Tra Basilea III e il "credit crunch", quale alternativa?

Nel 2014, l’Europa passerà da un sistema banco-centrico a un sistema aperto ad una finanza sussidiaria

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Dal prossimo anno verrà gradualmente introdotta in Europa la normativa prevista da Basilea III, con i suoi nuovi requisiti patrimoniali per gli istituti di credito e i limiti ai bonus dei banchieri. Mentre gli Stati Uniti per ora staranno a guardare, la domanda è: quali conseguenze la normativa di Basilea III avrà sulle banche, le imprese e le famiglie?

Partiamo da un dato di fatto: il livello dei tassi di interesse nei prossimi mesi rimarranno bassi sia negli Stati Uniti che in Europa, a meno che non si verifichino impennate impreviste nei prezzi o nella domanda aggregata, ovvero focolai di instabilità finanziaria.

I governatori delle quattro maggiori banche centrali dell’economia sviluppata – americana, europea, inglese e giapponese – hanno chiaramente affermato che la loro politica monetaria, pur nella diversità degli obiettivi, possiede almeno un tratto comune nella previsione dell’andamento dei tassi di interesse da loro governati.

Se non ci trovassimo in un periodo post crisi sistemica del capitalismo finanziario, una simile notizia sarebbe positiva per il finanziamento delle imprese: ai tassi stabilmente più bassi corrisponderebbe un profilo crescente nella disponibilità di credito, e decrescente nel costo del credito stesso. Purtroppo i nostri tempi, però, non sono tempi normali.

Partiamo dall’Europa nel suo complesso. Il credito che le banche erogano alle imprese rappresenta circa il 70% del finanziamento complessivo, contro un 25%, ad esempio, degli Stati Uniti. In Italia la percentuale addirittura supera il 92% (fonte Standard & Poor’s – S&P). A questo aggiungiamo Basilea III, la recessione patrimoniale e la situazione del credit crunch destinata a perdurare nel tempo.

Difatti se le banche europee vogliono migliorare stabilmente la loro redditività e patrimonializzazione (fondamentale per Basilea III), saranno spinte non ad aumentare il credito, ma a diminuirlo, non a ridurre i prezzi, ma ad aumentarli. Nei prossimi mesi, il quadro congiunturale e strutturale continuerà ad essere stabilmente incerto; nel caso del nostro Paese i deficit strutturali e di produttività dovranno essere affrontati.

Ciò significa che il credito commerciale – che già di solito segue il ciclo economico, non certo lo anticipa – non potrà che stagnare, visto che aumentare il buon credito (cioè a basso tasso di sofferenza) sarà estremamente difficile con la recessione in corso. Basilea III e i problemi strutturali e congiunturali hanno fatto innalzare l’avversione al rischio delle banche, che tenderanno a ridurre il loro livello di indebitamento verso imprese e famiglie, se vorranno mantenere in equilibrio la qualità del bilancio e solidità patrimoniale.

Questo sarà particolarmente vero in Italia, dove ogni euro in più di credito è zavorrato dai tre pesi imposti dal sistema Paese: la fiscalità, l’inefficienza delle infrastrutture pubbliche, l’instabilità politica.

Come uscire da questa nuova crisi sistemica dell’accesso al credito commerciale all’economia reale? Del crowdfunding civic abbiamo già scritto in precedenti articoli. Un’altra strada sono i minibond, nati un anno fa in Italia, proprio per disarticolare il credito dal mondo bancario un anno fa, su un’idea dell’allora ministro dello sviluppo Corrado Passera, fatta propria dal governo Monti, ed ora di nuovo all’attenzione del governo Letta.

Fino a quel decreto, per tutte le imprese non quotate in Borsa era praticamente impossibile emettere prestiti obbligazionari sul mercato: gli handicap fiscali e normativi erano quasi insormontabili. Questo le costringeva ad avere solo la banca come fonte di finanziamento. E infatti, come detto, le imprese italiane sono alimentate tutt’ora per il 92% dei finanziamenti in banca e solo l’8% sul mercato obbligazionario.

Tale situazione è dovuta al fatto che la maggior parte delle imprese non è quotata in Borsa, e dunque fino a pochi mesi fa non poteva emettere bond. Ma soprattutto è legato la fatto che, in Italia, le imprese sono piccole. Secondo i dati presentati da Andrea Crovetto, direttore generale di Banca Finnat, in una recente audizione in Parlamento, 89.800 imprese in Italia hanno un fatturato tra i 2 e i 10 milioni di euro, 22.300 tra i 10 e i 50 milioni e poche migliaia hanno ricavi superiori. Imprese così piccole non possono ovviamente emettere bond da 100 o 200 milioni, che rappresentano la stazza minima in Europa. L’unico modo per dare loro accesso al mercato, è di creare un mercato nuovo di minibond.

I minibond sono un buon esempio del corretto mix di regola finanziaria e politica della tassazione: in altre parole è un ottimo strumento che può aumentare la domanda di capitali da parte delle PMI (Piccole e medie imprese). Nella relazione che allora accompagnò la norma si stimava una potenziale platea di 650 imprese, per la copertura di un fabbisogno di capitale di 10 miliardi.

Quindi stiamo parlando di un tassello, guidato da un binomio quasi sistematicamente assente nel disegno delle regole finanziarie italiane: come si può coniugare la ricerca di una maggiore efficienza dei mercati finanziari con quella di garantire l’efficacia dell’azione pubblica, in un sistema da un lato banco-centrico e dall’altro a forte inefficienza fiscale? Il disegno dei minibond ha cercato di iniziare a rispondere a questo quesito. Le norme hanno visto, da un lato, un accompagnamento bancario alla disintermediazione bancaria delle imprese; dall’altro, un intervento sulla fiscalità dell’operazione, anch’esso inevitabile in un Paese come il nostro con PMI cosi piccole che non possono chiedere capitali in Borsa.

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Carmine Tabarro

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