Una spiritualità economica nel solco di Francesco d'Assisi

di padre Pietro Messa*

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ROMA, giovedì, 7 maggio 2009 (ZENIT.org).- Compito della storia è certamente ricostruire i fatti accaduti nello scorrere del tempo, tuttavia se non è accompagnata da uno sforzo intellettuale che cerca di comprenderne i motivi che li hanno prodotti e che aiutino a renderli in un certo qual senso intelligibili, anche se risultano non totalmente incomprensibili, certamente non si coglie la complessità di ciò che rappresentano.

Così per capire meglio i Monti di Pietà si potrebbe analizzare come sono nati, quali circuiti economici interessarono, la realtà sociale coinvolta, eccetera. Tuttavia anche questo non andrebbe al fondamento di ciò che li hanno prodotti. Infatti essi sono l’espressione di una sintesi mirabile tra scelta evangelica della povertà e attenzione al bene comune vissuta da frate Francesco d’Assisi, elaborata concettualmente da frate Pietro di Giovanni Olivi, diffusa dalla predicazione di Bernardino da Siena, e testimoniata dalla predicazione sociale dei Francescani nella seconda metà del Quattrocento. Ma andiamo per ordine…

 

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1. Ma quanto mondo basta?

La spiritualità cristiana, sia orientale che occidentale, è stata fortemente influenzata dal monachesimo; riguardo a ciò basta pensare alla dottrina inerente “i pensieri malvagi” espressa da Evagrio Pontico, diffusa in Oriente soprattutto mediante la Scala del paradiso di Giovanni Climaco e in Occidente da Giovanni Cassiano. Tale insegnamento sfocerà nella dottrina dei vizi capitali, comprendenti anche l’avarizia.

Uno dei punti fondamentali della vita monastica è l’abbandono del mondo, come mostra il caso emblematico della vita di sant’Antonio scritta da sant’Atanasio: il monaco sempre più abbandona non solo i suoi beni, ma anche il consorzio civile per inoltrarsi nel deserto. Da questi modelli esemplari non poteva che scaturirne una spiritualità che aveva nella fuga mundi, ossia nel disprezzo di sè e del mondo uno dei punti cardini. E in ciò non facevano altro che appellarsi alla Scrittura che invita a non conformarsi alla mentalità del mondo e dove Paolo esorta a non vivere secondo la carne.

Solo che carne e mondo nella Bibbia hanno un significato equivoco, perché se Paolo dice che non bisogna vivere secondo la carne, il Vangelo secondo Giovanni proclama che il Verbo si è fatto carne; ugualmente se è vero che non bisogna vivere secondo la mentalità di questo mondo, è pur vero che si proclama che Gesù ha tanto amato il mondo da dare la sua vita per lui. Ma allora il mondo va amato o ripudiato? E nel caso che si debba lasciare si può vivere senza mondo?  E se la risposta è negativa, quanto mondo basta, o serve, per vivere?

Tutte queste domande emersero prepotentemente quando frate Francesco e la fraternitas minoritica nella prima metà del secolo XIII ad Assisi evidenziarono la minorità e la povertà nella loro scelta evangelica. Francesco, figlio del mercante Pietro di Bernardone, ben conosceva il valore del denaro avendo ricevuto una educazione appunto di “figlio del mercante” che sa leggere, scrivere e soprattutto far di conto; egli nel momento della scelta evangelica vendette cavallo e vestiti sfarzosi lasciando il denaro – verosimilmente identificabile con quello ritrovato negli scavi archeologici fatti recentemente – presso la Chiesa di San Damiano nelle vicinanze di Assisi e poi rinunciando a tutto spogliandosi pubblicamente davanti al vescovo, ridando a suo padre anche i propri vestiti. Questa scena si ripeté sempre più spesso non solo ad Assisi, ma anche altrove, quando altri ispirati da frate Francesco lasciarono tutto per “vivere secundum formam sancti Evangelii”.

Tuttavia, sembra strano, ma proprio per aver scelto di essere poveri hanno dovuto parlare molto di denaro e ciò per un semplice motivo, ossia che la povertà “deve funzionare”. Infatti, come sempre più si sta evidenziando negli studi degli ordini religiosi, se una scelta ideale non vuole rimanere una utopia deve trovare delle scelte istituzionali che permetta di prendere consistenza, e questo anche per la povertà francescana. In questo modo i Frati minori furono costretti a distinguere il possesso dei beni dal loro uso: visto che l’uso dei beni è necessario a vivere, essi rinunciano soltanto al possesso. Ma sorge immediatamente la domanda se sia possibile usare una cosa senza anche possederla, e nel caso che la risposta sia affermativa ciò può sfociare in una ipocrisia, ossia di non possedere nulla, ma di usare tutto! Per questo alcuni francescani che volevano essere più fedeli alla Regola di san Francesco fecero un’ulteriore distinzione, ossia tra uso e uso povero in cui si utilizza solo il minimo indispensabile. Questa ulteriore distinzione evidenzia che la moralità dei beni di questo mondo è data dalla modalità con cui si usano; se ciò è vero per i frati, lo è anche per i mercanti. Di conseguenza il peccato non dipende più dal possedere i beni, ma dal loro uso: distinguendo l’uso sensato dallo sperpero dei beni, se un mercante usa delle sue ricchezze – denaro compreso – per il bene comune, la sua attività non solo non è disdicevole, ma anzi atto virtuoso. In questo modo i francescani  con la loro speculazione inerente la povertà, e di conseguenza i beni e infine l’attività mercantile, diedero inizio ad un discorso che oggi trova collocazione nell’etica economica. Come scrisse uno storico del francescanesimo, Marco Bartoli, «l’apparente paradosso è nel fatto che, proprio coloro che avevano fatto professione di altissima povertà, divennero gli specialisti della ricchezza ed elaborarono un codice morale per i professionisti del mercato, i mercanti ed i banchieri».

In tutto ciò si distinsero alcuni frati minori, come il provenzale Pietro di Giovanni Olivi e san Bernardino da Siena. Il primo si contraddistingue per la sua speculazione in merito alla differenza tra il possesso e l’uso; in questo modo il denaro viene ad assumere un senso positivo consistente, come ebbe a scrivere Giacomo Todeschini, nell’«abilità mercantile a farlo circolare senza immobilizzarlo: a usarlo senza volerlo accumulare, a viverlo come un’unità di misura, e non come un oggetto prezioso». Il merito di aver diffuse tali idee, rendendole patrimonio comune, fu certamente del frate Bernardino da Siena che fece ciò non solo mediante le sue celeberrime prediche in volgare, ma anche sollecitando le autorità dei diversi comuni a scelte concrete, come quelle di istituire i roghi delle vanità e proibire il lusso che sottraeva il denaro alla pubblica utilità, oppure incentivando riforme atte a combattere l’usura. Tale etica economica non solo è stata portata avanti dai frati del movimento dell’Osservanza, di cui san Bernardino era diventato il vessillo, ma anche si è concretizzata passando dalla forza della parola ai fatti, soprattutto istituendo e diffondendo i Monti di Pietà.    

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*Padre Pietro Messa è Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma

[La seconda parte verrà pubblicata il 14 maggio]

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ZENIT Staff

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