Una riflessione su giustizia, carità e misericordia (Quinta ed ultima parte)

Relazione di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, all’ultimo Convegno annuale della Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice

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Pubblichiamo oggi la quinta ed ultima parte della relazione tenuta dal presidente emerito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, all’ultimo Convegno annualedella Fondazione Centesimus annus – Pro Pontifice, che si è svolto dal19 al 20 ottobre scorsi a Cuneo ed era dedicato al tema“La giustizia è la prima via della carità” (Caritas in Veritaten. 6). 

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4. La misericordia è la carità più la giustizia

San Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive: «Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!». L’Apostolo Paolo descrive in una frase la condizione per poter pensare al mistero della Giustizia: in generale, direi, per poter pensare. La condizione – egualitaria quanto la morte – del peccato, che ci accomuna in una umanità diversissima in tutto il resto, ma parificata in questo; la misericordia, che egualmente ci solleva tutti, distribuendo amore infinito a tutti, senza distinzione.

Al problema delle disuguaglianze del mondo, la prospettiva cristiana risponde che l’unica possibile eguaglianza – ed anche la più importante − è ai punti estremi della nostra condizione umana: tutti uguali nella caduta; tutti uguali nell’amore che ci solleva. Così, la misericordia diviene la giustizia cui si unisce la carità: essa è il perfezionamento della giustizia, ma, al tempo stesso, il suo superamento.

Il pensiero paolino è chiarissimo sul punto: per rendersene conto è sufficiente rileggere uno dei passi più noti e intensi (e, letterariamente, più belli), quale l’Inno alla carità (1Cor., 13, 1-13): «E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine…».

La giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta, monca: una dimensione regolativa che scivola, progressivamente, nel legalismo.

La “finitudine” della giustizia, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche, riflettendo sulle quali chiudo il mio intervento.

La prima è la parabola del debitore spietato (Matteo, 18, 23) nella quale il re scopre un servo debitore di diecimila talenti, ma recede, per le sue suppliche, dall’originario proposito di venderlo con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, affinché saldasse il suo debito. Appena uscito, quel servo ne trova un altro come lui che gli doveva cento denari. Lo afferra e lo soffoca, dicendogli di pagare il dovuto. Il debitore spietato non vuole esaudire le suppliche del suo compagno e lo fa gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito. Venutolo a sapere, il re lo fa richiamare e gli dice: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse avere anche tu pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» E, sdegnato, «lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto».

Il comportamento del debitore spietato è, in punto di “giustizia”, ineccepibile: dal condono del suo debito non deriva affatto alcun obbligo, per lui, di condonare a sua volta il proprio debitore. E, per averlo fatto gettare in carcere a causa dell’inadempimento, nessun giudice lo avrebbe a sua volta potuto condannare. A condannarlo è, invece, la clemente misericordia che gli è stata usata e che egli non è stato capace di interiorizzare: la misericordia arriva là dove la giustizia mai potrebbe, e lascia un segno che nessuna decisione “di giustizia” mai potrebbe lasciare. Il debitore spietato sceglie di scivolare nel legalismo e cade, tuttavia, a sua volta nella “rete” della giustizia: chi è stato con lui misericordioso era “al di là del bene e del male”, ma il servo ha scelto di ripassare questo confine.

La seconda parabola è quella degli operai nella vigna (Matteo, 20, 1-16). Quale legge mai, quale principio “di giustizia” potrebbe mai prevedere che lavori diversi, per durata, fatica ed intensità, siano retribuiti allo stesso modo? E quale giudice mai potrebbe dar torto a quegli operai della mattina che, pensando di essere stati trattati ingiustamente, mormoravano contro il padrone: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo»!

Eppure, il padrone della vigna sa mettere in crisi lo stesso concetto umano di “giustizia”, fondata sulla scala ordinata dei valori e dei meriti («Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi»).

La misericordia, abbiamo detto, invece non presuppone meriti: li supera; evade la logica, come ogni vera grandezza dell’animo; di più, è autenticamente eversiva, nel senso etimologico di “fuori dal verso delle cose, dalla loro direzione ordinaria”, come nessuna giustizia umana − nel nome della quale pure si sono intraprese centinaia di rivoluzioni − potrebbe mai esserlo.

L’imprevedibile gratuità della misericordia scardina completamente la limitata visione della mentalità umana e diventa pietra d’inciampo persino dei principi “di giustizia”.

La giustizia di Dio non contrasta, in realtà, con la giustizia umana (ogni operaio della parabola riceve la retribuzione concordata), ma la trascende, completandola e trasformandola con l’amore.

Per il giurista che “insegue” quotidianamente la giustizia, la consapevolezza di questo superamento, è una speranza intensa e irrinunciabile.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Le citazioni contenute nel testo sono tratte dai seguenti scritti (nell’ordine delle citazione nel testo):

ARISTOTELE, Etica Nicomachea (con testo greco a fronte), Laterza, Bari, 2004.

TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, San Paolo Edizioni, 3a ed.,1999.

L. LOMBARDI VALLAURI, Amicizia, carità e diritto. L’esperienza giuridica nella tipologia delle esperienze di rapporto, Milano, Giuffré, 1974.

J. PIEPER, Sulla giustizia, Morcelliana, Brescia, 1956.

J. DE FINANCE, Ethique Générale, Presse de l’Université Grégorienne, Roma, 1967. Le citazioni sono tratte dalla traduzione italiana dell’opera, Etica generale, Edizioni del Circito, Bari, 1975.

G.E MOORE, Principia Ethica (1903), trad. it. di G. Vattimo, Bompiani, Milano, 1964.

L. GEYMONAT Saggi di filosofia neorazionalistica, Einaudi, Torino, 1953.

W. CESARINI SFORZA, La Giustizia: storia di una idea, ERI, Torino, 1962.

A. PROSPERI, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine, Einaudi, Torino, 2008.

H. BAHARIER, Il tacchino pensante. Saggio narrativo, Garzanti, Milano, 2008.

(La quarta parte è stata pubblicata domenica 20 gennaio)

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ZENIT Staff

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