Una vita al servizio del prossimo

Suor Giuseppina Bakita, Vergine umile serva di Cristo

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di Pietro Barbini
 
ROMA, mercoledì, 8 febbraio 2012 (ZENIT.org) – Molto è stato detto e raccontato su Suor Bakhita. Nel 2009 la Rai trasmise anche una miniserie, seguitissima, che ripercorse in due puntate, l’incredibile vita di questa santa straordinaria.

Nata nel 1869 in un piccolo villaggio del Sudan, all’età di soli sette anni venne rapita da dei mercanti di schiavi arabi. Il nome “Bakhita”, infatti, le fu affibbiato dai suoi rapitori, che in arabo significa “Fortunata”, in quanto la futura santa, a causa del trauma subito dal rapimento, dimenticò il suo nome e quello dei suoi genitori.

Da quel momento in poi la piccola Bakhita passò anni d’inferno, venendo venduta più volte, maltrattata, picchiata e umiliata dai suoi “padroni”. Nel manoscritto contenente l’autobiografia della Santa, custodito dalle suore Canossiane di Roma, vengono raccontate tutte le sofferenze fisiche e morali che patì nel lungo periodo della sua schiavitù, come il cruento tatuaggio inflitto da un generale turco, il quale le incise più d’un centinaio di segni sul petto, sul ventre e sul braccio destro con un rasoio che poi vennero coperti con del sale, per “marcarla” a vita

Dopo varie vicende e molti supplizi, fu comprata, al mercato di Khartum, dal Console italiano Calisto Legnani, che la portò con sé in Italia, nel 1885, e la consegnò alla famiglia Michieli di Mirano, in Veneto, presso la quale Bakhita diventò la bambinaia della figlia. Dovendo raggiungere l’Africa, la famiglia Michiele decide di far ospitare Bakhita e la figlia nel convento delle Suore Canossiane di Venezia, fino al loro ritorno. Bakhita, avrà così modo di conoscere la dottrina cattolica.

Nove mesi dopo, la famiglia Michieli reclamerà la sua bambinaia, ma Bakhita si rifiutò di seguirli, decidendo di rimanere in Convento. Sulla questione interverrà anche mons. Domenico Agostini, Patriarca di Venezia, il quale fece presente che in Italia “non si fa mercato di schiavi”. Nel 1890 Bakhita ricevette battesimo, cresima e comunione, e gli fu imposto il nome di Giuseppina Margherita Fortunata. Nel 1893, dopo aver conosciuto e sperimentato l’amore di Dio, entrò nel noviziato delle suore Canossiane e tre anni più tardi prese i voti definitivi alla presenza del Patriarca Giuseppe Sarto, futuro papa Pio X. Lo stesso anno fu dichiarata legalmente libera.

È importante ricordare e riconoscere l’importanza che ebbe la Chiesa Cattolica nella storia per l’abolizione della schiavitù nel mondo, in quanto, fin dall’antichità, ne combatté audacemente i soprusi e si batté per la libertà degli uomini, cosa che tutt’ora continua a fare.
La figura di Suor Bakhita, ricordata anche da papa Benedetto XVI nella sua seconda enciclica, Spe Salvi, è fondamentale per la vita di ogni cristiano. Cuoca, aiuto infermiera, nel corso della Prima Guerra Mondiale, sacrestana e portinaia, svolse queste mansioni con zelo, amore e umiltà, vedendo sempre nel prossimo la figura di Cristo.

Suor Bakhita incarnò nel corso di tutta la sua vita quel motto che dice “Non resistete al male” e a chiunque le chiedesse cosa avrebbe detto ai suoi rapitori rispondeva: “Se incontrassi quei negrieri che mi hanno rapita e anche quelli che mi hanno torturata, mi inginocchierei a baciare loro le mani, perché, se non fosse accaduto ciò, non sarei ora cristiana e religiosa…”. Questo dice tutto sullo spessore della Santa, un esempio che deve rimanere costante nella vita di tutti i cristiani, in particolare nei momenti più difficili della vita, dinnanzi alle sofferenze, ai soprusi e alle ingiustizie.

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ZENIT Staff

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