Pregnant woman

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Utero in affitto è schiavismo? Ecco cosa ne pensa chi ci è passato…

Mentre il dibattito sul tema appassiona l’Italia e i giudici di Milano sdoganano la pratica con una sentenza, le ammissioni choc di una madre “surrogata” e di una figlia dell’eterologa

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È notizia di queste ore. I giudici della Corte d’Appello di Milano hanno autorizzato l’adozione di una bambina, nata da procreazione assistita con seme esterno, a una coppia di donne omosessuali. Trasformandosi di fatto in legislatori, le toghe milanesi hanno sdoganato la pratica della fecondazione eterologa, vietata in Italia.

Ma mentre il martello dei giudici batte sui destini di bambini a cui viene così negato il diritto ad avere una mamma e un papà, nel Paese il dibattito sull’utero in affitto si fa appassionante. Il fronte di quanti giudicano questa pratica disumana, frutto della mercificazione del corpo femminile, si amplia significativamente di un consistente gruppo.

È quello delle femministe di “Se Non Ora Quando – Libere”, le quali, lanciando una petizione contro l’utero in affitto, hanno scatenato una discussione seria e approfondita, finalmente svincolata da posizioni precostituite. Il loro desiderio di rompere “un silenzio conformista su qualcosa che ci riguarda da vicino” si sta dunque avverando. La più efficace picconata su questo silenzio miserabile, tuttavia, giunge non da pur autorevoli intellettuali, bensì da chi la pratica della fecondazione eterologa l’ha vissuta in prima persona. E ne porta ancora sulla propria pelle la ferita.

Come Tanya Prashad, una donna americana che, spinta dal “desiderio di aiutare un’altra coppia”, ha deciso di “affittare” il proprio utero a chi non potesse avere un figlio. Così, come racconta lei stessa in un’intervista apparsa su AbcNews oltre un anno fa, aveva rinunciato ai diritti parentali nei confronti della figlia che sarebbe nata dall’unione del suo ovulo con il seme di un uomo, che voleva diventare genitore insieme al suo compagno omosessuale.

Tanya ha resistito per nove mesi all’idea di diventare madre per poi separarsi alla nascita dalla propria piccola, fin quando non è arrivato appunto il momento del parto. “Quando vidi la bambina lì fra le mie braccia, quei pezzi di carta che avevamo firmato è come se fossero scomparsi”, spiega la donna. Che ha dunque deciso di tenere la piccola con sé. “Finimmo in tribunale – racconta -. E alla fine accettammo la decisione di una custodia congiunta”.

Ammette, la donna americana, che quando aveva scelto di “affittare” il proprio utero non si era posta il problema delle possibili ripercussioni che avrebbe affrontato la bambina a causa del desiderio di due omosessuali. Ora però, quelle ripercussioni sono sotto i suoi occhi: “Ha molte insicurezze. Ha bisogno di molte rassicurazioni, molte di più. Tutti i bambini ne hanno bisogno, ma si sa, lei ha bisogno ancora di più di trovare una strada”.

Il sentimento che angoscia Tanya è ora di rimorso per quello che ha fatto, giacché si sente “come una che ha venduto sua figlia”. Sentimento che trova riscontro nelle parole di Jessica Kern, giovane nata più di 30 anni fa tramite utero in affitto. Anche lei intervistata da AbcNews, si confida: “Per qualche ragione, intuitivamente dentro di me, avevo un senso di cosa fosse la famiglia e di come dovesse farci sentire, ma non l’avevo mai sperimentato”, ha spiegato la trentenne. Quando ha scoperto di essere nata da madre “surrogata”, che l’ha poi venduta per 10mila dollari, la Kern ha dichiarato di essere rimasta “devastata”. Dice con amarezza di non vivere bene il fatto di “essere nata grazie a un assegno”.

Quella stessa amarezza non sembra trasparire dalle parole di Anna e Laura, due donne italiane che insieme ai rispettivi mariti hanno scelto la maternità surrogata andando all’estero, precisamente in India. In un’intervista a Repubblica concessa in questi giorni in cui il dibattito sul tema si è acceso in Italia, ritengono candidamente di aver fatto “uno scambio”: le donne indiane hanno permesso loro di diventare madri; e loro, pagandole, hanno dato a queste donne indigenti “la possibilità di rendere migliore il futuro dei loro figli”.

Tutto moralmente accettabile allora? Non proprio. Pungolate dall’intervistatrice circa il fatto che questa pratica innesca un meccanismo di sfruttamento dei ricchi sui poveri, le due donne rispondono: “Quello purtroppo c’è in tutto il mondo. Qui almeno c’era un rapporto tra adulti consapevoli”. Un’ammissione che dovrebbe far riflettere la società civile e il Parlamento. Ma anche coloro che frequentano le Aule di Tribunale.

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Federico Cenci

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