Violazioni della libertà religiosa in Turchia

Il 2009, un anno difficile per i cristiani

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di padre John Flynn, LC

ROMA, domenica, 10 gennaio 2010 (ZENIT.org).- È stato un altro anno difficile per i cristiani in Turchia, che si è chiuso così come si era aperto. Nel mese di dicembre, tre musulmani sono entrati nella chiesa siro-ortodossa di Meryem Ana a Diyarbakir, minacciando di morte il sacerdote Yusuf Akbulut, secondo quanto riferito il15 dicembre da Compass Direct News, un’agenzia stampa specializzata in materia di persecuzioni religiose.

Al sacerdote hanno detto che se il campanile non fosse stato distrutto entro una settimana l’avrebbero ucciso. L’azione sembra essere stata compiuta come forma di ritorsione per il referendum svizzero che aveva sancito il divieto di costruire nuovi minareti per le moschee.

Secondo il servizio, Meryem Ana ha più di 250 anni ed è una delle poche chiese che servono la comunità siriaca in Turchia.

I siriaci sono una minoranza etnica e religiosa in Turchia e sono stati uno dei primi gruppi ad accettare il Cristianesimo, secondo Compass Direct News.

L’anno era iniziato male, con una controversia sulla proprietà terriera di uno dei monasteri cristiani più antichi al mondo, secondo quanto riferito dalla Reuters il 21 gennaio 2009. Il monastero siriaco Mor Gabriel, del V secolo, si trova a Midyat, un villaggio non distante dal confine con la Siria.

“Questa è la nostra terra. L’abbiamo abitata per più di 1.600 anni”, ha dichiarato Kuryakos Ergun, responsabile della Fondazione Mor Gabriel, secondo la Reuters.

I problemi sono sorti quando, nel 2008, i funzionari del Governo turco hanno ridefinito i confini intorno a Mor Gabriel e ai paesi circostanti, nell’ambito di un aggiornamento del catasto dei terreni.

Secondo i monaci, i nuovi confini sottraggono ampi appezzamenti di terra che il monastero ha posseduto da secoli. Inoltre, una parte del terreno del monastero è stato qualificato parco nazionale.

In fuga

Secondo la Reuters, quando Atatürk ha fondato la Turchia, dopo la Prima guerra mondiale, nel Paese vivevano 250.000 siriaci. Oggi ammontano invece a 20.000, poiché molti hanno abbandonato il Paese per fuggire dalle persecuzioni.

Il Wall Street Journal ha pubblicato, il 7 marzo, un lungo articolo sulla questione della proprietà del monastero. L’articolo sottolinea che la controversia emerge in un momento critico per la posizione della Turchia nel negoziato per la sua adesione all’Unione europea.

Il Vescovo del monastero, Timotheus Samuel Aktas presiede su una comunità in continua diminuzione, composta di soli 3 monaci e 14 suore. Nella zona vivono circa 3.000 siriaci.

Il monastero, fondato nel 397, ha una grande importanza simbolica, spiega l’articolo, essendo considerato dai siriaci come una sorta di “seconda Gerusalemme”.

La battaglia prosegue nei tribunali e, configurando un altro collegamento con la Svizzera, il Consiglio federale elvetico ha recentemente adottato una mozione a sostegno del monastero in Turchia.

Secondo un servizio della Assyrian International News Agency, apparso l’8 dicembre, la mozione afferma: “Il Consiglio federale è impegnato ad intervenire con il Governo turco in modo da assicurare che la proprietà dei monasteri siriaci nel sud-est della Turchia continui ad essere salvaguardata e che i diritti delle minoranze assire siano rispettati secondo i criteri di Copenhagen”.

I criteri di Copenhagen consistono in una serie di principi che i Paesi candidati all’adesione all’Unione europea, come lo è attualmente la Turchia, devono rispettare. Tra questi vi è anche il rispetto dei diritti umani e la tutela delle minoranze.

Accuse

Altri momenti di intolleranza hanno contrassegnato la vita dei cristiani in Turchia nel corso degli ultimi 12 mesi. Il 16 ottobre, Compass Direct News ha riferito dei processi a due cristiani, accusati di aver offeso l’Islam.

L’avvocato difensore, Haydar Polat, ha definito il processo una farsa, riferendosi al fatto che nelle udienze, tre dei testimoni dell’accusa avevano ammesso di non conoscere neanche i due cristiani imputati.

Hakan Tastan e Turan Topal erano stati arrestati nell’ottobre del 2006 con l’accusa di aver reso vilipendio all’identità turca e all’Islam, mentre parlavano della propria fede con tre giovani a Silviri, una città a circa un’ora di distanza di auto da Istanbul. Ora, se condannati, rischiano fino a due anni di reclusione.

La questione non è ancora conclusa, poiché la corte ha convocato nuovamente, per il 28 gennaio prossimo, tre testimoni dell’accusa che non si erano presentati in udienza precedentemente.

Il 4 dicembre scorso, Compass Direct News ha poi riferito di un sondaggio dal quale risulta che più di metà della popolazione turca afferma di essere contraria a permettere agli appartenenti ad altre religioni di tenere riunioni o pubblicare materiale che illustrino i principi della loro fede.

Inoltre, secondo il sondaggio, quasi il 40% della popolazione della Turchia afferma di avere una visione “molto negativa” o “negativa” dei cristiani.

Il sondaggio, svolto nel 2008, faceva parte di uno studio commissionato dall’International Social Survey Program, un’organizzazione accademica composta di 45 nazioni, che effettua sondaggi e ricerche su questioni sociali e politiche.

Una panoramica

Forum 18, un’organizzazione norvegese che si occupa di diritti umani, ha pubblicato il 27 novembre un servizio sulla libertà religiosa in Turchia. L’organizzazione trae il suo nome dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che sancisce il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione.

Lo studio ha, in definitiva, concluso che: “nel Paese continuano a verificarsi gravi violazioni degli standard internazionali sui diritti umani in materia di libertà di religione o di credo”.

La Turchia non riconosce alle comunità religiose i loro diritti ad esistere in qualità di comunità indipendenti con pieno status legale, tra cui per esempio il diritto ad avere propri luoghi di culto e una tutela giuridica che le comunità religiose normalmente hanno nei Paesi in cui vige lo Stato di diritto, secondo Forum 18.

Inoltre, lo studio rileva che i cristiani sono stati vittime di una serie di violenti attacchi e uccisioni negli ultimi anni.

Il Governo – spiega lo studio – è ancora legato al “secolarismo” di Mustafa Kemal Atatürk. Tale visione non solo implica un controllo da parte dello Stato sull’Islam, ma anche una serie di restrizioni sull’esercizio della libertà di religione o di credo nei confronti dei non musulmani e dei musulmani che non rientrano sotto il controllo statale.

Le diverse comunità residenti in Turchia, come i musulmani aleviti, i cattolici, i greci ortodossi, i protestanti e i siriaci ortodossi, non hanno potuto registrare progressi significativi nella risoluzione dei problemi concernenti le loro proprietà, aggiunge lo studio.

D’altra parte, persino le comunità religiose riconosciute non possono essere proprietarie dei propri luoghi di culto.

Inoltre, prosegue lo studio, è praticamente impossibile trovare persone di estrazione non musulmana tra i vertici della pubblica amministrazione e del tutto impossibile tra i ranghi elevati dell’apparato militare.

Intolleranze

Forum 18 elenca poi una serie di attacchi letali inferti ai cristiani negli ultimi anni: padre Andrea Santoro, il sacerdote cattolico ucciso nel 2006; i due protestanti di etnia turca, Necati Aydin e Ugur Yuksel, e il tedesco Tilmann Geske, uccisi a Malatya nel 2007. Poi, nel luglio 2009 l’uomo d’affari cattolico tedesco, Gregor Kerkeling, ucciso da un giovane squilibrato mentre passeggiava con la fidanzata turca, a motivo della sua cristianità.

Tra le cause di questa intolleranza, secondo lo studio, vi è la regol
are disinformazione e diffamazione a danno dei cristiani, sia nei discorsi pubblici, che nei media. Anche l’intolleranza è attivamente promossa nell’ambito dei programmi scolastici.

Il rapporto conclude affermando che i gravi problemi concernenti la mancanza di libertà religiosa in Turchia pongono seri dubbi sul reale impegno del Paese ad assicurare i diritti umani universali per tutti.

Certamente la Turchia non è la sola a porre restrizioni sulla libertà religiosa. Il 16 dicembre scorso il Pew Research Center’s Forum on Religion and Public Life ha pubblicato uno studio dal titolo: “Global Restrictions on Religion”.

Secondo questo studio, 64 nazioni – circa un terzo dei Paesi del mondo – presentano livelli alti o molto alti di restrizioni sulla religione. Inoltre, poiché alcuni dei Paesi più restrittivi sono molto popolosi, il dato che emerge è che quasi il 70% dei 6,8 miliardi di persone vivono in Paesi con forti restrizioni sulla religione, con conseguenze soprattutto per le minoranze religiose. Un fatto su cui riflettere e pregare, dopo la celebrazione della nascita del Bambino Gesù.

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ZENIT Staff

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