Tre donne africane contro l'AIDS, testimoni dell'amore cristiano

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di Antonio Gaspari

RIMINI, mercoledì, 27 agosto 2008 (ZENIT.org).- La sala era strapiena, tanto che gli organizzatori hanno deciso di collegarla in diretta con gli altri spazi della Fiera. Le relatrici hanno raccontato esperienze che sono un inno alla vita, e la gente è uscita con gli occhi umidi dalle lacrime.

Martedì 26 agosto si è svolto al Meeting di Rimini, l’incontro dal titolo “Si puo vivere cosi”. Tre donne africane Marguerite Barankitse, Rose Busingye e Vicky Aryenyo hanno raccontato storie strazianti, con famiglie devastate dalle guerre e dall’aids; con bambini ammalati, maltrattati e perseguitati dalle varie fazioni in contrasto.

In questo contesto di male, la vita e il bene stanno però trionfando, perché queste donne si stanno spendendo in opere di carità cristiana, che salva tutti.

Ha cominciato Rose Busingye, una infermiera professionale ugandese, specializzata in malattie infettive. Dal 1992 Rose cura e assiste pazienti malati di AIDS. Per questa attività ha fondato l’International Meeting Point di Kampala, che si occupa non solo dei malati ma delle famiglie dei malati e soprattutto degli orfani.

Rose ha spiegato che la forza per opporsi a tanto male l’ha trovata nel “valore infinito delle persone” che possono vincere “l’orrore delle guerre e delle malattie”.

“E’ il riconoscimento dell’altro – ha continuato Rose – che crea la realtà, e resta presente nella compagnia della Chiesa”.

“Ciò che può dare valore a tutta la nostra libertà – ha sottolineato l’infermiera ugandese – è qualcosa di più grande,è un rapporto”.

Secondo Rose, “un io che appartiene, diviene protagonista perché ha un volto” ed è questo che “rende la vita danzante”.

Commovente la testimonianza di Marguerite Barankitse, una burundese che ha salvato decine di migliaia di persone, soprattutto bambini, di etnia hutu ed tutsi.

Per questo oggi è chiamata “l’angelo del Burundi” ed ha ricevuto diversi riconoscimenti internazionali, tra cui il “Prix des Droits de l’Homme” del governo francese, il “Prix Shalom” in Germania, il premio Internazionale per i rifugiati dell’Alto Commissariato ONU e la laurea Honoris causa dell’Università di Lovanio.

Nel 1993, in seguito all’assassinio del primo presidente Hutu eletto democraticamente in Burundi, è esplosa la guerra civile scatenata dall’etnia tutsi che da sempre dominava il Paese.

In un contesto che ha visto il massacro di almeno duecentomila persone, Marguerite si è chiesta dove fosse il Dio dell’amore, ma prima ancora di avere la risposta, ha cominciato ad aiutare e raccogliere i bambini rimasti orfani.

Ha cominciato con i primi quattro bambini, hutu e tutsi, nascosti insieme ad altre famiglie nella casa del Vescovo di Ruygi.

Ma la casa viene attaccata e sessanta rifugiati vengono trucidati dinanzi agli occhi di Marguerite.

“Erano miei amici, gente che volevo salvare. Credevo fossero al sicuro – ha raccontato l’angelo del Burundi –. Risparmiarono solo me perché sono tutsi, ma mi picchiarono in modo violento perché mi consideravano una traditrice”.

Quando i carnefici si avvicinarono ai bambini, Marguerite offrì tutti i suoi soldi per salvarli. Gli assalitori accettarono.

Da allora l’angelo del Burundi ha salvato più di diecimila bambini, alcuni mutilati o malati di Aids.

Marguerite ha raccontato che ogni sera guardava i bambini negli occhi e vedeva “una speranza che non veniva mai meno” ed ha aggiunto: “fu allora che capii che era Dio a rispondermi attraverso il loro sguardo”.

L’angelo del Burundi ha organizzato l’assistenza ai bambini in fondazioni di villaggi “Maison Shalom” dove le famiglie li hanno accolti e accuditi. Oggi molti di loro sono sposati, medici, economisti, infermieri e continuano a collaborare alla missione, per questo, nonostante l’orrore passato ha concluso affermando che “la vita è una festa”.

Marguerite ha raccontato che ancora oggi qualcuno in Burundi dice che la sua è stata una follia, per questo la chiamano “la pazza del Burundi”, “ma io dico – ha aggiunto– che questo è il frutto dell’amore”.

Per concludere, ha ricordato un insegnamento di Madre Teresa di Calcutta, la quale una volta disse: “Invece di maledire le tenebre, accendiamo una piccola candela”.

Commovente anche la testimonianza di Vicky Aryenyo, una volontaria ugandese che si occupa di assistere i malati di AIDS al Meeting Point International.

Vicky ha raccontato di aver maledetto tutto e tutti quando ha scoperto che sia lei che il terzo dei suoi figli erano malati di AIDS.

Non riusciva a capacitarsi del male che aveva colpito un piccolo innocente, e ha confessato di aver pregato perché suo marito, responsabile dell’infezione, morisse.

Disperata e sempre più povera, Vicky era convinta di morire e respingeva ogni aiuto.

Rose Busingye l’ha cercata, l’ha inseguita, ha cercato in tutti i modi di convincerla a curarsi. Vicky rifiutava, finchè Rose una volta non gli ha detto: “Dammi il bambino perché lui ha una vita da vivere”.

Per amore del figlio, Vicky accettò di frequentare il centro e da allora è rinata.

“Io non morirò schiava del virus – ha detto – perché ho imparato a dire sì alla croce che devo portare”.

“Sappiamo che Lazzaro è resuscitato – ha detto poi Vicky –. Se non avete visto un miracolo, eccolo, sono io; anch’io infatti ero morta. Tutto è cominciato con un incontro e questo incontro ha fatto risorgere la mia vita. Rose mi ha dato una spalla sulla quale appoggiarmi a Cristo”.

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ZENIT Staff

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