Una visita di lavoro

Il Papa non va dal Presidente per sollevare alcuna rivendicazione, ma per collaborare in funzione del bene comune

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Della visita dal Papa al Presidente Napolitano è stata giustamente sottolineata l’assoluta mancanza di ogni pompa, senza il contorno dei corazzieri e senza nemmeno una scorta di motociclisti ad accompagnare il sobrio corteo che dal Vaticano si è mosso verso il Quirinale.

Si è infatti trattato di una visita di lavoro, in cui non c’era posto per il cerimoniale, data l’urgenza dei problemi da affrontare insieme.

L’accesso in Vaticano dei Capi dello Stato italiano, così come l’accesso al Quirinale dei Pontefici, a partire dal 1929, è stato caratterizzato da una costante – per così dire – negoziale: se infatti è vero che i Patti Lateranensi avevano composto un dissidio aperto non solo dalla breccia di Porta Pia del 20 settembre del 1870, bensì dallo Statuto albertino del 18 marzo 1848, durato dunque ben novantuno anni, è altrettanto vero che a partire dal 1929 si era sempre discusso tra le due sponde del Tevere sull’attuazione di quanto concordato tra Mussolini ed il Cardinale Gasparri.

Questa discussione aveva seguito degli alti e bassi, ma è interessante notare come essa non abbia mai riguardato la parte dei reciproci rapporti regolata dal Trattato: qui l’affermazione contenuta nella lettera degli accordi, secondo cui la Santa Sede aveva ottenuto quanto necessario per il libero esercizio della sua missione spirituale, rifletteva fedelmente la situazione giuridica.

Se il negoziato doveva continuare, esso riguardava la materia del Concordato.

Il fatto stesso che l’Italia fascista avesse accettato in linea di principio il metodo concordatario per regolare i rapporti con la Chiesa costituiva il rovesciamento di un principio cui si era ispirato lo Stato laico sorto dal Risorgimento.

La formula escogitata dal Conte di Cavour, “libera Chiesa in libero Stato” significava che il fenomeno religioso, in tutti i suoi aspetti, doveva essere regolato unilateralmente per l’appunto dall’ordinamento giuridico statale: non già per restringere la libertà di coscienza e la libertà di culto, ma anzi affermandola e tutelandola solennemente, senza però mai patteggiare le relative norme con un’altra Autorità.

La Chiesa non veniva dunque considerata dallo Stato come un soggetto di Diritto Internazionale con cui stipulare atti bilaterali, bensì alla stregua di un comune soggetto di Diritto Privato assoggettato alle proprie norme.

Era chiaro che la Santa Sede non avrebbe mai potuto accettare questo principio.

Paradossalmente, essa avrebbe preferito un regime di libertà meno ampio, purchè esso costituisse il risultato di un accordo tra uguali, piuttosto che un regime di libertà più esteso, ma ottriato dallo Stato: nell’un caso, infatti, la modifica della sua condizione giuridica poteva sortire soltanto da un accordo, mentre nel secondo caso sarebbe stata decisa a discrezione dell’Autorità temporale.

La novità costituita dai Patti Lateranensi non fu dunque espressa dal Trattato, che dava ragione allo Stato consacrando “de jure” la situazione territoriale determinata “de facto” dalle guerre del Risorgimento, culminate con la breccia di Porta Pia; essa consisteva piuttosto nell’accettazione da perte dell’Italia del principio di un Diritto Ecclesiastico regolato di comune accordo con la Chiesa.

Ogni patto necessita però di interpretazioni e di aggiornamenti: di qui trasse origine se non un contenzioso permanente, quanto meno un negoziato permanente.

Il momento di maggior tensione si ebbe quando – in seguito alle introduzione della legge sul divorzio – la Santa Sede acconsentì ad una rinegoziazione del Concordato che le sottraeva la esclusiva regolamentazione degli effetti civili del matrimonio celebrato col rito religioso.

Poi ci fu la lunga controversia sul regime fiscale dei beni di proprietà ecclesiastica, e qulla – ancora più importante dal punto di vista della Chiesa – sull’eguaglianza dello “status” giuridico tra la scuola privata e quella pubblica.

Una disputa – quest’ultima – paradossalmente determinata dall’affermazione, contenuta nella Costituzione, della parità tra l’istruzione pubblica e l’istruzione privata, la quale prerò poteva essere impartita “senza oneri per lo Stato”.

Di qui sorgeva la divergenza tra chi affermava: “Se volete la scuola privata, pagatevela”, e chi rispondeva come – nel nome del principio di eguaglianza tra i cittadini – lo Stato dovesse comunque corrispondere alle famiglie, per ogni figlio affidato alla scuola religiosa, una somma pari al costo che esso avrebbe affrontato con la frequenza della scuola pubblica.

Non entreremo qui nella spiegazione delle vicende giuridiche e politiche di tale controversia: diremo soltanto che proprio quando la vecchia dicotomia tra clericali ed anticlericali, ereditata dall’Ottocento, veniva perdendo la sua ragion d’essere di fronte ai nuovi temi ed ai nuovi problemi della nostra vicenda civile, l’avere qualificato come “valori non negoziabili” le pur rispettabili ragioni alla base delle rivendicazioni della Chiesa ha prodotto due effetti negativi.

Il primo di essi è consistito nel protrarre un contenzioso ormai privo delle ragioni storiche, ideologiche e morali che pure erano state valide fino al alla Conciliazione del 1929.

Il secondo è stato viceversa quello, possibilmente più grave, di avere fornito argomenti alla parte politica che – per motivi bassamente elettoralistici – dichiarava di accettare in modo acritico le pretese della Santa Sede.

La Chiesa di Ruini e di Bertone, in altre parole, finiva per scendere in campo a favore dell’Italia di Berlusconi.

Se c’è stato un momento in cui si può collocare la fine di questa fase dei rapporti bilaterali, esso ha coinciso proprio con la visita di Bergoglio al Quirinale.

E’ stato rilevato come il Papa – in questa occasione – non abbia avanzato nessuna rivendicazione.

Ciò non vuol dire che non si sia parlato dei rapporti bilaterali, ma di essi non si è discusso come avviene tra i soggetti di un negoziato, bensì come tra i promotori di una azione comune e coordinata.

I grandi momenti storici con cui si è prima preparato e poi consolidato lo spirito della Conciliazione hanno coinciso con le due guerre mondiali: nella prima tutto il popolo italiano, senza distinzione tra fautori e competitori del modo in cui si era realizzata l’Unità, si è ricompattato nella sua difesa, mentre nella seconda cattolici e laici hanno collaborato per abbattere la dittatura e liberare l’Italia dall’invasore.Oggi siamo di fronte all’equivalente – sia pure, per fortuna, non guerreggiato – della terza guerra mondiale, con la crisi economica che causa conflitti e migrazioni dalle dimensioni mai viste, con una situazione sociale che degenera rapidamente, con l’Europa che si divide tra fautori e nemici della sua unità, così come tra sostenitori di una chiusura razzistica e partigiani di una apertura verso gli altri Continenti.

Non è casuale che il primo luogo dell’Italia visitato dal Papa sia stato Lampdeusa, sul confine geografico e politico con la perte povera del mondo.

A Napolitano e a Bergoglio è dunque bastato conoscersi per ritrovarsi collocati, sui temi discriminanti dell’attualità politica e sociale, dalla stessa parte, per considerarsi alleati: ed allora non avrebe avuto alcun senso innalzare a livello di contenzioso una materia che può benissimo venire deferita agli esperti delle due parti; occorreva piuttosto dedicare tempo ed energie alla ricerca della collaborazione più efficace per la causa comune.

Ciò è quanto avvenuto tra il Presidente ed il Papa, non a caso attorniati dai rappresentanti delle energie intellettuali dell’Italia e da tutti i soggetti che canalizzando il volontariato – si dedicano, senza distinzioni tra laici e cattolici, a promuovere la solidarietà e l’assistenza.

E adesso, al lavoro! 

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Alfonso Maria Bruno

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