Antonio Sacca, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/antonio-sacca/ Il mondo visto da Roma Sun, 20 Nov 2016 13:30:31 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Antonio Sacca, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/antonio-sacca/ 32 32 Il profitto al tempo dei robot https://it.zenit.org/2016/11/20/il-profitto-al-tempo-dei-robot/ Sun, 20 Nov 2016 13:30:31 +0000 https://it.zenit.org/?p=92811 L’alleanza perversa fra tecnologia e profitto configura scenari di grave rischio, mentre un’alleanza virtuosa potrebbe aprire prospettive positive

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Ormai esiste antagonismo tra capitalismo nazionalista e capitalismo internazionalista, è palese. Dapprima le varie consultazioni europee, tutte favorevoli alla difesa dei confini nazionali, specie con riguardo agli immigrati; ora le consultazioni negli Stati Uniti, che assumono una clamorosità mondiale, e, come si dice spesso, “storica”.
Assistiamo dunque a crescenti tentativi di superare il capitalismo internazionalista e di (ri)fondare un capitalismo nazionalista. E ciò avviene proprio a partire dalla più potente nazione del mondo, il che è di una paradossalità che avrebbe dell’assurdo, e che invece è spiegabilissima.
Lasciamo i clamori dell’informazione che finge di scoprire adesso le finalità del nuovo presidente americano. Donald Trump vuole (ri)fondare un capitalismo nazionalista, un capitalismo che tutela gli Stati Uniti, in particolare il ceto medio e il proletariato. Molti si accorgono solo adesso che gli Stati Uniti non hanno risolto la crisi, come si proclamava; ceti medi e proletariato stanno male.
Chi sta bene sono i ricchi e gli arricchiti, i protagonisti del capitalismo internazionalista, i gruppi finanziari e le grandi imprese che saccheggiano il risparmio, investono dove conviene al profitto, sfruttano gli immigrati a basso costo, senza preoccuparsi se ciò comporta il declino del loro paese.
Questo tipo di capitalismo internazionalista punta inoltre al dominio mondiale, sostenendo imprese e spese militari abnormi che ricadono sui cittadini. E qui la faccenda inizia a complicarsi. Può accadere una situazione contraria alla tesi dell’economia classica, la quale dava per certo che il profitto dell’impresa rappresentasse un beneficio per la società intera.
Possiamo avere profitto dell’impresa e male della società? Certamente. Ad esempio producendo all’estero o sfruttando gli immigrati. È quello che accade non soltanto negli Stati Uniti, ma in tutto il sistema del capitalismo internazionalista, che esalta la libertà di scambi, trattati, merci, capitali, persone…
Magnifico per il capitale! Ma spesso pernicioso per la gente, il piccolo imprenditore, l’operaio… Da ciò un’opposizione virulenta. Innanzi tutto contro gli incolpevoli immigrati, in secondo luogo contro quei paesi che producono a basso costo ed attirano capitali, o peggio, ci inondano di merci concorrenziali.
Al dunque, si auspica l’avvento di un capitalismo nazionalista. Per fare il bene del proprio paese, per tutelarlo. Come? Limitando le immigrazioni, erigendo frontiere doganali sulle merci straniere; l’attenuazione delle tassazioni è un luogo ricorrente, al pari dell’aiuto alle piccole imprese, della salvezza delle imprese in crisi… E qui insorgono gli interrogativi problematici.
Il grande capitale, “abituato” ad investire e ad impiegare stranieri a minor salario, come reagirà? Di sicuro i lavoratori nazionali, senza o con minor presenza straniera, chiederanno aumenti salariali, i costi di produzione cresceranno, e allora come restare competitivi? Inoltre, se le barriere doganali bloccheranno le merci prodotte all’estero anche con capitali “nostri”, per questi ultimi sarebbe la dissoluzione.
Se d’altro canto si producesse solo per l’interno, la domanda interna basterebbe ad assorbire la produzione? Immaginiamo poi che la Cina si veda tassare le sue esportazioni, come si comporterà quel grande paese? E se la Cina va in difficoltà, non trascinerà il mondo?
Ma tutto questo è poca cosa rispetto all’evento mastodontico che è oggi – e specialmente sarà domani – cagione di uno scombussolamento micidiale: l’economia senza lavoratori!
Possiamo erigere barriere doganali, possiamo limitare l’immigrazione, ma non possiamo arrestare le tecnologie che cancellano il lavoro. È fin troppo facile credere di risolvere la crisi odierna con barriere doganali e limitazione di immigrati. Sono rimedi momentanei. Il punto essenziale è che il lavoro scema per le nuove tecnologie, il che esige una revisione del capitalismo ben al di là delle barriere doganali o umane, che tuttavia segnalano un malessere cruciale: il profitto come scopo assoluto è insostenibile, antisociale, non crea occupazione, semmai sottoccupazione.
In ogni caso, non basteranno le barriere, occorre ridiscutere il profitto al tempo dei robot. Se questa diagnosi non avverrà, ci troveremo un mondo diviso in forze antagoniste, un nazionalismo esacerbato, un “si salvi chi può” a qualsiasi costo. Indubbiamente in tal modo vi sarà il dominio degli Stati più forti o dello Stato più forte, ma le macerie saranno alte almeno quanto la potenza che vincerà (per modo di dire…).
Non c’è dubbio che il capitalismo internazionalista del profitto ad ogni costo, anche impoverendo il proprio o gli altrui paesi, è rovinoso. Non c’è dubbio che i popoli chiedono barricate di protezione contro gli immigrati e le merci straniere competitive perché prodotte da lavoratori poco pagati, e persino con i capitali di chi li importa. Ma queste barriere rischiano di suscitare crisi enormi, e soprattutto di non eliminare il rovello interno ai sistemi produttivi: le tecnologie che creano disoccupazione, contro le quali le barriere esterne non possono alcunché.
Occorre allora rivedere il sistema produttivo e vagliare se non sia il caso che l’economia al tempo dei robot individui il suo fine primario non nella produzione del profitto, ma nella salvaguardia dell’occupazione. Il che non significa assenza di profitto, ma un profitto compatibile con l’occupazione al tempo dei robot. Occupazione che non può essere difesa come avveniva nell’epoca precedente. Se il problema è interno, non valgono le difese esterne.
Ma al di là dell’ipotesi di uno scontro di nazionalismi, possiamo formulare un’ipotesi molto più ottimistica: non quell’ottimismo illusorio che ricopre il malessere odierno, ma una realistica prospettiva positiva. Analizziamola.
Gli Stati Uniti rinunciamo alle enormi spese per controllare il pianeta e accettano un pluralismo di aree di influenza. Non osteggiano la Russia, consentendole un piano di sicurezza con l’Ucraina e la Siria. La Russia, non sentendosi (a torto o a ragione) accerchiata, ristabilisce rapporti commerciali con l’Europa. La NATO, a sua volta rassicurata, smette di temere la Russia. Gli Stati Uniti, riducendo le spese militari esorbitanti, usano il denaro per migliorare i salari; i salari aumentati accrescono la domanda interna salvando il profitto (che, in ogni caso, deve decrescere), si ricostruisce il ceto medio e il benessere degli operai. La Cina favorisce anch’essa il mercato interno e non solo l’esportazione competitiva; idem la Germania. L’immigrazione diventa compatibile e non un modo per affliggere i salari nazionali o per finalità illegali.
Ovviamente gli investimenti nei paesi poveri dovranno continuare ma senza impoverire i cittadini dei paesi più avanzati… Tutto questo all’ombra della rivoluzione tecnologica. Se queste armonizzazioni non avverranno, sarà a rischio la pace che è a fondamento di esse. Rischiamo una lotta tra nazionalismi che produrrà pari danni dell’internazionalismo antinazionale.
Avere la chiarezza degli scopi può aiutare ad evitare gli errori. E gli errori sono: l’internazionalismo antinazionale, oggi; il nazionalismo contro nazionalismo, domani. Se usiamo l’enorme potenza dei mezzi tecnologici a vantaggio di tutti, i robot potranno essere straordinariamente utili. Purché si voglia il vantaggio di tutti. Ottimismo? No, buona volontà. Chi trarrebbe vantaggio dai conflitti?
 

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La società al tempo dei robot https://it.zenit.org/2016/11/08/la-societa-al-tempo-dei-robot/ Tue, 08 Nov 2016 05:44:38 +0000 https://it.zenit.org/?p=91532 L’avvento della robotica suscita un grande interrogativo: sarà al servizio dell’umanità o contro l’umanità?

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Torna di moda la Sociologia. Dopo un lungo periodo in cui sembrava che il centro dell’interesse si rivolgesse all’individuo, oggi si ripresentano fenomeni eminentemente sociali. Da ciò il ritorno della Sociologia. Migrazioni, scontri e incontri delle religioni, disfatta e insorgenza degli Stati nazionali, mutamenti radicali nei sistemi produttivi, con la finanziarizzazione, gli spostamenti degli investimenti e dei capitali, la concorrenzialità planetaria, l’avvento della robotica e dell’intelligenza artificiale, la problematica ambientale…
Di queste novità drammatiche non sempre e non tutti sono consapevoli, e, a quanto pare, la classe politica, economica, intellettuale, insomma la classe dirigente, non sembra in condizioni – o almeno non lo è stata finora – di risolvere tanta complessità. Del resto, è difficilissimo risolverla giacché materia contraddittoria per se stessa.
Inoltre, come avviene, si formano delle ideologie, le quali ritengono di incarnare la soluzione, spesso non curandosi dei possibili effetti perversi anche in presenza delle migliori intenzioni. Di certo vi è che intelligenza artificiale, informatica, robotica muteranno radicalmente i sistemi produttivi. Nella Prima Rivoluzione Industriale l’uomo inventò le macchine e le usò direttamente. Nella Seconda Rivoluzione Industriale l’uomo inventa macchine che dirigono altre macchine. È un cambiamento radicale.
Taluni affermano che, poiché saranno pur sempre gli uomini a gestire le invenzioni, non vi saranno problemi di disoccupazione. I timori della sostituzione dell’uomo con le macchine sarebbero errati come lo furono, durante la Prima Rivoluzione Industriale, i timori dei luddisti, i quali distruggevano le macchine che sopprimevano il lavoro artigianale, il quale – è vero – fu in gran parte eliminato, ma creando un’occupazione alternativa nelle fabbriche.
Di fatto, i paesi più avanzati dominano il mercato mondiale e, attraverso tale dominio, creano occupazione. Tutto risolto? Non è sicuro. Da qualche tempo si fa pressante la problematica dell’innovazione tecnologica. Ne fa cenno Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’, giudicando un danno sociale preferire l’uso delle tecnologie al posto dell’occupazione degli uomini; ne scrivono sociologi e divulgatori scientifici; ne scrivono anche gli organi di stampa. Qualche mese fa la diffusa rivista tedesca Der Spiegel ha svolto l’argomento in toni drammatici.
Insomma, la “robotica” è una questione dominante. Spesso trattata con empirismo riduttivo: una conta delle attività che verrebbero a cessare nel futuro. Cesserebbero gli autisti perché le macchine si guiderebbero da sé, le famiglie affiderebbero ai robot le pulizie di casa e la preparazione dei cibi, i vecchi avrebbero un robot di sostegno, i bambini sarebbero accompagnati a scuola dai robot… per non parlare dei robot nel campo produttivo: il robot pompiere che non teme il calore, il robot che non patisce le vernici… e ancora: la collaborazione tra robotica e corpo umano, o comunque parti meccaniche del corpo umano (ad esempio: sensori che danno l’impressione di possedere un arto mancante), ed inoltrandoci: sostanze che potenziano la mente, ritrovati tecnici che ci traducono all’istante lingue straniere, fusione nucleare, viaggi di colonizzazione spaziale…
La Seconda Rivoluzione Industriale sarà strabiliante. Avremo una intersecazione universalistica di popoli, connessa al mercato mondiale e alla potenza produttiva planetaria. E in antitesi, forme di difesa, di argini, specie da parte dei paesi più deboli che temono di soccombere all’invasione dei paesi più forti o più disperati, e quindi forti dell’esplosione demografica emigrativa. Temi da valutare punto per punto.
Torniamo ai robot. Siamo in presenza di un fenomeno mai verificatosi, occorre ripeterlo perché è decisivo: l’avvento di macchine che dirigono altre macchine, di macchine “interne” all’uomo, paraumane, di entità artificiali intelligenti, aggiuntive ma anche sostitutive dell’intelligenza umana. Al dunque: una società di macchine, con una forza fisica centuplicata rispetto all’uomo e una capacità mentale parallela alla nostra, seppure “disumana” e non autocosciente al modo umano.
L’evento suscita enormi problematiche. A quali scopi condurre queste potentissime entità? Al servizio dell’umanità, ad esempio eliminando la pesantezza del lavoro, oppure contro l’umanità eliminando lavoro e lavoratori? Al riguardo molti sono pessimisti. Luca Cifoni su Il Messaggero scrive che l’immissione dei robot nel ciclo produttivo ha creato due milioni di posti e falciato cinque milioni di lavoratori. A un livello più vasto, Der Spiegel si inoltra in una possibile società senza lavoro umano.
Attenueremo nell’uomo la voglia di pensare delegandola alle macchine persino nella creazione artistica? Si possono stabilire connessioni strabilianti, anche combinatorie di suoni… Creeremo straordinarie macchine che guidano macchine o nefaste macchine sostitutive dell’uomo? L’auspicio è che la “società al tempo dei robot” non sia un’epoca priva dell’uomo! E non si ritengano le invenzioni tecnologiche una imprescindibile forma di evoluzione. È inutile ripetere: i robot li crea l’uomo. Infatti, l’uomo può creare la sua negazione. Sta a noi non distruggerci.
In ogni caso, il robot è destinato ad essere un nostro compagno futuro: amico o nemico, non sappiamo. Dipende da noi, ma dipende anche da “lui”, giacché gli sviluppi di quel che creiamo non sempre vanno nella direzione voluta. Non controlliamo tutto ciò che realizziamo. Abbiamo suscitato una entità fenomenale. A maggior ragione occorre fronteggiarla con una decisa idea dell’uomo che vogliamo essere.

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