Un volo avventuroso sulla foresta amazzonica

La lezione della selva brasiliana: da soli non ce la facciamo

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Chi non c’è stato difficilmente si fa un’idea dell’Amazzonia brasiliana. Estesa circa 14 volte la nostra Italia è una sterminata pianura solcata da numerosi fiumi e “igarapè” (affluenti). Il Rio delle Amazzoni (“Rio mar” come lo chiamano) è lungo più di 4.500 chilometri, nasce in Perù e sfocia nell’Oceano Atlantico in un estuario che misura, da Belem a Macapà, circa 350 chilometri, con in mezzo tante isole, grandi e piccole. Nei voli diretti da Belem (capitale del Parà) a Manaos (capitale dello stato di Amazonas), l’aereo di linea impiega circa tre ore e mezzo (da Milano a Roma 45 minuti).

La prima volta che sono andato in Amazzonia, non c’erano ancora strade, i mezzi di trasporto erano solo le canoe a remi per le brevi distanze e i barconi a motore diesel per i lunghi tratti e anche i piccoli aerei a quattro o sei posti di cui erano fornite le varie diocesi. A Macapà, nel territorio federale dell’Amapà (oggi stato) ai confini con la Guyana francese, i missionari del Pime avevano un aereo Cessna a 4 posti che faceva servizio fra le missioni più distanti, guidato da un giovane volontario americano, bravo pilota anche se troppo spericolato. Il coraggio infatti, non lo si dimostra buttandosi nel pericolo o rischiando incidenti mortali:e quando si vola con un piccolo aereo senza radio e senza grande autonomia di volo, sulla foresta compatta per centinaia di chilometri, trovando la direzione con la bussola e a occhio nudo, i rischi sono sempre mortali.

Un bel giorno dovevamo tornare da Oiapoque, all’estremo Nord dell’Amapà ai confini con la Guyana francese, a Macapà: 450 km. In linea d’aria che si percorrono normalmente in due ore volando a pochi decine di metri sulla foresta e sui fiumi. Prudenza vuole che questi voli si facciano solo di mattino e solo con il cielo assolutamente sereno: se ci sono nubi, diventa pericoloso volare.

Ma Robert, il volontario americano, quel giorno volle partire nel primo pomeriggio. Eravamo con lui, tre sacerdoti: p. Giorgio Basile (in Amazzonia da quasi 20 anni), don Natale Soffientini della Televisione italiana e il sottoscritto. Il cielo partendo era sereno, ma dopo un’ora di volo cominciò ad essere nuvoloso; per di più tirava un forte vento contrario alla nostra direzione che rallentava il volo, facendoci perdere tempo prezioso. P. Giorgio e Robert discutono animatamente: il primo dice che bisogna tornare indietro ad Oiapoque, il secondo è deciso a proseguire, con il rischio di arrivare a Macapà quando è già buio. Macapà è proprio sulla linea dell’Equatore, dove il sole tramonta invariabilmente alle 18 e dopo pochi minuti è già notte.

Io non avverto il pericolo a cui andiamo incontro e mi godo la visione della foresta, che dall’aereo appare come una massa granulosa e compatta di verde cupo, chiazzata qua e là di giallo scuro per la caduta di qualche albero gigante abbattuto dalla folgore, solcato dai nastri grigiastri dei fiumi dalle mille giravolte: uno sterminato tappeto, morbido all’apparenza, che segue tutte le ondulazioni del terreno. Sulle rive dei fiumi, che seguiamo come unico segno di orientamento, ogni tanto compare un gruppo di capanne: la gente esce ed agita fazzoletti e braccia all’aereo della missione, che tutti conoscono perché quando è necessario va a prendere gli ammalati gravi atterrando nei campi da gioco dei villaggi più importanti.

Come padre Giorgio aveva previsto, il vento contrario ritarda il nostro volo: giungiamo su Macapà che è già quasi buio, con bassi nuvoloni neri carichi di pioggia. Oggi Macapà ha un grande e moderno aeroporto capace di accogliere anche aerei intercontinentali, ma 50 anni fa l’aeroporto era solo un pista di terra battuta senza alcuna illuminazione, usata due volte la settimana per l’aereo di linea che giungeva e ripartiva subito per Belem. Sul piccolo Cessna che arranca consumando gli ultimi litri di carburante, nessuno ha voglia di parlare: ciascuno prega in silenzio. Robert passa a volo radente sulla cittadina suonando il clakson dell’aereo. Fa 3-4 giri con quel suono petulante che è un grido di allarme e di aiuto. Dall’alto vediamo le poche luci della città, ma assolutamente non si vede nulla della pista d’atterraggio. Allora, in pochi minuti auto e camion escono nella notte e vanno a posarsi lungo la pista, uno di fronte all’altro con le luci accese. Ora si vede bene dove atterrare: il Cessna, saltellando sul terreno non ben spianato, chiude felicemente il viaggio posandosi sulla solida, amica terra.

Da soli non ce l’avremmo mai fatto ad atterrare. Nella vita possiamo sempre avere bisogno degli altri e dobbiamo essere disposti a dare una mano a chi è in necessità.

(Articolo tratto dal blog “ARMAGHEDDO. L’attualità vista da padre Piero Gheddo, missionario-giornalista”. L’indirizzo del sito ufficiale di padre Gheddo è http://www.gheddopiero.it/)

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ZENIT Staff

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