Un ostinato desiderio

L’insegnamento di Teresa d’Avila

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In un’intervista televisiva rilasciata da un “femminicida” che aveva ucciso la propria compagna dopo l’ennesimo litigio, l’uomo ribadiva continuamente al giornalista che di fronte alla sua donna lui non aveva parole, non aveva parole di risposta a quelle che la vittima con vigore pronunciava per argomentare le proprie richieste o i propri dinieghi.
La donna da sempre intrattiene con la parola rapporti magici, ma è anche vero che per redimere una donna basta toccarla con la parola. Teresa d’Avila ha fatto della parola un ponte tra la strada e il chiostro. Ha costruito il proprio castello interiore edificandolo sul suo spirito arguto ed acuto. È il paradosso della rivelazione, raccontare un mistero che resta nel senso etimologico del termine indicibile ed è solo praticabile.
Teresa con la sua capacità di osservazione e auto-osservazione ha anticipato il concetto di autocoscienza e di analisi. Ha avuto accesso al proprio codice interiore, dopo aver sfiorato la morte, e ammesso la propria fragile dipendenza. Dalle cose del mondo, dai piaceri della tavola e della conversazione che sempre la trascinavano fuori da quello che per lei sarebbe stato il discorso più importante. Famosa per le sue estasi, spettacolarizzazione agiografica che non le rende i meriti della sua faticosa ricerca. Una ricerca che richiede fedeltà ed impegno assoluti, anche se innumerevoli volte si cade e ci si rialza.
Con pazienza di formica Teresa ha ricostruito passo dopo passo l’itinerario della mente a Dio. Con la scandalosa eccedenza del suo amore Teresa ha abitato pienamente la via mistica, dove l’intensità assorbe l’eternità. Con il suo castello interiore, composto di stanze e spazi, i cui confini sono traforati dalla luce, ha aperto i luoghi di soglia. Chi saprà avvicinarsi così tanto a noi, da domandarci: “Qual è il tuo tormento?”. Quella fenditura, che portiamo inflitta nel cuore, come certe Madonne del sud, con i loro abiti di velluto pesante e la spada che trafigge il petto.
La tecnica giapponese del kintsugi nasconde nel nome il potere di riparare con l’oro preziose porcellane frantumate dal tempo e dall’incuria. Se ciò che si è spaccato può essere riunificato dall’oro, il valore di quell’unione porterà in dote il segno della sua guarigione. Il tormento senza parole, del femminicida, della vecchiaia cronicizzata nei lager geriatrici, fatta solo di minestrine e torpore. Teresa, sopraffatta dal proprio tormento estatico, fa della parola la sua imitatio Christi. Come più tardi per Cristina Campo e Simone Weil, la scrittura diventa poesia liturgica, celebrazione incessante del rito, del mistero, della purezza.
Quando hanno chiesto a Charles Stang Harwar, storico delle religioni, perché i mistici scrivessero, la sua risposta è stata: «I mistici scrivono per diventare mistici. Si tratta di un misticismo dinamico». 
La mistica tenta la via reale del godimento attraverso la scrittura. Teresa, a differenza dell’isterica, sa bene ciò che vuole. Ha un intento preciso, vuole un padre spirituale, vuole riformare la chiesa e vuole qualcuno che la sostenga nel suo progetto. La mistica di Teresa tenta la via reale del godimento, attraverso la scrittura e la potenza delle immagini. 
«Gli vedevo nelle mani un lungo dardo d’oro, che sulla punta di ferro mi sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, così profondamente che mi giungeva fino alle viscere, e quando lo estraeva sembrava portarselo via, lasciandomi tutta infiammata di grande amore di Dio (Santa Teresa d’Avila, Autobiografia, XXIX, 13).
Non sembrerebbe questo amore la pura essenza del desiderio? Quel desiderio che ci chiama fuori dalle case paterne, che ci fa assumere la responsabilità di noi stessi, diventando orientamento operativo in questa vita?
A Teresa dobbiamo la coscienza. Teresa può essere la nostra santa lupa che ci allatta, c’insegna ad essere libere nella ricerca del nostro ostinato desiderio. E che se tale vigorosa ricerca include la maternità, che sia questa liberata dall’angustia dell’accudire senza fissa attenzione, ma generosa di parole di senso. Giacché solo diventando madri del segno, possiamo aprire la strada ad un nuova educazione sentimentale fatta di verità e di buone parole.
Non è un caso che la psicoterapeuta Sylvia Leclerc si sia interessata a Teresa così come all’anoressia. Le rigide regole che Teresa impone, nella sua riforma dell’ordine carmelitano, non vogliono praticare o ricercare la frustrazione, ma la liberazione. E questa estenuante ricerca, che tutti i neonati, esplicano dal primo fotone intravisto, pretende da noi una sollecitata risposta.
Se custodiamo la coscienza, attraverso l’ordine armonico dell’intelletto, ci si può salvare dal danneggiare noi stessi e il nostro prossimo. Si può estinguere il dramma consunto di intere generazioni. Abbandoni e abusi, a cui le anime più esposte e sensibili non sanno dare una forma coesa.
Scrive ancora Julia Kristeva:«Oggi il ritorno della tradizione e la centralità della maternità rimettono in discussione le conquiste del femminismo. Ciò è vero soprattutto quando la maternità è prigioniera delle preoccupazioni materiali e sanitarie. Teresa c’insegna che occorre riuscire a pensare dal punto di vista dell’altro. Non dobbiamo proiettare sui figli i nostri desideri, le nostre angosce, i nostri bisogni, ma considerarli come un altro da sé, cercando di sviluppare la loro alterità. In questa prospettiva, le donne saranno all’avanguardia della civiltà. Come ha fatto Teresa, ogni donna deve cercare di essere singolare. Occorre rifondare l’umanesimo in una direzione che stimoli le singolarità. È questo l’insegnamento di Teresa”.
 

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Francesca Serra

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