Vita, famiglia e sviluppo: l'unità antropologica della Caritas in veritate

ROMA, giovedì, 29 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo di David L. Schindler, Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia di Washington, apparso nell’ultimo “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” (V (2009) 93-97) dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, dedicato alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.

* * *

«La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo» (Caritas in veritate n. 18). Questo, dice Benedetto XVI nella sua nuova enciclica, è «il messaggio centrale della Populorum progressio, valido oggi e sempre» (18). Lo sviluppo umano integrale sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore1, domanda il proprio inveramento in un “umanesimo trascendente, che … conferisce [all’uomo] la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale”2. La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale (n. 18).

Secondo Benedetto, la carità nella verità incentrata in Dio è la chiave di questo “sviluppo umano integrale”. «Dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende» (n. 2). La carità è così «il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» (n. 1).

La chiamata all’amore, in altre parole, non è qualcosa di imposto all’uomo dall’esterno, come una aggiunta estrinseca al suo essere. Al contrario, la carità pulsa nel cuore di ogni uomo. «L’interiore impulso ad amare» è «la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo», proprio mentre è “purificato e liberato da Gesù Cristo,” che ci rivela la sua pienezza (n. 1). «In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona» (n. 1). La Dottrina sociale della Chiesa così, in una parola, è «caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società» (n. 5).

In questo contributo mi propongo di esaminare il legame tra lo sviluppo, la famiglia e le problematiche della vita nella Caritas in veritate. Per introdurre questa riflessione, propongo tre osservazioni relative all’unità antropologica della Dottrina sociale della Chiesa che sono implicate nelle citazioni dell’enciclica appena viste.

 

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I.

(1) E’ importante notare prima di tutto che la Dottrina sociale della Chiesa non pretende di offrire soluzioni tecniche sull’economia e lo sviluppo (n. 9). Nello stesso tempo, in virtù della incarnazione sacramentale della verità in Cristo in quanto Creatore e Redentore, la Chiesa diventa «esperta in umanità» 3, nel senso che ha una «missione di verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell’uomo, della sua dignità, della sua vocazione» (n. 9). La sua Dottrina sociale assume le verità presenti in tutti gli ambiti del sapere, spesso in modo frammentario, e le riunisce in unità.

Quindi, da un lato lo scopo della Chiesa non è di indicare uno specifico sistema economico, dall’altro è di proporre principi che riguardano tutte le attività umane dall’interno, comprese le attività nella politica e dell’ambito pubblico (n. 56) e ogni fase dell’attività economica (n. 37). In questo Benedetto richiama l’insegnamento di Giovanni Paolo II che, dopo il crollo dei sistemi economici e politici dei paesi comunisti dell’Europa orientale, disse che c’era bisogno di un nuovo complessivo progetto di sviluppo, non solo in quei paesi, ma anche nel mondo Occidentale; ora Benedetto afferma che questo “continua ad essere un reale dovere al quale occorre dare soddisfazione» (n. 23).

Circa le tendente in Occidente, la Caritas in veritate rifiuta la lettura della Centesimus annus (n. 92) che concepisce I tre “soggetti” del sistema sociale – lo Stato, il mercato e la società civile – ognuno come avente una sua propria logica, solo estrinsecamente correlata con le altre (nn. 38-40). Come è stato detto dal Cardinale Tarcisio Bertone nel suo discorso al Senato italiano del 28 luglio 2009: «Questa concettualizzazione, che confonde l’economia di mercato che è il genus con una sua particolare species quale è il sistema capitalistico, ha portato ad identificare l’economia con il luogo della produzione della ricchezza (o del reddito) e il sociale con il luogo della solidarietà per un’equa distribuzione della stessa»4

La Caritas in veritate rifiuta questa separazione tra “soggetti,” che minerebbe la vocazione all’amore come elemento integrante per ogni attività e sviluppo umano: di tutto l’uomo e di tutti gli uomini. Parafrasando il Cardinale Bertone, dobbiamo abbandonare la concezione dominante che confina la Dottrina sociale della Chiesa, compresa la centralità della persona, la solidarietà, la sussidiarietà e il bene comune, nelle attività sociali, mentre gli “esperti in efficienza” dovrebbero portare avanti l’economia5. Questo naturalmente non significa che esperienza ed efficienza non siano necessarie, ma solo che la loro integrazione è necessaria per il funzionamento dell’economia già nelle sue attività di produzione di ricchezza, se correttamente intese. In una parola, «Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica» (n. 35).

(2) Il principale presupposto dell’argomentazione della Caritas in veritate è l’universalità della vocazione all’amore. Tutti sappiamo di non essere «risultato di autogenerazione» (68). Questo implica il sentimento del Creatore che il Cardinale Ratzinger/Benedetto descrive in altri suoi scritti in termini di anamnesis, la memoria di Dio che «coincide con i fondamenti del nostro essere»6 . Questa memoria di Dio può essere ignorata o rifiutata ma non è mai assente dalla coscienza umana7 . In una parola, una tensione verso la comunione con Dio e con le altre creature in relazione a Dio è presente nell’intima profondità di ogni essere umano, non solo dei cristiani. La richiesta dell’enciclica di un nuovo corso del pensiero secondo i principi di gratuità e relazionalità, intesi in senso metafisico e teologico, ha origine da questa universale anamnesis dell’amore di Dio (cf. nn. 53, 55).

(3) La Caritas in veritate riafferma con forza l’idea del bene comune. «Volere il bene comune e adoperarsi per esso – dice Benedetto – è esigenza di giustizia e di carità» (n. 7). Prendersi cura del bene comune richiede “complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città (n. 7). L’impegno per il bene comune dà «forma di unità e di pace alla città dell’uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio» (n. 7). Circa l’attività economica, il Papa insiste nel dire che non si possono risolvere i problemi sociali solo con l’applicazione della logica del mercato, che «va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica» (n. 36). «Il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica» (36).

L’insistenza di Benedetto sul bene comune genera due importanti conseguenze. Da un lato implica il rifiuto del dualismo tra ordine temporale ed eterno tipico delle società liberali. Contrariamente a John Locke, per esempio, Benedetto ritiene che l’attività economica non sia propria solo dell’ordine temporale, ma anche di quello eterno, altrimenti la città del cielo arriva solo dopo la vita sulla terra, oppure durante questa vita rimane un fatto puramente privato. Locke riconosce che la religione è importante per la moralità e quindi utile per il funzionamento della città terrena, ma solo come uno strumento per mantenere l’ordine pubblico, e non come un bene intrinseco per la comunità civile in quanto tale.

La Caritas in veritate chiarisce anche che la Chiesa parla di bene comune, piuttosto che di ordine pubblico, come finalità propria dell’attività politica ed economica. L’enciclica, in altre parole, respinge l’idea “giuridica” delle istituzioni politiche ed economiche, in conformità con la lettura data per esempio dalla Dignitatis humane del Concilio Vaticano II o dalla Centesimus annus di Giovanni Paolo II: idea secondo cui queste istituzioni riguardano solo la giustizia come equità procedurale (Rawls) e non come espressione di un ordine naturale ricevuto e dei fini propri dell’uomo 8.

II.

L’idea dell’umanità come un’unica famiglia, del matrimonio, della famiglia e dei temi della vita svolgono un ruolo importante per fondare i principi di gratuità e relazione e per dare loro una configurazione originale, assieme alla logica della libertà e dei diritti che è contenuta nel bene comune, come accenniamo qui di seguito.

(1) Prima di tutto Benedetto afferma che «Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia»

(1.1) L’idea che tutti gli esseri umani formino una sola famiglia deriva dalla comune origine nel Creatore. L’unità implicata in questa idea non soffoca le identità delle persone, piuttosto la rende trasparenti l’una all’altra dentro la loro legittima diversità. Le due persone che diventano “una carne” nel matrimonio ci danno il senso di come possa essere così, come fa del resto la Rivelazione stessa, con la sua concezione di Dio come Trinità di Persone nell’unità dell’unica Sostanza divina (n. 54).

L’idea di una sola famiglia che deriva dalla comune relazione con il Creatore suggerisce ulteriori riflessioni prese dall’antropologia teologica di Joseph Ratzinger/Papa Benedetto e da Giovanni Paolo II: soprattutto in relazione all’idea di filialità, nel primo, e alla “originaria solitudine” dell’uomo, nel secondo. La Caritas in ver
itate
mette in evidenza l’amore che è prima di tutto ricevuto da parte nostra, non prodotto da noi. Già nel suo commento all’antropologia della Gaudium et spes Ratzinger metteva in evidenza la capacità di pregare come il primo contenuto della immagine umana di Dio. Capita così perché gli esseri umani sono fondamentalmente “figli nel Figlio”: sono immagini di Dio in e mediante Gesù Cristo, che è Dio precisamente come il Logos che è dal e per il Padre (cf. Col 1:15-18); oppure, come Ratzinger dice altrove, «il centro della Persona di Gesù è preghiera»9 . Allo stesso modo, Giovanni Paolo II afferma il primato dell’uomo nella sua “originaria solitudine”, espressione con cui egli intende che la relazionalità dell’uomo comincia radicalmente in questa “solitudine” davanti Dio. Il punto allora è non che l’uomo è originariamente privo di relazioni, ma che la relazionalità umana, il suo originario essere-con, è un essere-con-Dio prima di essere un essere-con-gli-altri. O meglio: l’umano essere-con-Dio, in quanto creatura, è prima un essere-da, come un bambino che partecipa all’essere solo come il frutto della radicale generosità di Colui Che E’.

In questa relazione filiale associata alla famiglia troviamo il senso profondo della categoria della relazione come dono, veramente centrale nell’enciclica. Una volta colta la radicalità di questa relazione, che ha origine in Dio Creatore, si vede che essa deve comprendere non solo tutti gli esseri umani, anche se essi in modo speciale e più proprio, ma tutte le creature come pure le entità naturali e fisico-biologiche del cosmo. Benedetto infatti dice che «La natura è espressione di un disegno di amore e di verità» (n. 48). Essa ci precede […] e ci parla del Creatore (cf. Rom 1:20) e del suo amore per l’umanità. Essa è destinata ad essere “ricapitolata” in Cristo alla fine dei tempi (cf. Eph 1:9-10; Col 1: 19-20). E’ quindi una “vocazione”10 . La natura ci è data … come un dono del Creatore, che le ha conferito un ordine e ha reso l’uomo capace di ricavare da esso i principi necessari perché la “coltivasse e la custodisse’”(Gen 2:15). Possiamo dire che la natura, in senso analogico e con l’aiuto dell’uomo, partecipi alla preghiera costitutiva della creatura nel suo intimo movimento filiale verso il Creatore.

Altre implicazioni della filialità: insegniamo ai bambini di dire “per favore” e “grazie”. Correttamente inteso, questo non è solo una questione di buone maniere. Al contrario, si tratta di insegnare loro chi e cosa sono nella loro profonda realtà: doni di Dio concepiti per essere grati, per agire con gratuito stupore, in risposta a quanto è stato loro dato in dono. Qui sta l’origine del riconoscimento dell’essere come vero, buono e bello – in quanto ricevuto e non semplicemente in quanto fatto come frutto del produrre umano – che deve essere alla base di ogni sana società umana. Qui trova fondamento la richiesta dell’enciclica di nuovi stili di vita incentrati nella ricerca della verità, della bellezza, della bontà e della comunione con gli altri (cf. n. 51).

(1.2) Naturalmente i bambini sono fratelli e sorelle di Dio solo attraverso il papà e la mamma naturali, e il bambino stesso ha l’attitudine per diventare papà o mamma. Inoltre, la gratuità dell’unione tra il padre e la madre è un segno continuo ed espressione della generosità creativa di Dio. Ratzinger, nel suo commento alla Gaudium et spes, parla di questa comunione sponsale tra un uomo e una donna come l’immediata conseguenza (Folge) del contenuto (Inhalt) dell’umana immagine di Dio che è presente nell’”unitario” essere dell’uomo come figlio di Dio 11. Giovanni Paolo II parla di questa attitudine costitutiva per la gratuità dell’unione sponsale come la “unità originaria” dell’uomo e della donna. Questa attitudine per l’unione sponsale, stabilita dapprima in questa comune relazione filiale con Dio dell’uomo e della donna, è costitutiva dell’essere umano12 . Ogni essere umano è membro dell’unica famiglia di creature di Dio, in e mediante l’appartenenza ad una particolare genealogia familiare. Questo è il fondamento della richiesta dell’enciclica che lo Stato promuova «la centralità e l’integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale» (n. 44).

(1.3) Le implicazioni della costitutiva relazionalità affermata nella Caritas in veritate sono di grande importanza: nessuna relazione dell’uomo nel corso della sua vita è solo contrattuale, o semplicemente il frutto di un originario ed indifferente atto di scelta (come nel “contrattualismo” liberale). L’uomo non è mai “solo”, ossia, nel linguaggio della Caritas in veritate, “isolato” (n. 53). Al contrario, il suo essere è sempre un essere-con.

Da cui, relativamente alla libertà umana: la libertà è un atto di scelta solo se già dentro un ordine di relazioni naturalmente date (cf. n. 68) con Dio, la famiglia, gli altri e la natura. E riguardo ai diritti umani: come l’idea giuridica dei diritti presuppone un’idea contrattualistica della verità, così un’idea di diritti fondati su un ordine vero presuppone una concezione relazionale dell’io. Come l’idea contrattualistica comporta una priorità dei diritti sui doveri, così l’idea relazionale comporta la priorità dei doveri sui diritti, sebbene i diritti rimangano incondizionatamente coincidenti con la interiore responsabilità (cf n. 43). I diritti, in altri termini, appartengono ad ogni uomo, ma nessuno è un agente solitario astratto da ogni relazione. Al contrario, l’uomo è sempre e ovunque intimamente ordinato a Dio e agli altri, è un bambino nato in una famiglia, è sessualmente differenziato e adatto per la paternità o la maternità, ed è intrinsecamente correlato con l’umanità intera e con la natura. Una idea adeguata dei diritti deve tenere conto di questo ordine di relazioni che sono costitutive di ogni uomo.

(2) La Caritas in veritate afferma che l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI è «molto importante per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa» (n. 15). La Humanae vitae indica «i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando una tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo nell’Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II» (n. 15).

(2.1) In relazione con le affermazioni della Humanae vitae sul significato procreativo e unitivo della sessualità, il papa stabilisce “a fondamento della società la coppia degli sposi aperta alla vita (n. 15). Egli suggerisce che la tendenza a rendere artificiale la concezione e la gestazione umana contribuisce alla perdita del «concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale» (n. 51). Il punto qui, sebbene non esplicitamente sviluppato nella Caritas in veritate, è che la Humanae vitae, nella sua affermazione dell’unità del significato personale ed unitivo della sessualità, implica una “nuova” comprensione del corpo come espressione di un ordine obiettivo di amore, in coerenza con la concezione della Caritas in veritate che la natura del cosmo fisico-biologico come un tutto “è espressione di un disegno di amore” (n. 48).

(2.2) Circa la relazione tra vita etica ed etica sociale, il Papa osserva l’assurdità delle società che, affermando la dignità della persona, la giustizia e la pace, tollerano poi la violazione della vita umana nei più deboli ed emarginati (n. 15). Egli sostiene che «L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo» (n. 28), e che dobbiamo allargare il nostro concetto di povertà e di sottosviluppo tenen
do conto di questa questione dell’apertura alla vita. E’ proprio in questo crescente dominio tecnico sul’origine della vita umana, come, per esempio, nella fecondazione in vitro, nella distruzione di embrioni umani per la ricerca e nella possibilità di fabbricare cloni umani ed ibridi, che constatiamo “la più evidente espressione” della supremazia della tecnica nella società contemporanea (n. 75).

La Caritas in veritate affronta la complessa questione della tecnica nell’ultimo capitolo. «La tecnica permette di dominare la materia» e di «migliorare le condizioni di vita» e così «risponde alla stessa vocazione del lavoro umano» (n. 69). L’aspetto rilevante, in ogni caso, è che «la tecnica non è mai solo tecnica» (n. 69). Essa rimanda sempre al senso dell’ordine delle relazioni con Dio e con gli altri che sono date naturalmente all’uomo. La tecnica, intesa correttamente, deve essere inserita dentro la vocazione implicita in questo ordine di relazioni (cf. n. 69): integrate nell’dea di creazione come qualcosa che è stato deato allì’uomo come un dono e non come qualcosa di autogeneratosi (cf n. 68) o prodotto dall’uomo.

Vediamo qui nuovamente l’importanza della famiglia. E’ in famiglia che si apprende una “tecnica” che rispetti la dignità dei più deboli e vulnerabili – per esempio i bambini concepiti e i malati terminali – per amore. E’ nella famiglia – e infatti la famiglia è ordinate alla preghiera – che si assumono le abitudini per una calma interiorità necessaria per relazioni autentiche e che ci permettano di vedere la verità, il bene e la bellezza negli altri come un dono ricevuto (ed anche per mantenere la consapevolezza «della consistenza ontologica dell’anima umana, con le profondità che i santi hanno saputo scandagliare» – n. 76). E’ all’interno della famiglia che possiamo apprendere i limiti dei mezzi di comunicazione sociale dominanti animati dalla tecnica, che inducono sensazioni superficiali e la semplice raccolta di informazioni, mentre provocano disattenzione dell’uomo per le sue profondità e la sua trascendenza in quanto creato da Dio. E’ nella famiglia che noi ci apriamo al significato della comunicazione nella sua più profonda ed ultima realtà come dia-logos di amore rivelato da Dio nella vita di Gesù Cristo, compresa la sofferenza, (cf. n. 4).

Alla luce di tutto questo, possiamo comprendere, in conclusione, perché la Caritas in veritate affermi che oggi la questione sociale «è diventata radicalmente questione antropologica» (n. 75); che «Il problema dello sviluppo è strettamente collegato anche alla nostra concezione dell’anima dell’uomo» (n. 76); e che «Solo un umanesimo aperto all’Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione di forme di vita sociale e civile — nell’ambito delle strutture, delle istituzioni, della cultura, dell’ethos […]» (78).

(Traduzione dall’Inglese di Benedetta Cortese)

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1) Paolo VI, Populorum progressio (26 March 1967), n. 16.

2) Ibid.

3) Paolo VI, Discorso all’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965, n. 3.

4) T. Card. Bertone, Discorso al Senato della Repubblica italiana, 28 luglio 2009 (http://www.vatican.va/roman_curia/secretariat_state/card-bertone/2009/documents/rc_seg-st_20090728_visita-senato_it.html).

5) Ibid, p. 4.

6) J. Ratzinger, Values in a Time of Upheaval, traduzione di B. McNeil, Crossroad/Ignatius Press, New York/San Francisco 2006, p. 92.

7) Catechismo della Chiesa Cattolica, Seconda edizione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, nn. 31-38. Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, n. 109.

8) Sul bene comune come fine dello Stato vedi CCC, 1910. Sulle implicazioni della visione dell’uomo per lo Stato vedi CCC, 2244.

9) J. Ratzinger, Behold the Pierced One, traduzione di G. Harrison, Ignatius Press, San Francisco 1986, p. 25.

10) Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, n. 6.

11) J. Ratzinger, “Erster Hauptteil: Kommentar zum I,” in Lexikon für Theologie und Kirche 14: Das Zweite Vatikanische Konzil, vol. 3, ed. H. Vorgrimler et al., Herder and Herder, Fribourg: 1968, Artikel 12.

12) Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, nn. 37, 110 e 147.

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ZENIT Staff

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