Un ct tutto gol e preghiera

Un ritratto dell’allenatore degli Azzurri, Cesare Prandelli

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di Daniele Trenca

ROMA, giovedì, 26 luglio 2012 (ZENIT.org).– L’Italia di Euro 2012 verrà ricordata per il bel gioco, per i “bad boys” Cassano e Balotelli, ma soprattutto per il proprio allenatore, quel Cesare Prandelli dal comportamento pacato che da sempre ne fanno un ritratto tranquillo dalla profonda religiosità.

Il commissario tecnico bresciano, che allena gli azzurri dal maggio 2010, non ha mai nascosto la sua fede cattolica, una devozione che gli ha permesso di superare momenti difficili della sua vita, come la perdita di sua moglie Manuela nel 2007. Una peculiarità che va oltre il rettangolo di gioco e che durante l’Europeo di Calcio, svoltosi nella patria di Papa Wojtyla, è riuscito a far convivere in uno sport a volte ostile, che utilizza spesso i simboli sacri solo per scaramanzia.

Una competizione quasi perfetta, quella giocata dall’Italia, fermata solo in finale da una super Spagna. Vittorie importanti fatte non solo di schemi, tattiche e gol, ma anche di preghiere e pellegrinaggi post partita. Prandelli, dopo le vittorie contro Irlanda, Inghilterra e Germania ha visitato, insieme a tutto lo staff azzurro, importanti luoghi di spiritualità polacca. Dopo aver guadagnato l’accesso ai quarti di finale, con la vittoria sulla squadra di Trapattoni, ha svolto un pellegrinaggio di 21 chilometri, in piena notte, per raggiungere i frati camaldolesi, che si trovavano ad una ventina di chilometri dal loro albergo. Dopo la lotteria dei rigori, contro gli inglesi di Hodgson invece Prandelli ha scelto di visitare il santuario della Divina Misericordia, consacrato nel 2002 da Giovanni Paolo II, percorrendo 11 chilometri, con rientro a notte fonda. Per ultimo, dopo la doppietta di Balotelli che ha steso la Germania di Löw, in marcia verso la Parrocchia della Sacra Famiglia, 5 chilometri. Tre luoghi carichi di spiritualità che gli sono valsi anche i complimenti del Pontefice Benedetto XVI.

Da sempre il bisogno di religiosità nel calcio tende a mischiare sacro e profano, da una parte c’è chi si professa credente e chi invece utilizza determinati simboli soltanto come gesti scaramantici, prima di entrare in campo o di calciare un rigore decisivo. Anche nella vita dei calciatori, fatta di soldi, successo ed eccessi, sono proprio i periodi difficili della loro vita, che li invitano a riflettere sul vero senso dell’esistenza, orientando così la loro realtà verso una determinata confessione religiosa. Nel corso degli anni sono numerosi gli esempi di calciatori, che anche nei momenti di trionfo hanno ringraziato il proprio Creatore.

Ai Campionati del Mondo del 2002 a Yokohama il Brasile diventa “Penta Campeon“. Nessuno finora è stato in grado di eguagliare i 5 titoli mondiali della nazionale verdeoro. Subito dopo il fischio finale la nazionale si è radunata in circolo in preghiera per ringraziare Dio. A metà degli anni ottanta ci fu l’irruzione del gruppo degli “Atleti di Cristo”, che ha trasformato il rapporto tra lo sport e la religione, almeno per quanto riguarda l’aspetto comunicativo. In Italia il fenomeno divenne visibile quando alla Lazio approdò Amarildo: che si presentava consegnando una Bibbia all’interlocutore. Sulla sponta romanista Damiano Tommasi non ha mai nascosto la sua fede cattolica, così come il neocampione d’Europa Jesus Navas, che che nella valigia porta sempre la Bibbia e sugli scarpini l’incisione “Dio è amore”. Molte ovviamente le confessioni professate all’interno del rettangolo di gioco: dall’Islam, che ha tra i fedeli il francese Nicholas Anelka agli Evangelici come il bomber del Napoli Edinson Cavani fino al buddismo con Roberto Baggio.

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ZENIT Staff

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