di creare e progettare che dopo i trent’anni non si ritrova più… in nome di una libertà che non sa di libertà e che si rimpiangerà quando sarà tardi e non saprai come fare la mamma, o – cosa più grave – quando i figli neanche riuscirai ad averli, e magari entri in un circolo di stimolazioni ormonali e di costosi trattamenti medicalmente assistiti che potevi evitare se (per scelta o per costrizione sociale) non aspettavi troppo.

“Quando si hanno vent’anni anche un piccolo rinvio può cambiare radicalmente i nostri trent’anni”, dice la Jay. “I vent’anni sono un’età turbolenta e scapigliata, ma se impariamo a navigare anche un piccolo passo alla volta, possiamo andare più lontano, più veloce che in qualunque altra età della vita. È un’età centrale in cui le cose che facciamo – e quelle che non facciamo – avranno un enorme effetto negli anni a venire e nelle generazioni future”. E porta tutti ma in particolare le donne a rimpiangere di non aver pensato a far famiglia o meglio ad essere stati costretti a non far famiglia quando era l’ora suonata dal proprio campanello biologico. Invece ci insegnano che il periodo tra i venti e i trent’anni è un decenni da tenere in freezer, da usare solo per distrarsi, viaggiare, divertirsi; tutto ok, certo, tranne poi rimpiangerlo. Dieci anni di freezer in cui si poteva agire invece di sognare, anzi sognare e agire insieme perché è l’unica epoca della vita in cui siamo così freschi e forti da poter fare entrambe le cose. Invece la società dei consumi (e dello scarto) preferisce i nostri figli“bambinoni” e spendaccioni, poco costruttivi e per niente solidali.

E non ci vengano a raccontare che imparare a vivere prima dei vent’anni e afferrare figli, lavoro e famiglia tra i venti e i trenta, blocca la corsa all’istruzione e all’indipendenza dei giovani; uno Stato civile deve aver l’obbligo primario di favorire nelle programmazioni finanziarie sia la vita familiare che quella culturale di chi ha vent’anni e ha il fisico per sopportarle entrambe.

Essere mamme o padri, sapersi impegnare nel lavoro, si può imparare e si deve imparare dai banchi di scuola. Ma tutto cospira a censurarlo, a far sembrare un grande progresso l’attuale situazione di società a goccia di miele, cioè quella in cui le famiglie si assottigliano e di rarefanno nel tempo (in un secolo oggi si cambiano meno di 3 generazioni mentre prima se ne cambiavano 4 o 5!), proprio come una goccia di miele sotto la spinta della gravità… che alla fine non più coesa si stacca e cade. Cade per incuria, per moda, per ignoranza della fisiologia, per illusione di eterna gioventù. Perché ti raccontano che i vent’anni passano come se fossero recuperabili; invece no. Nel decennio 20-30 anni si sostituisce la vita con la distrazione; ma dice la Jay: “La distrazione è l’oppio dei popoli del 21° secolo”. Povere ragazze e poveri ragazzi d’oggi: crescete imparando a rimandare l’epoca per avere figli, lavoro e famiglia, siete obbligate a rimandarli, e vi raccontano la favola che così avete più scelte, più divertimento, più distrazione; finché troppo distratti, poco divertiti restate senza scelte perché le scelte vere si fanno quando si è liberi  e attenti al mondo, non quando si è imparato a guardare in solitudine – per il profitto di chi poi ci guadagna – solo il proprio ombelico.

 

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Per "sciogliere i nodi" della famiglia oggi. Storia di un culto sudamericano https://it.zenit.org/2015/07/01/per-sciogliere-i-nodi-della-famiglia-oggi-storia-di-un-culto-sudamericano/ https://it.zenit.org/2015/07/01/per-sciogliere-i-nodi-della-famiglia-oggi-storia-di-un-culto-sudamericano/#respond Wed, 01 Jul 2015 15:58:32 +0000 https://it.zenit.org/per-sciogliere-i-nodi-della-famiglia-oggi-storia-di-un-culto-sudamericano/ Alcuni cenni sulla "Madonna che scioglie i nodi", devozione tedesca approdata in Argentina grazie ad un giovane Bergoglio

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Si parla in questi giorni tanto di famiglia, e tanti sembrano avere ricette buone, alcune ottime. Ci viene da pensare che più che le ricette conti la memoria del significato reale e della reale forza della famiglia. Ricordiamo qui un avvenimento che può essere di aiuto.

La storia inizia in Germania nel 1700 circa, quando un nobile – si racconta – pregando la Madonna poté migliorare la relazione con sua moglie. Fece allora dipingere ad un artista un dipinto celebrativo e costui rappresentò la Madonna, in atto di schiacciare la testa del serpente-demonio, che tiene in mano una corda piena di nodi complicati, che però al passare dalle sue mani risultano sciolti e la corda liscia e rilassata.

L’artista era Johann Georg Melchor Schmidtner, un pittore che si era formato in Germania e poi a Venezia, tanto che il quadro è di buna fattura. Venne chiamato in tedesco “María als Knotenlöserin”, cioè Maria che scioglie i nodi. Il quadro fu poi donato ad un convento e dopo la distruzione di questo finì alla chiesa di San Peter am Perlach, ad Ausburg.

Il quadro suscità così tanta impressione che venne anche riprodotto altrove a Buenos Aires, ad esempio nella cappella dell’Università del Salvatore e, con il permesso del cardinale Quarracino, nella parrocchia di San Giuseppe, in ragione del vincolo sponsale di questo santo con la Vergine. Ella viene oggi chiamata la Virgen Desatanudos, cioè “Sciogli-nodi”. La data principale di venerazione della Vergine in questa particolare accezione è per l’appunto l’ 8 dicembre, ma anche il 15 agosto e il 28 settembre e richiama grandi folle. Viene venerata col titolo di “Patrona dei matrimoni e dei conflitti nella vita delle persone e dei popoli”.

Da questo culto viene un suggerimento: oggi si parla di famiglia solo per farne oggetto di rivendicazioni o per farne una delle tante medaglie o titoli di cui ci si fregia nella vita. Invece della famiglia bisogna innamorarsene, coltivarla, farla rifiorire da consuetudini e opacità; e riconoscere i nodi che da soli non sappiamo sciogliere. Perché i nodi ci sono; ma non devono essere l’ultima parola. E come fiorisce una famiglia che supera i nodi insieme e che non viene lasciata sola nella periferia della tristezza o della povertà! Allora per lavorare sulla famiglia bisogna prima raccontare, mostrare, illustrare (e ringraziare) le belle famiglie che popolano l’Italia, l’Argentina e tanti paesi e che attraverso i mille nodi quotidiani sanno fiorire.

Questa storia di una devozione sudamericana però resterebbe una tra le tante senza un finale speciale, cioè svelare che il sacerdote gesuita che diede vita a questo culto, portando con sé l’immagine della Vergine Sciogli-nodi dalla Germania, era un giovane Jorge Mario Bergoglio, oggi Papa Francesco, così innamorato di una Madre della famiglia che ne guarda i nodi e le difficoltà.

 

 

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Risacralizzare il cibo significa risacralizzare la vita https://it.zenit.org/2015/04/18/risacralizzare-il-cibo-significa-risacralizzare-la-vita/ https://it.zenit.org/2015/04/18/risacralizzare-il-cibo-significa-risacralizzare-la-vita/#respond Sat, 18 Apr 2015 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/risacralizzare-il-cibo-significa-risacralizzare-la-vita/ Proposta per nominare san Giovanni evangelista patrono della manifestazione EXPO di Milano

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L’EXPO di Milano 2015 è l’occasione per parlare della nutrizione del pianeta; e come parlarne a prescindere dal concetto ribadito dal Papa della lotta alla “cultura dello scarto”? Ne approfittiamo per lanciare una proposta: che questa manifestazione universale abbia come riferimento un Santo protettore che simboleggi l’idea della lotta alla cultura dello scarto.

Esiste una pagina del vangelo che viene riportata da tutti gli evangelisti, ma solo uno dei quattro ne fa un particolare sottolineatura che a questo proposito cade a pennello. La pagina è quella della moltiplicazione dei pani e dei pesci (in tema con l’argomento dell’EXPO: “Nutrire il Pianeta”). Mentre tutti gli evangelisti riportano il fatto delle ceste di viveri avanzate alla fine della vicenda, solo uno, Giovanni, ricorda e sottolinea un particolare: le parole di Gesù dette proprio in quello specifico momento che sebbene poche, anche  in quel caso non sono di secondaria importanza.

Infatti così Gesù si esprime: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (Gv 6,12). Parole forti che però la sensibilità di solo uno degli astanti ha colto, e per questo mostra un’attenzione particolare al problema: raccogliere gli avanzi non è “non sporcare”, o “non sprecare”. E’ rispettare l’alimento, la produzione, il cibo (che oggi invece va incontro ad un vergognoso spreco). E quindi rispettare il lavoro dell’uomo e la creazione di Dio. Chi le cita e se ne ricorda mostra una sensibilità particolare a questo tema.

Tema spinoso: la metà del cibo che viene prodotto nel mondo, circa due miliardi di tonnellate, finisce nella spazzatura, benché sia in gran parte commestibile. Il dato emerge da un rapporto del gennaio 2013 dell’Institution of Mechanical Engineers, associazione degli ingegneri meccanici britannici. Fra le cause di questo spreco di massa ci sono le cattive abitudini di milioni di persone, che non conservano i prodotti in modo adeguato.

Ma anche le promozioni che spingono i consumatori a comprare più cibo del necessario, i numerosi passaggi dal produttore al consumatore nelle catene di montaggio dei cibi industriali. Su questo insiste il mondo ecologista, in cui però dobbiamo fare una piccola distinzione: esiste un ecologismo catastrofista che pur in buona fede vive in ragione della paura della fine delle risorse; e un ecologismo positivo che non spreca e non sfrutta per puro rispetto e meraviglia verso quello che ci circonda.

“Perché nulla vada perduto” apre a questa seconda visione perché è frase detta da Chi ben sapeva che il problema non era la paura che “altrimenti finisce”, dato che avendo sfamato centinaia di persone evidentemente non aveva problemi di quantità o di ripeterlo; e che sottolinea che il vero problema dello spreco (ed ecco come il tema dell’EXPO c’entra a pennello) èil rispetto che si deve a qualunque minuscolo tratto della creazione, di cui nulla è inutile, nulla è senza senso.

Ecco allora la proposta di proporre san Giovanni evangelista patrono della manifestazione EXPO milanese, perché tra tutti i testimoni di quella serata in cui centinaia di persone furono sfamate, è quello che ha avuto la maggior sensibilità a captare, ricordare e riportare le parole di Cristo sul significato anche del rispetto dell’ambiente, del cibo e della natura.

Il cibo non solo non va sprecato, ma va rispettato. La tradizione popolare faceva sì che venisse benedetto, che si vietasse di giocarci, che quando avanzava non venisse buttato ma riciclato come concime, come mangime, come base per tanti piatti di cucina povera.

Eppure oggi il cibo viene vilipeso, viene scartato, viene usato in trasmissioni televisive come materiale di spreco, viene insomma desacralizzato: perché se ne ha troppo? perché è facile acquisirlo? perché non è ricco e noi sappiamo dar valore alle cose solo in base al valore economico? A fronte dei miliardi di tonnellate di cibo gettato nella spazzatura, c’è un miliardo di persone al mondo che non ha accesso a sufficienti risorse alimentari. Risacralizzare il cibo significa risacralizzare la vita, soprattutto quella di chi è ai margini. Un Patrono con la sensibilità che abbiamo ora illustrato può essere un buon riferimento. 

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Se la madre muore e il feto sopravvive? https://it.zenit.org/2014/12/28/se-la-madre-muore-e-il-feto-sopravvive/ https://it.zenit.org/2014/12/28/se-la-madre-muore-e-il-feto-sopravvive/#respond Sun, 28 Dec 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/se-la-madre-muore-e-il-feto-sopravvive/ Il dilemma giuridico è insorto in Irlanda dove l'ottavo emendamento alla Costituzione riconosce il diritto alla vita del nascituro

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In questi giorni è stata diffusa la notizia della sospensione delle cure per il mantenimento delle attività fisiologiche ad una donna ormai morta ma incinta, con un feto vivo. I sette periti medici del tribunale hanno sentenziato secondo scienza e coscienza che la prosecuzione della vita biologica della donna non avrebbe potuto salvare il feto. È avvenuto in Irlanda. Lì l’ottavo emendamento alla Costituzionericonosce e garantisce il diritto alla vita del feto non ancora nato, col dovuto rispetto verso l’eguale diritto alla vita della madre. L’emendamento è del 1983 e fu approvato dopo un referendum popolare. È una contraddizione una legge che garantisce la vita del feto e la decisione di sospendere le cure al corpo materno che lo ospita? Vedremo che non lo è, in questo caso; e per questo approfondiamo la questione.

Vediamo le motivazioni date dal giudice che ha fatto sospendere le cure secondo la richiesta dei familiari: le cure sono state sospese non “per far morire il feto”, ma perché inutili; perché, visto il livello di deterioramento della vita fisiologica materna, il feto non sarebbe arrivato a nascere e sopravvivere. Anche le autorità ecclesiali irlandesi non hanno eccepito su questo fatto, che assolutamente non rientra nel campo dell’eutanasia, e non rientra nel campo dell’aborto. Rientra nel campo triste ma accettabile della sospensione delle cure che non servono a niente.

È interessante sottolineare che gli stessi giudici che hanno preso questa decisione hanno affermato il diritto alla vita del feto, al punto che se nel futuro il feto in gestazione fosse ad un livello di sviluppo più avanzato e quindi con possibilità di farcela, il feto avrebbe assolutamente il supporto della legge per veder nel suo interesse prolungate le attività fisiologiche del corpo della mamma.

Ho pubblicato da poco una monografia su questo tema, intitolata: “Gravidanza nel corpo di una madre morta e i limiti dell’autorità dei suoi parenti” (Pregnancy in a dead mother, and the limits of her relatives’ authority”- Research and Development, 2014). In questo studio spiegavo che la prosecuzione della vita biologica di una donna morta e incinta, non solo va nell’interesse del feto, ma paradossalmente anche nell’interesse della donna. Infatti, anche chi sostiene la liceità dell’interruzione di gravidanza, deve ammettere che questa – dove è ammessa – lo è in ragione del desiderio della donna; e nel caso di una donna morta e incinta, questa non ha mai detto di non volere quella gravidanza, anzi si trattava di un fatto cui era profondamente legata; quindi interrompere la vita biologica materna interrompendo così la gravidanza andrebbe contro la libertà di scelta della donna, e dunque contro i principi dei sostenitori dell’aborto.

I familiari di una donna in queste condizioni non possono far altro che prenderne atto, e non dovrebbero travalicare questo principio.

Deve essere chiaro che non ogni feto che si trova in queste condizioni può essere salvato, e in questo caso continuare a far “funzionare” il corpo morto della madre non ha senso. Per potersi salvare, il feto deve essere vitale e non danneggiato profondamente in modo che lo rende incompatibile con la vita; e deve essere arrivato ad uno sviluppo (o deve aver la possibilità realistica di arrivarci vivo) tale da render possibile la vita dopo la nascita. Il feto in questione non poteva salvarsi neanche prolungando la vita biologica materna, secondo il parere oggettivo dei medici interpellati dal tribunale.

Dunque la vita del feto è un valore da garantire, ma dentro i limiti delle umane possibilità. Perciò è un dolore ma non uno scandalo che di fronte all’impossibile ci si debba arrendere.

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Il medico, "custode e servitore della vita dell'uomo" https://it.zenit.org/2014/08/28/il-medico-custode-e-servitore-della-vita-dell-uomo/ https://it.zenit.org/2014/08/28/il-medico-custode-e-servitore-della-vita-dell-uomo/#respond Thu, 28 Aug 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/il-medico-custode-e-servitore-della-vita-dell-uomo/ L'ultimo libro del card. Tettamanzi, 'Maestro e Pastore', aiuta a "prendersi cura di chi si prende cura degli altri"

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Maestro e Pastore. È questo il significativo titolo del libro che raccoglie scritti e discorsi del card. Dionigi Tettamanzi sui temi di bioetica, salute e medicina. Uscito di recente per i tipi delle edizioni San Paolo, il testo è curato con molta attenzione dal prof. Alfredo Anzani, già presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani.

Il filo rosso che conduce dal titolo all’interno del libro è la “cura dei curanti”, cioè l’attenzione pastorale e umana verso chi si trova in prima linea nel mondo della sanità. Questo livello di attenzione introduce ad un dato fondamentale: prima di dire “cosa si deve fare” bisogna stare accanto a chi opera, essere compagno e maestro, ricostruire l’umanità di chi è chiamato a fare scelte sulla vita altrui, perché un’umanità disfatta fa per forza delle scelte forzate  o azzardate o colme di paura.

E il cardinal Tettamanzi getta delle parole liberatorie per i medici: il medico è un “filosofo, nel senso originario e insuperabile del termine, ossia colui che ama la sapienza e conosce e sperimenta il vero senso della vita [che] deve essere testimoniato e comunicato agli altri” (p 196); e “c’è una religiosità nascosta che è intrinseca e nativa nella professione e nel servizio del medico. Come dire che il curare i malati è già annuncio del regno di Dio” (p 253). Ma addirittura “il medico è una sorta di miracolo vivente, proprio perché anche la missione del medico, almeno in linea di principio, è partecipazione e, in qualche modo, rivelazione dell’amore di Dio che si prende cura dei suoi figli” (p 259), scoprendo “in ogni cosa il riflesso del Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente” (p 258).

Ma attenti al mal-trattamento del medico: “una medicina che non si interroga sul fondamentale rapporto che essa intrattiene con la dignità dell’uomo rischia […] anche di disumanizzare il medico” (p 312). Ecco allora la pressante richiesta di creare ambiti e strade per la crescita umana e spirituale del medico sollecitando ad un lavoro personale: “Il medico per vivere questo sguardo contemplativo sul malato ha bisogno di rivolgerlo anzitutto su se stesso” (p 206), ad un impegno educativo “il problema si pone nei confronti dei giovani medici: quali e quante occasioni di crescita culturale e formativa in campo etico trovano oggi?” (p 260), e ad un impegno sociale “Se è così grande la missione e così grande la responsabilità del medico, quanti hanno un compito istituzionale nell’ambito politico, legislativo, amministrativo e dirigenziale sono chiamati […] a favorire il medico stesso nella sua attività quotidiana senza inutili limitazioni e impedimenti” (p 261); e tra gli impedimenti annovera “la cosiddetta aziendalizzazione della sanità indubbiamente legittima […] ma problematica e talvolta inaccettabile se volesse scimmiottare altre aziende importando acriticamente da quelle criteri e modelli non applicabili al settore sanitario.” (p 262).

È un libro, insomma, che aiuta a “prendersi cura di chi si prende cura degli altri”, in un’epoca in cui il mondo medico appare per vari motivi insoddisfatto; anzi, come recentemente riportava il British Medical Journal, i medici sono “unhappy”, cioè “scontenti” con uno scontento che “ha varie cause di cui alcune profonde”. (BMJ 2001;322:1073-4).

L’insoddisfazione e la delusione della categoria medica non vanno sottovalutate; perché quando si parla di bioetica si deve in primo luogo coltivare chi la bioetica la applica giorno per giorno, troppo spesso strattonato tra tendenze sentimentaliste, pragmatismo burocratico e resa cinica. In questo – e nell’approfondimento dei vari temi etici – il testo aiuta molto. Bisogna che il medico rinasca come medico, come persona e come credente. Per questo urge che venga aiutato a interrogarsi sul suo lavoro e sul “fondamentale rapporto che [esso] intrattiene con la dignità dell’uomo” (p 312), ricordando che il medico ha il compito di “essere custode e servitore della vita dell’uomo […] ed essere strumento della salvezza che Dio solo dona all’uomo” (p 317). Il testo è un percorso in questa direzione.

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La capacità umana, requisito di un buon medico https://it.zenit.org/2014/06/18/la-capacita-umana-requisito-di-un-buon-medico/ https://it.zenit.org/2014/06/18/la-capacita-umana-requisito-di-un-buon-medico/#respond Wed, 18 Jun 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/la-capacita-umana-requisito-di-un-buon-medico/ Il nuovo codice deontologico, un meandro di cavilli, rischia di allontanare il medico dal significato profondo della sua professione

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Nei giorni in cui si approva il nuovo codice deontologico medico, è utile leggere un breve e intenso libro intitolato Dottori tra le righe (Ed. Ancora) per imparare cosa il mondo si aspetta dalla medicina. Lo facciamo guidati dall’autore del libro, Giuseppe Banfi, medico che insegna ai medici a fare un passo indietro e a guardarsi come li guardano gli altri – quando si è troppo immersi in un certo mondo è difficile giudicarlo e portare utili cambiamenti -. Gli estensori del nuovo codice deontologico – bello o brutto che ci sembri – avrebbero dovuto leggerlo attentamente.

Anni 2000, medicina-burocrazia: si perde di vista che l’orizzonte del medico non è il puro guadagno o il budget dell’ospedale o un presunto benessere sociale; e che la medicina è un’arte. Le parole per descrivere cosa il medico è tenuto a fare si moltiplicano, e i codici deontologici diventano meandri di cavilli. Banfi allora ci fa fare il suddetto passo indietro portandoci per mano tra le righe di 52 grandi autori letterari, da Calvino a Tolstoj, per mostrarci come “il mondo non medico” guarda il medico, il suo operare, la sua solitudine, il suo errore.  E sorpresa: il mondo non medico vuole sempre e ancora che la medicina sia un’arte, cioè che unisca alla competenza tecnica la capacità umana, proprio il contrario di quello che sembrerebbe apparire sui giornali, cioè un medico-capotreno che stili un contratto col paziente e che sia tenuto a “portarlo da qui a lì” (… al di fuori di questo e oltre questo nulla sembra più richiesto, nulla sembra più dovuto).

Da tutti gli autori riportati nel volume, esce una richiesta pressante di un medico-uomo, ma anche di un medico-padre e un medico-amico, perché sanno che la malattia e la sofferenza sono un fatto chimico ma non solo. Scrive infatti Banfi: “La fiducia è l’elemento cardine del rapporto con qualsiasi professionista, ma in particolar modo col medico. Spesso i pazienti mantengono, in caso di insoddisfazione o di danno, la fiducia nel medico e scaricano la sfiducia e il disprezzo sull’organizzazione”.

E partono le citazioni che mostrano l’ampiezza dell’orizzonte medico e i limiti che subisce. “Credere alla medicina sarebbe la più gran follia, se non crederci non fosse una follia ancor più grande”, scrive Marcel Proust; e gli fa eco Ernest Hemingway, facendo parlare un ufficiale medico: “Il mio mestiere è quello di curare i feriti, non di ucciderli. Questo spetta ai signori dell’artiglieria”. E scrive Jonathan Coe: “Del mio medico non mi fido. A quel che vedo, in questi giorni, impiega tutte le sue energie per pareggiare il bilancio e contenere le spese. Ho avuto l’impressione di non essere presa molto sul serio”.

Ma Banfi non si limita a riportare quadri dipinti con le parole da maestri della letteratura, ma attualizza e commenta i quadri stessi, e li contestualizza in un mondo in cui si parla di sfide bioetiche recenti, di innovazioni tecnologiche, di fecondazione, di nascite premature e di cure di fine-vita; e di tanta burocrazia.  “L’esterofilia tipica del nostro Paese – scrive commentando un testo di Anne Enquist –non risparmia la sanità e la sua gestione. Abbiamo adottato i DRG degli stati uniti, il sistema sanitario nazionale del Regno Unito, qualcuno si affida alla Joint Commission americana, qualcuno alle linee-guida scozzesi, qualcun altro invoca i DRG australiani. Il sistema ospedaliero olandese è costituito da fondazioni no-profit e qualche anno fa ha avuto il suo quarto d’ora di notorietà anche da noi (…) ma speriamo che gli olandesi, che stanno cambiando comportamento sulla droga libera e sulle ragazze in vetrina, che hanno deciso di non abbattere l’albero ormai vecchio e malato che Anna Frank vedeva dalla sua soffitta, cambino anche idea sul trattamento della persona, magari studiando in un altro Paese”.

Oppure scrive, commentando l’esame di ammissione alla professione medica descritto ne La Cittadella di AJ Cronin: “Lo studente di medicina è troppo occupato a studiare per conoscere la medicina, esce dall’università conoscendo tanti nomi di malattie e di farmaci che dovrebbero servire a curarle; i medici dovrebbero lavorare in gruppo e condividere il loro sapere, studiare realmente le cause delle malattie invece di distribuire boccettine di farmaci”. D’altronde, scrive commentando Jonathan Coe, “La gente che lavora nella sanità ha motivazione, ma sente che non vi è un premio e forse anche un interesse per chi lo dimostra”.

Ecco cosa dovrebbe esprimere un codice deontologico – bello o brutto che sia quello ora varato -: non mille regole ma il significato della professione. Guardando solo a diritti e doveri, mansioni e budget, si è passati da un giuramento ippocratico di otto righe a un codice deontologico di ottanta paragrafi; perché quando scompare il cuore, il battito della vita, una morale condivisa, una storia comune, il senso di una professione. Si può cercare di sostituire tutto questo con delle norme, con tanti paragrafi e cavilli, ma non basta; e i medici, come titolava poco tempo fa il British Medical Journal, restano infelici.

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"Maleficent": un film da leggere con le lenti giuste https://it.zenit.org/2014/06/14/maleficent-un-film-da-leggere-con-le-lenti-giuste/ https://it.zenit.org/2014/06/14/maleficent-un-film-da-leggere-con-le-lenti-giuste/#respond Sat, 14 Jun 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/maleficent-un-film-da-leggere-con-le-lenti-giuste/ Il remake con Angelina Jolie del cartone animato della Disney, ispirato alla fiaba di Perrault, è un inno al pentimento e all'amore materno

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Supporre che il film “Maleficent” con Angelina Jolie sia una sorta di inno al rapporto trasgressivo ci sembra così fuori luogo da pensare che ormai tutto si legga attraverso delle lenti sfocate. Che queste lenti vadano di moda lo possiamo capire, che siano ormai la norma, capiamo anche questo. Ma proviamo a toglierle e guardare ad occhio nudo. E cosa vediamo? Il remake di un vecchio film della Disney, “La bella addormentata nel bosco”, bellissimo e avvincente nella versione originale come in quella di ora.

Perché se il film antico preso dalla fiaba di Perrault era un chiaro segnale a chiamare il male col suo nome e il bene a chiamarlo bene, quello moderno non smentisce il precedente ma va oltre: è un inno al pentimento e all’amore materno. Pensate che roba! E che trasgressione questo sì, ma non nel senso modaiolo e sessuologico.

Lo avrebbe smentito se avesse accennato ad un concetto tanto di moda: che bene e male non esistono; mentre qui è proprio il contrario: il bene è ancora bene e il male è ancora male; solo che spiega facendo un passo oltre, che non sono le persone ad essere “il bene” o “il male”, cosa che non ci sembra per niente sbagliata.

Qualcuno ha sottolineato che qui sono le figure femminili a fare bella figura, prefigurando un inno al femminismo o alla misoginia al contrario. Se non fosse che, visto le figure maschili che appaiono nel film, come dar loro torto?

Che poi il principe azzurro non sia efficace e all’altezza delle aspettative, rientra nell’ordine delle cose (il giovane si dichiara ancora non pronto e questo – scusate tanto – ci sembra solo un tratto positivo per un adolescente che viene spinto a fare quello che ancora non vuol o non sa fare), ma poi riappare alla fine, non fuggito, non scacciato, ma solo in crescita e in futuro innamoramento.

A me sembrano messaggi buoni, così come la figura di una fata cattiva che diventa una mamma affettuosa mettendo da parte la vendetta, altro tema di moda in troppi film.

Se poi vedendo figure femminili forti riuscite a pensare ad una cosa sola (in un senso o in un altro) e a vedere nel bacio di una mamma sulla fronte della bambina morta qualcosa d’altro che non sia il bacio di una mamma, non è un problema mio.

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La cultura dello scarto nasce dalla paura https://it.zenit.org/2014/06/08/la-cultura-dello-scarto-nasce-dalla-paura/ https://it.zenit.org/2014/06/08/la-cultura-dello-scarto-nasce-dalla-paura/#respond Sun, 08 Jun 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/la-cultura-dello-scarto-nasce-dalla-paura/ I "rifiuti umani" sono vittime della "perdita del contatto"

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Il giorno 26 maggio presso l’accademia San Luca a Roma, ha preso il via un ciclo di lezioni dal titolo Arti visive e architettura nella Società del Consumismo, coordinato dal Presidente dell’accademia, il prof. paolo Portoghesi. Riportiamo qui stralci della relazione tenuta dal prof. Carlo Bellieni, in occasione della giornata iniziale, intitolata La cultura dello Scarto.

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A lato dei rifiuti urbani, nasce il concetto di rifiuti umani, che si ritrovano in quelle periferie esistenziali, quelle situazioni, quelle patologie, quelle emarginazioni che non sono previste dalla società, che la società non sa o non può o non vuole integrare. Dalle folle degli immigrati al bambino disabile, dall’embrione “sovrannumerario” al demente. E l’integrazione sembra meno facile di quanto ci si aspettasse forse perché la società postmoderna che non basa più le sue regole su una razionalità modernista, ma sull’estetica postmoderna appunto, sa integrare solo quello che vede utile, in una visione limitante del concetto di utilità che – per forza di cose  le si rivolgerà contro perché chi non sa guardare con la prospettiva secolare il futuro non può azzardarsi a proporre cosa sia bene o male per la società. Tanto che arriva a lasciar che molti filosofi tolgano il titolo di “persona” a chi non sa autodeterminarsi, a chi non ha un livello accettabile (da chi?) di autocoscienza.

Lo scarto nasce dalla paura

La cultura dello scarto nasce dalla paura, da una vaga idea di sé che non sa orientarsi nel tempo e nello spazio e che crea un’arte debole e un pensiero debole. Dovremmo perciò piuttosto chiamarla cultura del rifiuto, perché il rifiuto viene un momento prima dello scarto;  lo scarto agisce dopo l’esperienza, mentre il rifiuto nemmeno accetta l’esperienza, è il simbolo del pregiudizio, della paura. E il pensiero moderno è basato sulla paura. Paura della disabilità, paura cosmica del terrorismo, paura delle catastrofi o catastrofismo, paura dei propri difetti che ci si ingegna in tutti i modi a nascondere, paura di invecchiare e di essere fuori moda.

E si mostra con costruzioni che non hanno futuro, con chiese orrende, con case fatte per contenere e non per far vivere.

Lo scarto nasce dalla perdita di contatto

“Le mie mani cosa sono? La distanza infinita che mi separa dall’altro”, scriveva Sartre. E da allora, dalla nascita di una cultura oculocentrica si è andato perdendo una cultura basata sul contatto. Non si stringono più mani né si danno baci; gli strumenti fatti per avvicinare (telefono, cellulari, automobili…) in realtà allontanano. La vita è sempre più solitaria, e si crea su misura un mondo virtuale da godere in solitudine. Perché la realtà non interessa, o perché fa paura. E il contatto scompare dalla vita, l’arte diventa soggettivismo, difficile da compartire con chi si sta vicino perché si pensa che la mia e la tua libertà non possano mai coincidere (“La libertà è quella che finisce dove inizia la libertà altrui”). Perché l’altro, dopo decenni di critica consumistica e di consumismo artistico è diventato un distante inarrivabile. Il medico diventa il fornitore di un servizio; così come l’artista; e il paziente o la persona diventano “utenza” dell’arte. Perché l’altro è un distante inarrivabile e incomunicabile. Uno scarto.

Alla cultura del rifiuto si oppone una cultura del costruire

Costruire è la massima opera di fiducia nel mondo e nella vita, è la risposta più forte alla paura, alla paura del mare che corrode con la salsedine, del vento, del terremoto. E costruire non scarta, non rifiuta. Accetta il territorio, accetta la terra, accetta la povertà. E con territorio, terra e povertà o ricchezza mette strato dopo strato, costruisce.

Perché costruire, di derivazione dal latino STRUO, è l’opera di mettere per strati in atto un opera, e per farlo usa lo strumento – sempre di derivazione dalla stessa parola STRUO – cioè, a differenza degli animali, usa l’intelligenza.

Ma per costruire bisogna prima abitare. Sembrerebbe il contrario, cioè che si costruisca per poi abitare, e questo in un certo senso è vero ma non si costruisce se prima non si possiede il luogo e l’ambiente, cioè se non lo si guarda con uno sguardo che lo sorvoli come l’aquila dal cielo che vede non il particolare a due centimetri ma tutto l’insieme del territorio, e se non si guarda con uno sguardo che trapassi il tempo futuro e colga il tempo passato in quel luogo. Abitare significa AVERE, anzi è avere all’ennesima potenza, perché habito è il modo iterativo del verbo habeo. Per abitare bisogna possedere col cure, e con lo sguardo dell’aquila. Per poi costruire.

La cultura dello scarto trova qui la sua morte. Nella costruzione che non teme la ruota del tempo.

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Francesco, il Papa che ama e che serve https://it.zenit.org/2014/05/19/francesco-il-papa-che-ama-e-che-serve/ https://it.zenit.org/2014/05/19/francesco-il-papa-che-ama-e-che-serve/#respond Mon, 19 May 2014 00:00:00 +0000 https://it.zenit.org/francesco-il-papa-che-ama-e-che-serve/ Mons. Lorenzo Leuzzi, Vescovo ausiliare di Roma, affronta nel suo ultimo libro il "realismo storico di Papa Francesco"

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Quanto colpiscono le parole del Papa, e quanto rischio c’è che qualcuno le “maltratti”. In questo periodo in cui si è soliti vedere il parlare del Papa tirato e con tanta forza da una parte o dall’altra per fini personalisti o per scarsa comprensione, è bene farsi mettere nella lunghezza d’onda del suo parlare da chi lo sa intendere davvero. Per questo è utile il libro di mons. Lorenzo Leuzzi Amare e Servire. Il realismo storico di Papa Francesco (Libreria Editrice Vaticana). Già il fatto che mons. Leuzzi voglia insegnare con un linguaggio alto a seguire correttamente il pensiero papale, ci fa capire che il messaggio è diretto a tutti, sia a chi è colpito dall’esterno (“ex extra”), sia chi non comprende bene “ab intra”. E uno tra i vari spunti del libro, è il corretto intendere del termine tanto caro al Papa: “le periferie esistenziali”.

Ci spiega a questo proposito mons Leuzzi, che il primo binomio del pensiero del Papa da comprendere è quello del “conoscere” (la realtà) e dell’”andare” (nelle periferie esistenziali). Purtroppo spesso questi due termini viaggiano separati: si intende il conoscere in maniera intellettuale-sociologica, mentre si intende l’andare in maniera sentimentale-moralistica. Invece “le parole di papa Francesco non intendono proporre né una via sociologica né una soluzione etico-morale; il Papa invece intende affermare il primato della realtà da conoscere. (…) I pregiudizi sono precisamente: l’impossibilità di conoscere la realtà se non in termini puramente sociologici, e collocare la fede cristiana tra le tante forme di fedi religiose”.

Queste forme di visioni astratte vanno in parallelo a veri errori di interpretazione sociale e teologica che mons. Leuzzi riassume in due tipi: la “teologia razionale”, esalta l’uomo “ad un punto tale che non ha bisogno di andare nelle periferie esistenziali, perché presume di esserci”, e la “ragione teologica” che fa delle periferie esistenziali gli unici luoghi della fede cristiana “fino a fare di questi luoghi un mito: senza la periferia non può esistere la fede cristiana”.

In realtà papa Francesco non idealizza le periferie né parla da astratto osservatore; vede che non si può contrapporre un centro e una periferia, e che l’esistenza non è “il centro” che giudica o che soccorre “la periferia”, ma l’esistenza è anche la periferia, non luogo da osservare ma da vivere. Il metodo che indica per fare questo è il realismo. “Non si tratta di andare in un territorio, periferico o centrale che sia, ma di guardare la realtà dalla periferia dell’esistenza”. Insomma, “non è sufficiente essere in periferia per guardare la realtà, ma è necessario che l’esistenza periferica sia accolta come realtà”.

Nulla di astratto, dunque; e nulla di sociologizzante: “Camminare, costruire, confessare significa scoprire di essere nella Chiesa non per fare esperienza religiosa o sociale ma per rispondere alla chiamata del Signore Gesù (…) E la conoscenza della realtà non è un impegno neutro, separato dall’incontro con Cristo, come ricorda l’Enciclica Lumen Fidei”. Infatti, per sradicare la cultura dello scarto “bisogna aprire il cuore e la mente al Vangelo della misericordia, perché il Vangelo non è un’ideologia, ma una realtà”. L’incontro con Cristo è la chiave per un nuovo realismo.

Il libro è dunque anche il richiamo alla corretta interpretazione del termine “periferie”. Dato importante, perché troppo spesso si interpreta questa parola come un livello più basso dove andare per portare qualcosa a chi ha meno o a chi addirittura si pensa essere meno. Invece la periferia deve essere interpretata come luogo dell’essere al pari del “centro”, come luogo di costruzione e non di commiserazione, come luogo di crescita e invenzione. Andare nelle periferie significa ritrovare spesso qualcosa che nei “centri” si è smarrito, che sia una provocazione o un’idea nuova. Questo vale nell’etica come nell’architettura: è il richiamo a vedere quello che distrattamente non si vede, e a costruire con quello che per il mondo è invece da scartare, creando luoghi e opere che proprio perché nati da un materiale inusitato a volte diventano attraenti e affascinanti; l’unica condizione è il realismo: lasciare che il metodo sia dettato non dal nostro pre-giudizio ma dall’oggetto.

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