Anita Bourdin, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/anitabourdin/ Il mondo visto da Roma Sun, 24 Sep 2017 15:32:19 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.6.2 https://it.zenit.org/wp-content/uploads/sites/2/2020/07/02e50587-cropped-9c512312-favicon_1.png Anita Bourdin, Author at ZENIT - Italiano https://it.zenit.org/author/anitabourdin/ 32 32 Angelus: Papa ricorda la beatificazione del martire americano Stanley Rother https://it.zenit.org/2017/09/24/angelus-papa-ricorda-la-beatificazione-del-martire-americano-stanley-rother/ Sun, 24 Sep 2017 15:32:19 +0000 https://it.zenit.org/?p=106651 Il missionario era stato ucciso “in odium fidei” nel 1981

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Rivolgendosi ai fedeli in piazza San Pietro, papa Francesco ha ricordato dopo l’Angelus di oggi, domenica 24 agosto 2017, la beatificazione avvenuta ieri a Oklahoma City, capoluogo dell’omonimo Stato americano, del sacerdote e martire Stanley Francis Rother (1935-1981).
“Ieri, a Oklahoma City (Stati Uniti d’America), è stato proclamato beato Stanley Francis Rother, sacerdote missionario, ucciso in odio alla fede per la sua opera di evangelizzazione e promozione umana in favore dei più poveri in Guatemala”, ha dichiarato il Pontefice italo-argentino. “Il suo esempio eroico ci aiuti ad essere coraggiosi testimoni del Vangelo, impegnandoci in favore della dignità dell’uomo”, ha esortato.
Stanley Rother, nato il 27 marzo 1935 a Okarche, nello Stato dell’Oklahoma, è stato ucciso all’età di 46 anni da membri degli squadroni della morte nel comune guatemalteco di Santiago Atitlán. Il sacerdote e missionario è stato proclamato beato in quanto martire.
Nato in una famiglia di agricoltori, Stanley Rother è stato ordinato sacerdote il 25 maggio del 1963 per la diocesi di Tulsa (Oklahoma).
Nel 1968 arriva in Guatemala, a Santiago Atitlán, dove inizia la sua attività missionaria in seno ad una piccola équipe, in particolare presso la popolazione indigena degli Tzutuhil. Il suo impegno mira soprattutto a migliorare l’alimentazione e le cure sanitarie, anche attraverso la costruzione di un ospedale.
Rimasto da solo nel 1975, rimane come un “pastore fedele” presso il gregge affidatogli e celebra ogni domenica fino a cinque messe in quattro lingue. I battesimi celebrati da p. Rother sono più di mille ogni anno.
Quando alla fine degli anni ‘70 p. Rother inizia la sua lotta contro le ingiustizie subite dalla popolazione indigena, viene preso di mira assieme ai suoi collaboratori dagli squadroni della morte.
Il 23 ottobre 1980 viene rapito e ucciso un diacono con cui lavora, Gaspar Culan, assieme ad altri due collaboratori. Il 3 gennaio 1981 un catechista della missione, Diego Quic, viene rapito sotto gli occhi di due sacerdoti presenti.
Sotto la pressione dei suoi fedeli, Stanley Rother lascia il Guatemala nel gennaio 1981, per ritornare nell’Oklahoma, dove rimane però solo tre mesi. “Un pastore non può scappare davanti al primo segno di pericolo”, così disse.
Anche se il suo nome appare sulle liste nere dei paramilitari, il sacerdote decide infatti di fare ritorno in Guatemala per la Pasqua. Il 28 luglio dello stesso anno, viene ucciso da alcuni militari. Tre sospetti vengono arrestati il 4 agosto.
Il corpo del martire viene trasferito nella città natia di Okarche, dove viene sepolto. Su richiesta dei suoi ex parrocchiani in Guatemala, il suo cuore viene conservato sotto l’altare della chiesa, dove esercitava il suo ministero sacerdotale.
Il 5 ottobre 2007 viene aperto a livello diocesano il suo processo di beatificazione. Nel luglio 2010 il dossier passa a Roma, alla Congregazione per le cause dei santi. Il 1° dicembre scorso, papa Francesco riconosce il martirio di p. Rother, poiché ucciso “in odium fidei” (in odio alla fede).
La sua beatificazione ha avuto luogo quindi ieri ad Oklahoma City. A presiedere la solenne Messa celebrata nel “Cox Convention Center” della città è stato il prefetto della congregazione romana, il cardinale Angelo Amato.
P. Rother è il primo martire cattolico nato negli USA e il primo sacerdote statunitense ad essere beatificato. (pdm)

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Angelus: "Una salvezza che non è meritata, ma donata" https://it.zenit.org/2017/09/24/angelus-una-salvezza-che-non-e-meritata-ma-donata/ Sun, 24 Sep 2017 10:21:02 +0000 https://it.zenit.org/?p=106639 Parole di papa Francesco alla recita della preghiera mariana di domenica 24 settembre 2017 -- Testo completo

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“Dio non esclude nessuno e vuole che ciascuno raggiunga la sua pienezza”, così ha spiegato papa Francesco, commentando prima della recita dell’Angelus di domenica 24 settembre 2017 la parabola degli operai mandati nella vigna (Matteo 20,1-16).
“Con questa parabola, Gesù vuole aprire i nostri cuori alla logica dell’amore del Padre, che è gratuito e generoso”, ha dichiarato il Pontefice, insistendo sullo “sguardo”, un tema che gli sta molto a cuore.
“Gesù vuole farci contemplare lo sguardo di quel padrone”, “uno sguardo pieno di attenzione” e “che chiama, che invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, perché vuole la vita per ognuno di noi, vuole una vita piena, impegnata, salvata dal vuoto e dall’inerzia”, ha detto Francesco.
Nella sua catechesi, il romano Pontefice ha sottolineato inoltre la logica di “misericordia”. “Egli usa misericordia – non dimenticare questo: Egli usa misericordia –, perdona largamente, è pieno di generosità e di bontà che riversa su ciascuno di noi”, ha dichiarato Jorge Bergoglio. “Questo è l’amore del nostro Dio, del nostro Dio che è Padre”, ha ribadito.
E’ uno sguardo che anche cambia il proprio sguardo, ha aggiunto il Papa, il quale ha concluso la sua catechesi rivolgendosi a Maria, chiedendo che “ci aiuti ad accogliere nella nostra vita la logica dell’amore, che ci libera dalla presunzione di meritare la ricompensa di Dio e dal giudizio negativo sugli altri”. Infatti, la salvezza offerta da Dio è “una salvezza che non è meritata, ma donata”, cioè “gratuita”. (pdm)
Riportiamo di seguito il testo completo delle parole di papa Francesco.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nell’odierna pagina evangelica (cfr Mt 20,1-16) troviamo la parabola dei lavoratori chiamati a giornata, che Gesù racconta per comunicare due aspetti del Regno di Dio: il primo, che Dio vuole chiamare tutti a lavorare per il suo Regno; il secondo, che alla fine vuole dare a tutti la stessa ricompensa, cioè la salvezza, la vita eterna.
Il padrone di una vigna, che rappresenta Dio, esce all’alba e ingaggia un gruppo di lavoratori, concordando con loro il salario di un denaro per la giornata: era un salario giusto. Poi esce anche nelle ore successive – cinque volte, in quel giorno, esce – fino al tardo pomeriggio, per assumere altri operai che vede disoccupati. Al termine della giornata, il padrone ordina che sia dato un denaro a tutti, anche a quelli che avevano lavorato poche ore. Naturalmente, gli operai assunti per primi si lamentano, perché si vedono pagati allo stesso modo di quelli che hanno lavorato di meno. Il padrone, però, ricorda loro che hanno ricevuto quello che era stato pattuito; se poi Lui vuole essere generoso con gli altri, loro non devono essere invidiosi.
In realtà, questa “ingiustizia” del padrone serve a provocare, in chi ascolta la parabola, un salto di livello, perché qui Gesù non vuole parlare del problema del lavoro o del giusto salario, ma del Regno di Dio! E il messaggio è questo: nel Regno di Dio non ci sono disoccupati, tutti sono chiamati a fare la loro parte; e per tutti alla fine ci sarà il compenso che viene dalla giustizia divina – non umana, per nostra fortuna! –, cioè la salvezza che Gesù Cristo ci ha acquistato con la sua morte e risurrezione. Una salvezza che non è meritata, ma donata – la salvezza è gratuita -, per cui «gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20,16).
Con questa parabola, Gesù vuole aprire i nostri cuori alla logica dell’amore del Padre, che è gratuito e generoso. Si tratta di lasciarsi stupire e affascinare dai «pensieri» e dalle «vie» di Dio che, come ricorda il profeta Isaia, non sono i nostri pensieri e non sono le nostre vie (cfr Is 55,8). I pensieri umani sono spesso segnati da egoismi e tornaconti personali, e i nostri angusti e tortuosi sentieri non sono paragonabili alle ampie e rette strade del Signore. Egli usa misericordia – non dimenticare questo: Egli usa misericordia –, perdona largamente, è pieno di generosità e di bontà che riversa su ciascuno di noi, apre a tutti i territori sconfinati del suo amore e della sua grazia, che soli possono dare al cuore umano la pienezza della gioia.
Gesù vuole farci contemplare lo sguardo di quel padrone: lo sguardo con cui vede ognuno degli operai in attesa di lavoro, e li chiama ad andare nella sua vigna. E’ uno sguardo pieno di attenzione, di benevolenza; è uno sguardo che chiama, che invita ad alzarsi, a mettersi in cammino, perché vuole la vita per ognuno di noi, vuole una vita piena, impegnata, salvata dal vuoto e dall’inerzia. Dio che non esclude nessuno e vuole che ciascuno raggiunga la sua pienezza. Questo è l’amore del nostro Dio, del nostro Dio che è Padre.
Maria Santissima ci aiuti ad accogliere nella nostra vita la logica dell’amore, che ci libera dalla presunzione di meritare la ricompensa di Dio e dal giudizio negativo sugli altri.

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La chiamata di Jorge Bergoglio, all’età di 16 anni https://it.zenit.org/2017/09/21/la-chiamata-di-jorge-bergoglio-alleta-di-16-anni/ Thu, 21 Sep 2017 06:00:36 +0000 https://it.zenit.org/?p=106495 “Non so che cosa sia successo”

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“Non so che cosa sia successo.” Il giovane Jorge Mario Bergoglio aveva 16 anni, quando nel 1953 ebbe un’esperienza così decisiva da cambiare per sempre la sua vita e che trasmette ai giovani con discrezione e pudore.
Ieri mercoledì 20 settembre 2017, vigilia della festa dell’apostolo ed evangelista Matteo, il Pontefice ha salutato come di consueto i giovani al termine dell’Udienza generale.
“La sua conversione sia di esempio a voi, cari giovani, per vivere la vita con i criteri della fede”, ha esortato papa Bergoglio.
Papa Francesco non ha mai dimenticato la confessione che cambiò la sua vita proprio il giorno della festa di san Matteo, il 21 settembre del 1953, a Buenos Aires. Nato il 17 dicembre del 1936, non aveva ancora compiuto 17 anni.
Austen Ivereigh racconta l’evento nella sua biografia di papa Francesco, “Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio”.
“Dio ‘lo precede’ il 21 settembre 1953 […]. Scendendo a piedi l’Avenida Rivadavia, passa davanti alla basilica San José (de Flores, ndr.) che conosce bene. Sente uno strano bisogno di entrarci. ‘Sono entrato, sentivo che dovevo entrare — queste cose che tu senti in te senza sapere cosa sono’, spiegherà a padre Isasmendi.”
E l’autore cita tutto il passaggio. “Ho guardato, faceva buio, era un mattino di settembre, forse le ore 9, e ho visto un sacerdote che camminava, non lo conoscevo, non faceva parte dei sacerdoti della parrocchia. E si siede in uno dei confessionali, l’ultimo sulla sinistra quando si guarda l’altare. Non so nemmeno cosa sia successo poi. Avevo l’impressione che qualcuno mi aveva spinto ad entrare nel confessionale. Certo, gli ho raccontato delle cose, mi sono confessato… ma non so cosa sia successo.
“Quando ho finito di confessarmi, ho chiesto al sacerdote da dove veniva, perché non lo conoscevo, e mi ha detto: ‘Vengo da Corrientes e vivo qui molto vicino […]. Vengo a celebrare la Messa qui ogni tanto’. Aveva un cancro — la leucemia — ed è morto l’anno successivo.
“Là, ho saputo che sarei diventato sacerdote. Ne ero più che certo. Invece di uscire con gli altri, sono tornato a casa, perché ero sopraffatto. Dopo, ho proseguito i miei studi e tutto il resto, ma sapevo ora dove andavo.”
“In una lettera del 1990, per descrivere l’esperienza, lui spiega come se fosse stato buttato giù dal suo cavallo”, continua Ivereigh.
“Ma a casa, Jorge Mario non ne parla con nessuno per più di un anno. Ha le idee chiare. Si confiderà a Oscar Crespo, del laboratorio chimico dove lavora: ‘Finirò il liceo professionale con voi, ragazzi, ma non sarò chimico. Sarò sacerdote. Ma non sacerdote in una basilica. Sarò gesuita perché voglio uscire nei quartieri, nelle villas, per essere con la gente.”
Già ci sono quindi le parole chiave della missione di Bergoglio: “uscire”, “con la gente”.
Ha raccontato di aver fatto “l’esperienza della misericordia divina” e di sentirsi “chiamato”, allo stesso modo di san Matteo e di sant’Ignazio di Loyola.
Il Vangelo della festa di san Matteo evoca la chiamata di Gesù e il suo sguardo: “In quel tempo, mentre andava via, Gesù, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.” Il Pontefice è affascinato dallo sguardo di Cristo che si posa su Levi, su lui stesso, su ciascuno. Invita spesso a lasciarsi guardare da Cristo, ad agire sotto lo sguardo di Cristo.
Il suo motto episcopale e papale si spiega in questo modo: “Eligendo atque miserando”, l’elezione, la chiamata di Cristo che fa misericordia, perché il suo discepolo faccia altrettanto.
E quando veniva a Roma e viveva presso la “Casa del Clero” in Via della Scrofa, vicino a San Luigi dei Francesi, gli piaceva andare a contemplare il telo del Caravaggio (1571-1610), “La vocazione di san Matteo”, realizzata tra il 1599 e il 1600 per la cappella Contarelli della medesima chiesa, dove è finora conservata. (pdm)

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Iran: Mons. Gallagher per un miglioramento della situazione dei cattolici https://it.zenit.org/2017/09/18/iran-mons-gallagher-per-un-miglioramento-della-situazione-dei-cattolici/ Mon, 18 Sep 2017 15:45:05 +0000 https://it.zenit.org/?p=106379 Le relazioni tra Roma e Teheran sono buone

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Il Vaticano auspica un miglioramento della situazione dei cattolici, anche se le relazioni diplomatiche tra Roma e Teheran sono “molto buone”. Lo ha dichiarato l’arcivescovo Paul Richard Gallagher“ministro degli Esteri” vaticano, dopo il suo ritorno a Roma da un viaggio di quattro giorni nella Repubblica islamica, così rivela la Radio Vaticana.
Durante la sua permanenza in Iran il segretario per i Rapporti con gli Stati è stato ricevuto dal ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif, con il quale aveva già avuto un colloquio telefonico il 15 novembre 2015, quando il presidente Hassan Rohani cancellò un viaggio in Europa in seguito agli attentati di Parigi. Rohani è stato ricevuto poi in Vaticano il 26 gennaio 2016. Mons. Gallagher ha incontrato anche il ministro per la Cultura e della Guida islamica, Abbas Salehi, così menziona la stessa fonte.
L’arcivescovo inglese ha evocato il suo viaggio in Iran al microfono di Philippa Hitchen dell’emittente vaticana, dichiarando che ha voluto recarsi nel Paese per progredire nei rapporti bilaterali, che sono “molto buoni”, ma anche per progredire nell’agenda a favore dei cristiani, in particolare della comunità latina, che costituiscono una minoranza molto piccola nel Paese.
“Rimangono dei problemi, ma almeno abbiamo rafforzato i legami, le possibilità e modalità per affrontare questi problemi, per discutere, aiutare”, ha detto mons. Gallagher, che ha auspicato un proseguimento del dialogo interreligioso. “E’ evidente che il dialogo interreligioso deve continuare ed è la competenza del Pontificio Consiglio per il Dialogo interreligioso”, ha sottolineato il presule.
Per quanto riguarda un eventuale viaggio di papa Francesco in Iran, l’arcivescovo ha dichiarato che “in realtà non si è parlato di questo”. “Penso — ha detto Gallagher — che le condizioni non sono pronte e che bisogna ancora lavorare per migliorarle”.
Da parte sua, il ministro degli Esteri di Teheran, Zarif, ha dichiarato che l’Iran “rispetta la personalità e le posizioni del Papa”. In un comunicato ha anche sottolineato l’importanza di promuovere delle “soluzioni pacifiche” alle crisi. (pdm)

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Nicaragua: Papa riceve i vescovi in visita “ad limina” https://it.zenit.org/2017/09/17/nicaragua-papa-riceve-i-vescovi-in-visita-ad-limina/ Sun, 17 Sep 2017 17:36:12 +0000 https://it.zenit.org/?p=106349 Era la prima visita dal 2008

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I vescovi del Nicaragua, in visita “ad limina Apostolorum” a Roma, sono stati ricevuti sabato 16 settembre 2017 insieme ad un sacerdote in udienza da papa Francesco nella Biblioteca privata del Palazzo apostolico.
Papa Francesco ha adottato questo nuovo stile di visita “ad limina”: i vescovi seduti in semicerchio attorno al Pontefice, che ascolta e pone domande riguardo alla situazione dei cattolici nel Paese, le preoccupazioni e speranze dei vescovi.
Secondo Aiuto alla Chiesa che Soffre (dati del 2009), il Nicaragua — un Paese dell’America Centrale bagnato dal Pacifico e dal Mar dei Caraibi, e che confina a sud con l’Honduras e al nord col Costa Rica — conta attualmente oltre 5,8 milioni di abitanti, di cui il 96,2% sono cristiani.
Al termine dell’Angelus di domenica 20 dicembre 2015 il Papa aveva espresso il suo sostegno alla collaborazione tra Nicaragua e Costa Rica. “Desidero anche sostenere l’impegno di collaborazione cui sono chiamati il Costa Rica ed il Nicaragua. Auspico che un rinnovato spirito di fraternità rafforzi ulteriormente il dialogo e la cooperazione reciproca, come anche tra tutti i Paesi della Regione”, dichiarò Jorge Bergoglio.
I vescovi del Nicaragua hanno iniziato la loro visita “presso le tombe degli apostoli” Pietro e Paolo lunedì 11 settembre, quando papa Francesco stava ritornando dalla Colombia.
Sono stati ricevuti dai vari dicasteri della Curia romana, tra cui anche i due nuovi, ma anche dal Pontificio Consiglio per la Cultura.
I dieci presuli rappresentano le otto diocesi del Paese latinoamericano: Managua, Estelí, Granada, Jinotega, Juigalpa, León, Matagalpa e Bluefields. Si tratta di:

  • card. Leopoldo José Brenes Solórzano, arcivescovo di Managua;
  • mons. Silvio José Báez Ortega, O.C.D., vescovo ausiliare di Managua;
  • mons. Juan Abelardo Mata Guevara, S.D.B., vescovo di Estelí;
  • mons. Jorge Solórzano Pérez, Vescovo di Granada;
  • mons. Carlos Enrique Herrera Gutiérrez, O.F.M., vescovo di Jinotega;
  • mons. Sócrates René Sándigo Jirón, vescovo di Juigalpa;
  • mons. César Bosco Vivas Robelo, vescovo di León;
  • mons. Rolando José Álvarez Lagos, vescovo di Matagalpa;
  • mons. Paul Erwin Schmitz Simon, O.F.M. Cap., Vescovo tit. di Elepla, Vicario Apostolico di Bluefields
  • mons. David Albin Zywiec Sidor, O.F.M. Cap., vescovo ausiliare di Bluefields.

E’ stata la prima visita “ad limina” dal 2008. I vescovi del Nicaragua erano stati ricevuti da Benedetto XVI, che aveva reso omaggio al loro impegno per i diritti fondamentali e per la giustizia.
Il Paese ha attraversato una grave crisi nel periodo 2010-2011. Vari sacerdoti furono uccisi e anche vescovi ricevettero minacce di morte, tra cui mons. Sándigo e mons. Mata. Avevano inviato un rapporto a Benedetto XVI attraverso la nunziatura apostolica. (pdm)

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Angelus: Il segno del perdono di Dio https://it.zenit.org/2017/09/17/angelus-il-segno-del-perdono-di-dio/ Sun, 17 Sep 2017 10:22:40 +0000 https://it.zenit.org/?p=106328 Parole di papa Francesco all'Angelus di domenica 17 settembre 2017 -- Testo completo

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“Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.” Lo ha sottolineato papa Francesco rivolgendosi ai circa 30.000 pellegrini (dati forniti dalla Gendarmeria vaticana), che oggi, domenica 17 settembre 2017, hanno partecipato in piazza San Pietro alla recita della preghiera dell’Angelus.
“Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale”, ha spiegato il Papa, che ha aggiunto, riferendosi al Vangelo di oggi (Matteo 18,21-35): “devi perdonare sempre”.
“Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno, è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri”, ha avvertito il Pontefice, che concludendo la sua catechesi si è rivolto a Maria.
“La Vergine Maria ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore”, ha detto.
Riportiamo di seguito il testo ufficiale delle parole di papa Francesco.
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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Il brano evangelico di questa domenica (cfr Mt 18,21-35) ci offre un insegnamento sul perdono, che non nega il torto subito ma riconosce che l’essere umano, creato ad immagine di Dio, è sempre più grande del male che commette. San Pietro domanda a Gesù: «Se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (v. 21). A Pietro sembra già il massimo perdonare sette volte a una stessa persona; e forse a noi sembra già molto farlo due volte. Ma Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (v. 22), vale a dire sempre: tu devi perdonare sempre. E lo conferma raccontando la parabola del re misericordioso e del servo spietato, nella quale mostra l’incoerenza di colui che prima è stato perdonato e poi si rifiuta di perdonare.
Il re della parabola è un uomo generoso che, preso da compassione, condona un debito enorme – “diecimila talenti”: enorme – a un servo che lo supplica. Ma quello stesso servo, appena incontra un altro servo come lui che gli deve cento denari – cioè molto meno –, si comporta in modo spietato, facendolo gettare in prigione. L’atteggiamento incoerente di questo servo è anche il nostro quando rifiutiamo il perdono ai nostri fratelli. Mentre il re della parabola è l’immagine di Dio che ci ama di un amore così ricco di misericordia da accoglierci, e amarci e perdonarci continuamente.
Fin dal nostro Battesimo Dio ci ha perdonati, condonandoci un debito insolvibile: il peccato originale. Ma, quella è la prima volta. Poi, con una misericordia senza limiti, Egli ci perdona tutte le colpe non appena mostriamo anche solo un piccolo segno di pentimento. Dio è così: misericordioso. Quando siamo tentati di chiudere il nostro cuore a chi ci ha offeso e ci chiede scusa, ricordiamoci delle parole del Padre celeste al servo spietato: «Io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (vv. 32-33). Chiunque abbia sperimentato la gioia, la pace e la libertà interiore che viene dall’essere perdonato può aprirsi alla possibilità di perdonare a sua volta.
Nella preghiera del Padre Nostro, Gesù ha voluto inserire lo stesso insegnamento di questa parabola. Ha messo in relazione diretta il perdono che chiediamo a Dio con il perdono che dobbiamo concedere ai nostri fratelli: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Il perdono di Dio è il segno del suo straripante amore per ciascuno di noi; è l’amore che ci lascia liberi di allontanarci, come il figlio prodigo, ma che attende ogni giorno il nostro ritorno; è l’amore intraprendente del pastore per la pecora perduta; è la tenerezza che accoglie ogni peccatore che bussa alla sua porta. Il Padre celeste – nostro Padre – è pieno, è pieno di amore e vuole offrircelo, ma non lo può fare se chiudiamo il nostro cuore all’amore per gli altri.
La Vergine Maria ci aiuti ad essere sempre più consapevoli della gratuità e della grandezza del perdono ricevuto da Dio, per diventare misericordiosi come Lui, Padre buono, lento all’ira e grande nell’amore.

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Cipro: Mons. Leopoldo Girelli nominato nunzio apostolico https://it.zenit.org/2017/09/15/cipro-mons-leopoldo-girelli-nominato-nunzio-apostolico/ Fri, 15 Sep 2017 16:36:08 +0000 https://it.zenit.org/?p=106281 Il presule italiano è anche nunzio in Israele

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Anche Cipro ha un nuovo nunzio apostolico. A questo posto delicato, papa Francesco ha infatti nominato oggi, venerdì 15 agosto 2017, il diplomatico italiano. mons. Leopoldo Girelli, 64 anni, nominato solo due giorni fa anche nunzio apostolico in Israele e delegato apostolico a Gerusalemme e in Palestina.
In seguito all’invasione turca del 1974, l’isola è oggi divisa in due repubbliche — greca al sud, turca al nord — e costituisce quindi una zona “calda” dal punto di vista diplomatico.
Nel 2016 il “ministro degli Affari esteri” di papa Francesco, l’arcivescovo Paul Richard Gallagher, ha visitato l’isola per incoraggiare il processo di pace sull’isola.
Anche se da anni in una fase di stallo, i negoziati in vista di una riunificazione dell’isola sono stati rilanciati due anni fa, ma le divisioni tra ciprioti greci e turchi rimangono profonde.
Secondo i dati di Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), i cattolici rappresentano solo l’1,4% della popolazione cipriota, mentre gli ortodossi costituiscono il 66% e i musulmani il 22%.
Nel febbraio del 2014, papa Francesco ha ricevuto in udienza in Vaticano il presidente della Repubblica di Cipro, Nicos Anastasiades. Nel giugno 2010 papa Benedetto XVI aveva visitato l’isola e nel 2012 aveva ricevuto l’allora presidente Demetris Christofias.
Cipro fa parte dell’Unione Europea dal 2004. Anche se la repubblica autoproclamata del Nord non viene riconosciuta dalla comunità internazionale, i suoi abitanti vengono comunque considerati cittadini europei da Bruxelles.
Mons. Girelli era fino al 13 settembre scorso nunzio apostolico a Singapore e delegato apostolico in Malesia e in Brunei, inoltre nunzio apostolico presso l’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (ASEAN), nonché rappresentante pontificio non-residente per il Vietnam.
Girelli, originario di Predore, in provincia di Bergamo, è stato il primo rappresentante pontificio (non-residente) in Vietnam dal 1975. La sua nomina, frutto del Gruppo di lavoro congiunto tra Roma e Hanoi, era il “primo passo” verso una normalizzazione dei rapporti diplomatici tra la Santa Sede e il Vietnam.
Il diplomatico vaticano è stato dal 2006 al 2011 nunzio apostolico in Indonesia e Timor Est. (pdm)

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Papa Francesco: “L’amore di Cristo è più forte del peccato e della morte” https://it.zenit.org/2017/09/13/papa-francesco-lamore-di-cristo-e-piu-forte-del-peccato-e-della-morte/ Wed, 13 Sep 2017 09:34:23 +0000 https://it.zenit.org/?p=106166 Catechesi di mercoledì 13 settembre 2017

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E’ evidente che il Maligno ha voluto dividere il popolo per distruggere l’opera di Dio, ma è altrettanto evidente che l’amore di Cristo, la sua infinita Misericordia è più forte del peccato e della morte.” Lo ha sottolineato papa Francesco nel corso dell’udienza generale di mercoledì 13 settembre 2017, durante la quale ha tracciato come di consueto un bilancio del suo recente viaggio in Colombia, svoltosi dal 6 all’11 settembre scorsi.
Con tutto il cuore ringrazio il Signore per questo grande dono”, ha detto il Pontefice, il viso ancora segnato da un vistoso ematoma sotto l’occhio sinistro, procuratosi l’ultimo giorno del suo viaggio, quando a Cartagena ha sbattuto la testa nella Papamobile.
“Con la mia visita ho voluto benedire lo sforzo di quel popolo, confermarlo nella fede e nella speranza, e ricevere la sua testimonianza, che è una ricchezza per il mio ministero e per tutta la Chiesa”, ha spiegato Francesco, che ha ricordato il lemma del viaggio, “Demos el primer paso” (Facciamo il primo passo), un riferimento “al processo di riconciliazione che la Colombia sta vivendo per uscire da mezzo secolo di conflitto interno”.
“Ho voluto benedire lo sforzo di quel popolo, confermarlo nella fede e nella speranza, e ricevere la sua testimonianza, che è una ricchezza per il mio ministero e per tutta la Chiesa”, ha proseguito Francesco.
Il fatto che la Colombia è un Paese in cui le radici cristiane sono “fortissime”, “rende ancora più acuto il dolore per la tragedia della guerra che l’ha lacerato, al tempo stesso costituisce la garanzia della pace, il saldo fondamento della sua ricostruzione, la linfa della sua invincibile speranza”, ha affermato il Papa.
Perciò, l’obiettivo del viaggio è stato “portare la benedizione di Cristo, la benedizione della Chiesa sul desiderio di vita e di pace che trabocca dal cuore di quella Nazione”, ha spiegato Francesco, che ha ricordato i momenti più significativi della sua permanenza sul suolo colombiano, tra cui la beatificazione di due martiri e l’incontro di preghiera per la riconciliazione, entrambe avvenute venerdì 8 settembre a Villavicencio.
“La beatificazione dei due Martiri ha ricordato plasticamente che la pace è fondata anche, e forse soprattutto, sul sangue di tanti testimoni dell’amore, della verità, della giustizia, e anche di martiri veri e propri, uccisi per la fede”, ha spiegato il Papa, che ha rievocato anche la sua visita alla casa di accoglienza “Hogar San José” per “bambini e i ragazzi feriti dalla vita” a Medellín e poi la sosta presso la tomba di san Pietro Claver a Cartagena.
L’esempio di Claver, “apostolo degli schiavi”, ha mostrato “la via della vera rivoluzione, quella evangelica, non ideologica, che libera veramente le persone e le società dalle schiavitù di ieri e, purtroppo, anche di oggi”, così ha detto il Papa, che al termine della sua catechesi ha affidato “nuovamente la Colombia e il suo amato popolo alla Madre, Nostra Signora di Chiquinquirá, che ho potuto venerare nella cattedrale di Bogotá”. (pdm)
Cliccare qui per leggere il testo completo della catechesi.

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Colombia: “Alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro” https://it.zenit.org/2017/09/11/colombia-alla-cultura-della-morte-della-violenza-rispondiamo-con-la-cultura-della-vita-dellincontro/ Sun, 10 Sep 2017 23:31:48 +0000 https://it.zenit.org/?p=106065 Omelia a Cartagena -- Testo completo

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“Alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro”, ha esortato papa Francesco durante la Messa di domenica 10 settembre 2017, celebrata nel container terminal del porto di Cartagena, Contecar (“Terminal de Contenedores de Cartagena”), la tappa conclusiva del suo viaggio apostolico in Colombia.
Questa sera, alle 19 ora locale (le 02.00 a Roma), il Papa lascerà Cartagena e la Colombia a bordo di un Boeing 787 “Dreamliner” della compagnia Avianca per ritornare a Roma.
Obiettivo del viaggio apostolico impegnativo era rafforzare il processo di pace tra il governo di Bogotá e la guerriglia dopo più di mezzo secolo di conflitto, che — non dimentichiamo — ha causato oltre 8 milioni di vittime (in senso ampio) tra sfollati interni (7 milioni), feriti, mutilati e morti.
Per realizzare questa riconciliazione, il Papa ha proposto l’incontro. “Noi — così ha sottolineato — possiamo dare un grande contributo a questo nuovo passo che la Colombia vuole fare. Gesù ci indica che questo cammino di reinserimento nella comunità comincia con un dialogo a due. Nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare.”
“Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini.”, ha proseguito Jorge Bergoglio, che ha lanciato un appello improvvisato — molto applaudito — per lottare efficacemente contro il narcotraffico.
“Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane”, ha continuato il Pontefice argentino. “A noi è richiesto di generare ‘a partire dal basso’ un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondiamo con la cultura della vita, dell’incontro”.
Al termine della sua omelia, Francesco ha rammentato il tema generale del suo viaggio, spiegando che “fare il primo passo” è soprattutto “andare incontro agli altri con Cristo, il Signore”. (pdm)
Cartagena, Messa, 10 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

Cartagena, Messa, 10 settembre 2017 / © PHOTO.VA – OSSERVATORE ROMANO

 
Riprendiamo la traduzione ufficiale dell’omelia del Santo Padre.
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“Dignità della persona e diritti umani”

In questa città, che è stata chiamata “l’eroica” per la sua tenacia 200 anni fa nel difendere la libertà ottenuta, celebro l’ultima Eucaristia di questo viaggio. Inoltre, da 32 anni, Cartagena de Indias è in Colombia la sede dei diritti umani, perché qui come popolo si stima che «grazie al gruppo missionario formato dai sacerdoti gesuiti Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval e il fratello Nicolás González, accompagnati da molti figli della città di Cartegena de Indias nel secolo XVII, nacque la preoccupazione per alleviare la situazione degli oppressi dell’epoca, essenzialmente quella degli schiavi, per i quali reclamarono il rispetto e la libertà» (Congresso della Colombia, 1985, legge 95, art. 1).
Qui, nel Santuario di san Pietro Claver, dove in maniera continua e sistematica si attua il riscontro, la riflessione e il perseguimento dei progressi e del vigore dei diritti umani in Colombia, oggi la Parola di Dio ci parla di perdono, correzione, comunità e preghiera.
Nel quarto discorso del Vangelo di Matteo, Gesù parla a noi, che abbiamo deciso di puntare sulla comunità, che apprezziamo la vita in comune e sogniamo un progetto che includa tutti. Il testo che precede è quello del pastore buono che lascia le 99 pecore per andare dietro a quella perduta, e quell’aroma profuma tutto il discorso che abbiamo appena ascoltato: non c’è nessuno talmente perduto che non meriti la nostra sollecitudine, la nostra vicinanza e il nostro perdono. Da questa prospettiva, si capisce dunque che una mancanza, un peccato commesso da uno, ci interpella tutti ma coinvolge, prima di tutto, la vittima del peccato del fratello; e costui è chiamato a prendere l’iniziativa perché chi gli fatto del male non si perda. Prendere l’iniziativa: chi prende l’iniziativa è sempre il più coraggioso.
In questi giorni ho sentito tante testimonianze di persone che sono andate incontro a coloro che avevano fatto loro del male. Ferite terribili che ho potuto contemplare nei loro stessi corpi; perdite irreparabili che ancora fanno piangere, e tuttavia queste persone sono andate, hanno fatto il primo passo su una strada diversa da quelle già percorse. Perché la Colombia da decenni sta cercando la pace per tentativi e, come insegna Gesù, non è stato sufficiente che due parti si avvicinassero, dialogassero; c’è stato bisogno che si inserissero molti altri attori in questo dialogo riparatore dei peccati. «Se [il tuo fratello] non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone» (Mt 18,16), ci dice il Signore nel Vangelo.
Abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. Gesù trova la soluzione al male compiuto nell’incontro personale tra le parti. Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva. «L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite – tutta la gente e la sua cultura –. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 239).
Noi possiamo dare un grande contributo a questo nuovo passo che la Colombia vuole fare. Gesù ci indica che questo cammino di reinserimento nella comunità comincia con un dialogo a due. Nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare. Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini. Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane. A noi cristiani è richiesto di generare “a partire dal basso” un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondere con la cultura della vita e dell’incontro. Ce lo diceva già quello scrittore così vostro e così di tutti: «Questo disastro culturale non si rimedia né col piombo né coi soldi, ma con una educazione alla pace, costruita con amore sulle macerie di un paese infiammato dove ci alziamo presto per continuare ad ammazzarci a vicenda… una legittima rivoluzione di pace che canalizzi verso la vita l’immensa energia creatrice che per quasi due secoli abbiamo usato per distruggerci e che rivendichi ed esalti il predominio dell’immaginazione» (Gabriel García Marquez, Messaggio sulla pace, 1998).
Quanto abbiamo agito in favore dell’incontro, della pace? Quanto abbiamo omesso, permettendo che la barbarie si facesse carne nella vita del nostro popolo? Gesù ci comanda di confrontarci con quei modelli di comportamento, quegli stili di vita che fanno male al corpo sociale, che distruggono la comunità. Quante volte si “normalizzano” – si vivono come cose normali – processi di violenza, esclusione sociale, senza che la nostra voce si alzi né le nostre mani accusino profeticamente! Accanto a san Pietro Claver c’erano migliaia di cristiani, molti di loro consacrati; ma solo un pugno di persone iniziò una corrente contro-culturale di incontro. San Pietro Claver seppe restaurare la dignità e la speranza di centinaia di migliaia di neri e di schiavi che arrivavano in condizioni assolutamente disumane, pieni di terrore, con tutte le loro speranze perdute. Non possedeva titoli accademici rinomati; si arrivò persino ad affermare che era “mediocre” di ingegno, ma ebbe il “genio” di vivere pienamente il Vangelo, di incontrarsi con quelli che altri consideravano solo uno scarto. Secoli più tardi, l’impronta di questo missionario e apostolo della Compagnia di Gesù è stata seguita da santa María Bernarda Bütler, che dedicò la sua vita al servizio dei poveri e degli emarginati in questa stessa città di Cartagena.[1]
Nell’incontro tra di noi riscopriamo i nostri diritti, ricreiamo la vita perché torni ad essere autenticamente umana. «La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ogni vita umana, di ogni uomo e di ogni donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata» (Discorso alle Nazioni Unite, 25 settembre 2015).
Gesù, nel Vangelo, ci fa presente anche la possibilità che l’altro si chiuda, si rifiuti di cambiare, persista nel suo male. Non possiamo negare che ci sono persone che persistono in peccati che feriscono la convivenza e la comunità: «Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili». Questo male minaccia direttamente la dignità della persona umana e spezza progressivamente l’immagine che il Creatore ha plasmato in noi. Condanno fermamente questa piaga che ha spento tante vite e che è mantenuta e sostenuta da uomini senza scrupoli. Non si può giocare con la vita del nostro fratello, né manipolare la sua dignità. Faccio appello affinché si cerchino i modi per porre fine al narcotraffico, che non fa che seminare morte dappertutto stroncando tante speranze e distruggendo tante famiglie. Penso anche a un altro dramma: «alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014); e persino si specula con una “asettica legalità” pacifista che non tiene conto della carne del fratello, che è la carne di Cristo. Anche per questo dobbiamo essere preparati e saldamente posizionati su principi di giustizia che non tolgano nulla alla carità. Non è possibile convivere in pace senza avere a che fare con ciò che corrompe la vita e attenta contro di essa. A questo proposito, ricordiamo tutti coloro che, con coraggio e senza stancarsi, hanno lavorato e hanno persino perso la vita nella difesa e protezione dei diritti della persona umana e della sua dignità. Come a loro, la storia chiede a noi di assumere un impegno definitivo in difesa dei diritti umani, qui, a Cartagena de Indias, luogo che voi avete scelto come sede nazionale della loro tutela.
Infine Gesù ci chiede di pregare insieme; che la nostra preghiera sia sinfonica, con toni personali, accenti diversi, ma che levi in modo concorde un unico grido. Sono sicuro che oggi preghiamo insieme per il riscatto di coloro che sono stati nell’errore, e non per la loro distruzione, per la giustizia e non per la vendetta, per la riparazione nella verità e non nella dimenticanza. Preghiamo per realizzare il motto di questa visita: «Facciamo il primo passo!», e che questo primo passo sia in una direzione comune.
“Fare il primo passo” è, soprattutto, andare incontro agli altri con Cristo, il Signore. Ed Egli ci chiede sempre di fare un passo deciso e sicuro verso i fratelli, rinunciando alla pretesa di essere perdonati senza perdonare, di essere amati senza amare. Se la Colombia vuole una pace stabile e duratura, deve fare urgentemente un passo in questa direzione, che è quella del bene comune, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura umana e delle sue esigenze. Solo se aiutiamo a sciogliere i nodi della violenza, districheremo la complessa matassa degli scontri: ci è chiesto di far il passo dell’incontro con i fratelli, avendo il coraggio di una correzione che non vuole espellere ma integrare; ci è chiesto di essere, con carità, fermi in ciò che non è negoziabile; in definitiva, l’esigenza è costruire la pace, «parlando non con la lingua ma con le mani e le opere» (San Pietro Claver), e alzare insieme gli occhi al cielo: Lui è capace di sciogliere quello che a noi appare impossibile, Lui ci ha promesso di accompagnarci sino alla fine dei tempi, e Lui non lascerà sterile uno sforzo così grande.

***

Congedo al termine della S. Messa
Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare Mons. Jorge Enrique Jiménez Carvajal, Arcivescovo di Cartegena, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome dei fratelli nell’episcopato e di tutto il popolo di Dio.
Ringrazio il Signor Presidente Juan Manuel Santos per il suo invito a visitare il Paese, le Autorità civili, e tutti coloro che hanno voluto unirsi a noi in questa celebrazione eucaristica, qui o attraverso i mezzi di comunicazione.
Ringrazio dell’impegno e della collaborazione che hanno reso possibile questa visita. Sono tanti quelli che hanno collaborato offrendo il proprio tempo e la propria disponibilità. Sono state giornate intense e belle, nelle quali ho potuto incontrare tante persone e conoscere tante realtà che mi hanno toccato il cuore. Voi mi avete fatto tanto bene!
Cari fratelli, vorrei lasciarvi un’ultima parola: non fermiamoci a “fare il primo passo”, ma continuiamo a camminare insieme ogni giorno per andare incontro all’altro, nella ricerca dell’armonia e della fraternità. Non possiamo fermarci. L’8 settembre 1654 moriva proprio qui san Pietro Claver; dopo quarant’anni di schiavitù volontaria, di instancabile lavoro in favore dei più poveri. Egli non rimase fermo, dopo il primo passo ne seguirono altri e altri ancora. Il suo esempio ci fa uscire da noi stessi e andare incontro al prossimo. Colombia, il tuo fratello ha bisogno di te, vagli incontro portando l’abbraccio di pace, libera da ogni violenza, “schiavi della pace, per sempre”.
*
NOTE
[1] Anch’essa ebbe l’intelligenza della carità e seppe trovare Dio nel prossimo; nessuno dei due si paralizzò davanti all’ingiustizia e alle difficoltà. Perché «di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 227).

© Copyright – Libreria Editrice Vaticana

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Medellín: “Rimanere in Lui” https://it.zenit.org/2017/09/10/medellin-rimanere-in-lui/ Sun, 10 Sep 2017 09:24:29 +0000 https://it.zenit.org/?p=106008 Incontro con sacerdoti, religiosi/e, consacrati/e, seminaristi e familiari -- Testo completo

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Durante l’incontro con i sacerdoti, religiosi/e, consacrati/e, seminaristi e le loro famiglie di provenienza, avvenuto sabato 9 settembre 2017 nello Stadio Coperto “La Macarena” di Medellín, in Colombia, papa Francesco ha spiegato ai presenti come “rimanere in Gesù”, la chiave del segreto della “gioia” cristiana.
Sul podio era esposta la teca con le reliquie della prima santa colombiana, Laura di Santa Caterina da Siena (al secolo Maria Laura Montoya y Upeguí, 1874–1949), canonizzata dallo stesso papa Francesco il 12 maggio 2013. Il Santo Padre l’ha definita “una religiosa mirabile”, che da Medellín “si è prodigata in una grande opera missionaria in favore degli indigeni di tutto il Paese”.
Ad accogliere il Pontefice è stato il vescovo ausiliare di Medellín, mons. Elkin Fernando Alvarez Botero, incaricato in seno alla Conferenza Episcopale Colombiana (CEC) della pastorale delle vocazioni. Durante l’incontro ci sono state le testimonianze di un sacerdote, di una religiosa contemplativa e di una famiglia.
A tutti il Papa ha raccomandato di “rimanere in Lui”, “in Gesù”. Tre le vie, così ha spiegato: “toccando l’umanità di Cristo”, “contemplando la sua divinità” e “in Cristo per vivere nella gioia”.
Al termine del suo discorso ha chiesto a tutti di pregare per lui, perché — così ha spiegato — “benedica anche me”.
Il Papa aveva donato al seminario di Medellín, dove ha pranzato, un quadro del pittore italiano Piero Casentini, rappresentando la pesca miracolosa (2009).
Medellin, Incontro religiosi, 9 settembre 2017 / © PHOTO.VA - OSSERVATORE ROMANO

Medellin, Incontro religiosi, 9 settembre 2017 / © PHOTO.VA – OSSERVATORE ROMANO

Riportiamo di seguito la traduzione ufficiale delle parole del Papa. 
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Cari fratelli Vescovi,
cari sacerdoti, consacrati, consacrate, seminaristi,
care famiglie, cari amici colombiani!

L’allegoria della vera vite, che abbiamo appena ascoltato dal Vangelo di Giovanni, si colloca nel contesto dell’Ultima Cena di Gesù. In quel clima di intimità, di una certa tensione ma carica di amore, il Signore lavò i piedi dei suoi, volle perpetuare la sua memoria nel pane e nel vino, e inoltre parlò dal profondo del suo cuore a quelli che più amava.
In quella prima sera “eucaristica”, in quel primo tramonto del sole dopo il gesto di servizio, Gesù apre il suo cuore; consegna loro il suo testamento. E come in quel cenacolo continuarono poi a riunirsi gli Apostoli, con alcune donne e Maria, la Madre di Gesù (cfr At 1,13-14), così oggi qui in questo luogo ci siamo riuniti per ascoltarlo, e per ascoltarci. Suor Leidy di San Giuseppe, María Isabel e padre Juan Felipe ci hanno dato la loro testimonianza; anche ognuno di noi che siamo qui potrebbe raccontare la propria storia vocazionale. E tutti avremmo in comune l’esperienza di Gesù che ci viene incontro, ci precede e in questo modo ci ha “catturato” il cuore. Come dice il Documento di Aparecida: «Conoscere Gesù è il più bel regalo che qualunque persona può ricevere; averlo incontrato è per noi la cosa migliore che ci è capitata nella vita, e farlo conoscere con le nostre parole e opere è per noi una gioia», la gioia di evangelizzare (n. 29).
Molti di voi, giovani, avete scoperto questo Gesù vivo nelle vostre comunità; comunità con un fervore apostolico contagioso, che entusiasmano e suscitano attrazione. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, nascono vocazioni genuine; la vita fraterna e fervente della comunità è quella che suscita il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 107). I giovani sono per natura inquieti, in ricerca – o mi sbaglio? –. E qui voglio fermarmi un momento e fare una memoria dolorosa. E’ una parentesi, questa. I giovani sono naturalmente inquieti, inquietudine tante volte ingannata, distrutta dai sicari della droga. Medellín mi porta questo ricordo, mi evoca tante vite giovani stroncate, scartate, distrutte. Vi invito a ricordare, ad accompagnare questo luttuoso corteo, a chiedere perdono per chi ha distrutto le aspirazioni di tanti giovani, chiedere al Signore che converta i loro cuori, che abbia fine questa sconfitta dell’umanità giovane. I giovani sono per natura inquieti, in ricerca, e, benché assistiamo a una crisi dell’impegno e dei legami comunitari, sono molti i giovani che si mobilitano insieme di fronte ai mali del mondo e si dedicano a diverse forme di militanza e di volontariato. Sono molti. E alcuni, sì, sono cattolici praticanti, molti sono cattolici “all’acqua di rose”, come diceva mia nonna; altri non sanno se credono o non credono… Ma questa inquietudine li porta a fare qualcosa per gli altri, questa inquietudine riempie il volontariato di tutto il mondo di volti giovani. Bisogna incanalare l’inquietudine. Quando lo fanno per amore di Gesù, sentendosi parte della comunità, diventano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra (cfr ibid., 107). E quanti, senza sapere che lo stanno portando, lo portano! E’ questa ricchezza di andare per le strade servendo, di essere viandanti di una fede che forse loro stessi non capiscono del tutto; è testimonianza, testimonianza che ci apre all’azione dello Spirito Santo che entra e lavorerà nei nostri cuori.
In uno dei viaggi della Giornata della Gioventù in Polonia [Cracovia 2016], in un pranzo che ho fatto con i giovani – con 15 giovani e l’Arcivescovo – uno mi ha chiesto: “Cosa posso dire a un mio compagno, giovane, che è ateo, che non crede? Che argomenti posso portargli?”. E mi è venuto spontaneo rispondergli: “Guarda, l’ultima cosa che devi fare è dirgli qualcosa!”. E’ rimasto sorpreso. Comincia a fare, comincia a comportarti in maniera tale che l’inquietudine che lui ha dentro di sé lo renda curioso e ti domandi; e quando ti chiede la tua testimonianza, lì puoi incominciare a dire qualcosa. E’ tanto importante questo essere viandanti, viandanti della fede, viandanti della vita.
La vite a cui si riferisce Gesù, nel testo che è stato proclamato, è la vite che è tutto il “popolo dell’alleanza”. Profeti come Geremia, Isaia ed Ezechiele si riferiscono ad esso paragonandolo a una vite; e anche un salmo, l’80, canta dicendo: «Hai sradicato una vite dall’Egitto […]. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra» (vv. 9-10). A volte esprimono la gioia di Dio per la sua vite, altre volte la sua collera, la delusione o il dispetto […]; mai, mai Dio si disinteressa della sua vite, mai smette di soffrire per i suoi allontanamenti – se io mi allontano Lui soffre nel suo cuore – mai smette di andare incontro a questo popolo che, quando si separa da Lui si secca, brucia e si distrugge.
Com’è la terra, il nutrimento, il sostegno dove cresce questa vite in Colombia? In quali contesti si generano i frutti delle vocazioni di speciale consacrazione? Sicuramente in ambienti pieni di contraddizioni, di chiaroscuri, di situazioni relazionali complesse. Ci piacerebbe avere a che fare con un mondo, con famiglie e legami più sereni, ma siamo dentro questo cambiamento epocale, questa crisi culturale, e in mezzo ad essa, tenendo conto di essa, Dio continua a chiamare. E non venite qui a raccontarmi: “No, certo, non ci sono tante vocazioni di speciale consacrazione, perché, è chiaro, con questa crisi che stiamo vivendo…”. Sapete cos’è questa? E’ una favoletta! Chiaro? Anche in mezzo a questa crisi, Dio continua a chiamare. Sarebbe quasi illusorio pensare che tutti voi avete ascoltato la chiamata del Signore all’interno di famiglie sostenute da un amore forte e pieno di valori come la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza (cfr Esort. ap. Amoris laetitia, 5). Alcuni sì, ma non tutti. Alcune famiglie, Dio voglia molte, sono così. Ma tenere i piedi per terra vuol dire riconoscere che i nostri percorsi vocazionali, il sorgere della chiamata di Dio, ci trova più vicino a ciò che riporta la Parola di Dio e che ben conosce la Colombia: «un sentiero di sofferenza e di sangue […] la violenza fratricida di Caino su Abele e i vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato» (ibid., 20). E fin dall’inizio è stato così: non pensate alla situazione ideale, questa è la situazione reale. Dio manifesta la sua vicinanza e la sua elezione dove vuole, nella terra che vuole, così com’è in quel momento, con le contraddizioni concrete, come Lui vuole. Egli cambia il corso degli avvenimenti chiamando uomini e donne nella fragilità della storia personale e comunitaria di ciascuno. Non abbiamo paura in di questa terra complessa. Ieri sera, una ragazza con capacità speciali, nel gruppo che mi ha dato il benvenuto, che mi ha accolto alla Nunziatura, ha detto che nel nucleo dell’umano c’è la vulnerabilità, e spiegava perché. E mi è venuto in mente di chiederle: “Siamo tutti vulnerabili? – “Sì, tutti” – “Ma c’è qualcuno che non è vulnerabile?”. E lei ha risposto: “Dio”. Ma Dio ha voluto farsi vulnerabile, ha voluto uscire a camminare con noi per la strada, vivere la nostra storia così com’era; ha voluto farsi uomo in mezzo a una contraddizione, in mezzo a qualcosa di incomprensibile, con il consenso di una ragazza che non comprendeva ma obbedisce e di un uomo giusto che ha seguito quello che gli era stato comandato; ma tutto questo in mezzo a tante contraddizioni. Non abbiamo paura in questa terra complessa! Dio ha sempre fatto il miracolo di generare buoni grappoli, come le buone focacce a colazione. Che non manchino vocazioni in nessuna comunità, in nessuna famiglia di Medellín! E quando a colazione trovate una di queste belle sorprese, dite: “Ah, che bello! E Dio è capace di fare qualcosa con me?”. Chiedetevelo, prima di mangiarla! Chiedetevelo.
E questa vite – che è quella di Gesù – ha la caratteristica di essere quella vera. Egli ha già utilizzato questo aggettivo in altre occasioni nel Vangelo di Giovanni: la luce vera, il vero pane del cielo, la vera testimonianza. Ora, la verità non è qualcosa che riceviamo – come il pane o la luce – ma qualcosa che scaturisce dall’interno. Siamo popolo eletto per la verità, e la nostra chiamata dev’essere nella verità. Se siamo tralci di questa vite, se la nostra vocazione è innestata in Gesù, non c’è posto per l’inganno, la doppiezza, le scelte meschine. Tutti dobbiamo essere attenti affinché ogni tralcio serva a ciò per cui è stato pensato: per portare frutto. Io, sono pronto a portare frutto? Fin dall’inizio, coloro a cui spetta il compito di accompagnare i percorsi vocazionali, dovranno motivare la retta intenzione, cioè il desiderio autentico di configurarsi a Gesù, il pastore, l’amico, lo sposo. Quando i percorsi non sono alimentati da questa vera linfa che è lo Spirito di Gesù, allora facciamo esperienza dell’aridità e Dio scopre con tristezza quei polloni già morti. Le vocazioni di speciale consacrazione muoiono quando vogliono nutrirsi di onori, quando sono spinte dalla ricerca di una tranquillità personale e di promozione sociale, quando la motivazione è “salire di categoria”, attaccarsi a interessi materiali, che arrivano anche all’errore della brama di guadagno. L’ho già detto in altre occasioni, e voglio ripeterlo come qualcosa che è vero e sicuro, non dimenticatelo: il diavolo entra dal portafoglio. Sempre. Questo non riguarda solo gli inizi, tutti dobbiamo stare attenti, perché la corruzione negli uomini e nelle donne che sono nella Chiesa comincia così, poco a poco, e poi – lo dice Gesù stesso – mette radici nel cuore e finisce per allontanare Dio dalla propria vita. «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). Gesù dice: “Non si può servire due signori”. Due signori: è come se ci fossero due signori nel mondo. Non si può servire Dio e il denaro. Gesù dà il titolo di “signore” al denaro. Che cosa vuol dire? Che se ti prende non ti lascia andare: sarà il tuo signore partendo dal tuo cuore. Attenzione! Non possiamo approfittare della nostra condizione religiosa e della bontà della nostra gente per essere serviti e ottenere benefici materiali.
Ci sono situazioni, atteggiamenti e scelte che mostrano i segni dell’aridità e della morte – quando avviene questo? -: non possono continuare a rallentare il flusso della linfa che nutre e dà vita! Il veleno della menzogna, delle cose nascoste, della manipolazione e dell’abuso del popolo di Dio, dei più fragili e specialmente degli anziani e dei bambini non può trovare spazio nella nostra comunità. Quando un consacrato o una consacrata o una comunità, un’istituzione – che sia la parrocchia o qualsiasi – sceglie di seguire questo stile, è un ramo secco; bisogna solo sedersi e aspettare che Dio venga a tagliarlo.
Ma Dio non solo taglia; l’allegoria continua dicendo che Dio pota la vite dalle imperfezioni. E’ così bella la potatura! Fa male però è bella. La promessa è che daremo frutto, e in abbondanza, come il chicco di grano, se siamo capaci di donarci, di dare liberamente la vita. In Colombia abbiamo esempi del fatto che questo è possibile. Pensiamo a santa Laura Montoya, una religiosa mirabile le cui reliquie sono qui. Lei da questa città si è prodigata in una grande opera missionaria in favore degli indigeni di tutto il Paese. Quanto ci insegna questa donna consacrata nella dedizione silenziosa, vissuta con abnegazione, senza altro interesse che manifestare il volto materno di Dio! E così possiamo ricordare il beato Mariano di Gesù Euse Hoyos, uno dei primi alunni del Seminario di Medellín, e altri sacerdoti e religiose colombiani, i cui processi di canonizzazioni sono stati introdotti; come pure tanti altri, migliaia di colombiani anonimi che nella semplicità della loro vita quotidiana hanno saputo donarsi per il Vangelo e di cui voi sicuramente conserverete la memoria e vi saranno stimolo di dedizione. Tutti ci mostrano che è possibile seguire fedelmente la chiamata del Signore, che è possibile portare molto frutto, anche adesso, in questo tempo e in questo luogo.
La buona notizia è che Lui è disposto a purificarci; la buona notizia è che non siamo ancora “finiti”, siamo ancora nel “processo di fabbricazione” e come buoni discepoli siamo in cammino. E in che modo Gesù taglia i fattori di morte che attecchiscono nella nostra vita e distorcono la chiamata? Invitandoci a rimanere in Lui; rimanere non significa solamente stare, bensì indica mantenere una relazione vitale, esistenziale, assolutamente necessaria; è vivere e crescere in unione feconda con Gesù, fonte di vita eterna. Rimanere in Gesù non può essere un atteggiamento meramente passivo o un semplice abbandono senza conseguenze nella vita quotidiana. C’è sempre una conseguenza, sempre. E permettetemi di proporvi – perché sta diventando un po’ lungo… [gridano: “No!”] Naturalmente non direte “sì”, e allora non vi credo! – permettetemi di proporvi tre modi di rendere effettivo questo rimanere, che vi possono aiutare a rimanere in Gesù.
1. Rimaniamo in Gesù toccando l’umanità di Gesù
Con lo sguardo e i sentimenti di Gesù, che contempla la realtà non come giudice, ma come buon samaritano; che riconosce i valori del popolo con cui cammina, come pure le sue ferite e i suoi peccati; che scopre la sofferenza silenziosa e si commuove davanti alle necessità delle persone, soprattutto quando queste si trovano succubi dell’ingiustizia, della povertà disumana, dell’indifferenza, o dell’azione perversa della corruzione e della violenza.
Con i gesti e le parole di Gesù, che esprimono amore ai vicini e ricerca dei lontani; tenerezza e fermezza nella denuncia del peccato e nell’annuncio del Vangelo; gioia e generosità nella dedizione e nel servizio, soprattutto ai più piccoli, respingendo con forza la tentazione di dare tutto per perduto, di accomodarci o di diventare solo amministratori di sventure. Quante volte ascoltiamo uomini e donne consacrati, che sembra che invece di amministrare gioia, crescita, vita, amministrano disgrazie, e passano il tempo a lamentarsi delle disgrazie di questo mondo. E’ la sterilità, la sterilità di chi è incapace di toccare la carne sofferente di Gesù.
2. Rimaniamo contemplando la sua divinità
Suscitando e sostenendo la stima per lo studio che accresce la conoscenza di Cristo, perché, come ricorda sant’Agostino, non si può amare chi non si conosce (cfr La Trinità, Libro X, cap. I, 3).
Privilegiando per questa conoscenza l’incontro con la Sacra Scrittura,  specialmente con il Vangelo, dove Cristo ci parla, ci rivela il suo amore incondizionato al Padre, ci contagia la gioia che sgorga dall’obbedienza alla sua volontà e dal servizio ai fratelli. Voglio farvi una domanda, ma non rispondete, ognuno risponde per conto suo. Quanti minuti o quante ore io leggo il Vangelo o la Scrittura ogni giorno? Datevi la risposta. Chi non conosce le Scritture, non conosce Gesù. Chi non ama le Scritture, non ama Gesù (cfr Girolamo, Prologo al commento sul profeta Isaia: PL 24, 17). Diamo tempo a una lettura orante della Parola!, ad ascoltare in essa che cosa Dio vuole per noi e per il nostro popolo.
Che tutto il nostro studio ci aiuti ad essere capaci di interpretare la realtà con gli occhi di Dio; che non sia uno studio evasivo rispetto a ciò che vive la nostra gente e neppure segua le onde delle mode e delle ideologie. Che non viva di nostalgie e non voglia ingabbiare il mistero; non cerchi di rispondere a domande che nessuno si pone più per lasciare nel vuoto esistenziale quelli che ci interpellano dalle coordinate dei loro mondi e delle loro culture.
Rimanere e contemplare la sua divinità facendo della preghiera la parte fondamentale della nostra vita e del nostro servizio apostolico. La preghiera ci libera dalla zavorra della mondanità, ci insegna a vivere in modo gioioso, a scegliere tenendoci lontani dalla superficialità, in un esercizio di autentica libertà. Nella preghiera cresciamo in libertà, nella preghiera impariamo a essere liberi. La preghiera ci toglie dalla tendenza a centrarci su noi stessi, nascosti in un’esperienza religiosa vuota, e ci conduce a porci con docilità nelle mani di Dio per compiere la sua volontà e corrispondere al suo progetto di salvezza. E nella preghiera, voglio anche consigliarvi una cosa: chiedete, contemplate, ringraziate, intercedete, ma abituatevi anche ad adorare. Non è molto di moda, adorare. Abituatevi ad adorare. Imparare ad adorare in silenzio. Imparate a pregare così.
Siamo uomini e donne riconciliati per riconciliare. Essere stati chiamati non ci dà un certificato di buona condotta e impeccabilità; non siamo rivestiti di un’aura di santità. Guai al religioso, al consacrato, al prete, alla suora che vive con una faccia da santino, guai! Tutti siamo peccatori, tutti. E abbiamo bisogno del perdono e della misericordia di Dio per rialzarci ogni giorno; Egli strappa ciò che non va bene e abbiamo fatto male, lo getta fuori dalla vigna e lo brucia. Ci purifica perché possiamo portare frutto. Così è la fedeltà misericordiosa di Dio con il suo popolo, di cui siamo parte. Lui non ci abbandonerà mai sul bordo della strada, mai. Dio fa di tutto per evitare che il peccato ci vinca e chiuda le porte della nostra vita a un futuro di speranza e di gioia. Lui fa di tutto per evitare questo. E se non ci riesce, rimane lì accanto, finché mi viene in mente di guardare in alto, perché mi rendo conto che sono caduto. Lui è così.
3. Infine, occorre rimanere in Cristo per vivere nella gioia. Terzo: rimanere per vivere nella gioia.
Se rimaniamo in Lui, la sua gioia sarà in noi. Non saremo discepoli tristi e apostoli avviliti. Leggete la fine della “Evangelii nuntiandi” [esortazione apostolica di Paolo VI]: ve lo consiglio. Al contrario, rifletteremo e porteremo la gioia vera, quella gioia piena che nessuno potrà toglierci, diffonderemo la speranza di vita nuova che Cristo ci ha donato. La chiamata di Dio non è un carico pesante che ci toglie la gioia. E’ pesante? A volte sì, però non ci toglie la gioia. Anche attraverso questo peso ci dà la gioia. Dio non ci vuole sommersi nella tristezza – uno dei cattivi spiriti che si impadroniscono dell’anima, come già denunciavano i monaci del deserto–; Dio non ci vuole sommersi nella stanchezza, tristezza e stanchezza che provengono dalle attività vissute male, senza una spiritualità che renda felice la nostra vita e persino le nostre fatiche. La nostra gioia contagiosa dev’essere la prima testimonianza della vicinanza e dell’amore di Dio. Siamo veri dispensatori della grazia di Dio quando lasciamo trasparire la gioia dell’incontro con Lui.
Nella Genesi, dopo il diluvio, Noè pianta una vite come segno del nuovo inizio; e al termine dell’Esodo, quelli che Mosè ha inviato a ispezionare la terra promessa ritornano con un grappolo d’uva di questa dimensione [indica l’altezza], segno della terra dove scorrono latte e miele. Dio è stato attento a noi, alle nostre comunità e alle nostre famiglie: sono qui presenti, e mi sembra molto bello che ci siano i padri e le madri dei consacrati, dei sacerdoti e dei seminaristi. Dio ha rivolto il suo sguardo su di noi, sulle nostre comunità e famiglie. Il Signore ha rivolto il suo sguardo alla Colombia: voi siete segno di questo amore di predilezione. A noi spetta adesso offrire tutto il nostro amore e il nostro servizio uniti a Gesù Cristo, che è la nostra vite. Ed essere promessa di un nuovo inizio per la Colombia, che si lascia alle spalle un diluvio – come quello di Noè -, un diluvio di scontri e violenze, e che vuole portare molti frutti di giustizia e di pace, di incontro e di solidarietà. Che Dio vi benedica! che Dio benedica la vita consacrata in Colombia! E non dimenticatevi di pregare per me, perché benedica anche me. Grazie!

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