Terza predica di padre Cantalamessa per la Quaresima 2010

“Se tornerai a me…”

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<p>CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 26 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la terza e ultima predica di Quaresima che padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., ha tenuto questo venerdì mattina nella cappella Redemptoris Mater, alla presenza di Benedetto XVI e dei suoi collaboratori della Curia romana.

Il tema delle meditazioni di quest’anno è “Dispensatori dei misteri di Dio. Il sacerdote, ministro della Parola e dei sacramenti”, in continuità con la riflessione sul ministero episcopale e presbiterale iniziata in Avvento.

La precedenti prediche sono state pronunciate il 5 e il 12 marzo.

 

 

* * *

 

1. La crisi del sacerdote

Nella Scrittura troviamo la descrizione della crisi interiore di un sacerdote nella quale molti pastori  di oggi, sono sicuro, si riconoscerebbero. È quella di Geremia che, prima di essere un profeta fu un sacerdote, “uno dei sacerdoti che risiedevano in Anatot” (Ger 1,1).

“Ti ho servito come meglio potevo, mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico…Io non mi sono seduto assieme a quelli che ridono, e non mi sono rallegrato….Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti” (Ger 15, 11-18). In un altro momento la crisi esplode in maniera ancor più aperta: “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre…Mi dicevo: ‘Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!” (Ger 20, 7-9).

Qual è la risposta di Dio al profeta e sacerdote in crisi? Non un “Poverino, hai ragione, come sei infelice!”. “Allora, il Signore mi rispose: “Se tornerai, io ti farò tornare e starai alla mia presenza; se  saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che vile, sarai la mia bocca” (Ger 15, 19). In altre parole: conversione!

Parlando della novità del ministero della nuova alleanza abbiamo visto che essa consiste nella grazia, cioè nel fatto che il dono precede il dovere e che il dovere scaturisce proprio dal dono. Applichiamo ora questo principio fondamentale al ministero sacerdotale. Quello che abbiamo considerato finora costituiva la grazia sacerdotale, il dono ricevuto: ministri di Cristo, dispensatori dei misteri di Dio. Non possiamo concludere le nostre riflessioni senza mettere in luce anche il dovere e l’appello che scaturisce da esso, per così dire l’ex opere operantis del sacerdozio. Tale appello è lo stesso che Dio rivolse a Geremia: conversione!

Credo di interpretare la preoccupazione più volte espressa in passato dal Santo Padre e che ha motivato, almeno in parte, la proclamazione di questo anno sacerdotale, dedicando quest’ultima meditazione alla necessità di una purificazione all’interno della Chiesa, a partire dal suo clero.

L’appello alla conversione risuona nei momenti cruciali del Nuovo Testamento: all’inizio della predicazione di Gesù: “Convertitevi e credete al vangelo” (Mc 1,15); all’inizio della predicazione apostolica, il giorno di Pentecoste: “Che dobbiamo fare, fratelli? E Pietro rispose: “Convertitevi e fatevi battezzare e riceverete lo Spirito Santo!” (At 2, 37). Ma non sono questi i contesti che riguardano più direttamente noi sacerdoti. Noi abbiamo creduto al vangelo, siamo stati battezzati e abbiamo ricevuto lo Spirito Santo. C’è un altro “convertitevi!” che ci riguarda da vicino, quello che risuona all’interno di ognuna delle sette lettere alle chiese dell’Apocalisse. Esso non è rivolto a non credenti o neofiti, ma a persone che vivono da tempo nella comunità cristiana.

Un dato rende queste lettere particolarmente significative per noi: esse sono rivolte al pastore e al responsabile di ognuna delle sette chiese. “All’angelo della chiesa che è in Efeso scrivi”: non si spiega il titolo angelo se non in riferimento, diretto o indiretto, al pastore della comunità. Non si può pensare che  lo Spirito Santo attribuisca a degli angeli reali la responsabilità delle colpe e delle deviazioni che vi  sono nelle diverse chiese e che l’invito alla conversione sia rivolto ad essi.

2. “Sii fedele fino alla fine”

Rileggiamo alcune di queste lettere, cercando di cogliere in esse gli elementi di una autentica conversione del clero, diaconi, sacerdoti e vescovi. Iniziamo dalla prima lettera, quella alla chiesa di Efeso. Notiamo anzitutto una cosa. Il Risorto non comincia il suo discorso dicendo ciò che non va nella comunità. Questa lettera, come quasi tutte le altre, inizia mettendo in rilievo il positivo, il bene che si fa nella chiesa: “Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza…Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti” (Ap 2, 2).

Solo a questo punto interviene l’appello alla conversione: “Ho  però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore. Ricorda dunque da dove sei caduto, convertiti (metanoeson) e compi le opere di prima”. L’appello alla conversione prende l’aspetto di un ritorno al primitivo fervore  e amore per Cristo. Chi di noi sacerdoti non ricorda con commozione il momento in cui ci rendemmo conto di essere chiamati da Dio al suo servizio, il momento della professione per i religiosi, l’entusiasmo dei primi anni di ministero per i sacerdoti? È vero che lì c’era anche il fattore dell’età, la gioventù. Ma in questo caso non si tratta di natura: grazia era allora e grazia può essere oggi. 

“Ti ricordo, scriveva l’Apostolo al discepolo Timoteo,  di ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l’imposizione delle mie mani” (2 Tim 1,6) Il termine greco che viene tradotto con “ravvivare” suggerisce l’idea di soffiare sul fuoco perché torni ad ardere, riaccendere la fiamma. In una delle meditazioni di Avvento, abbiamo visto come l’unzione sacramentale, ricevuta nell’ordinazione, può tornare ad essere attiva e operante mediante la preghiera e un soprassalto di fede. Anche l’autore della lettera agli Ebrei ammoniva i primi cristiani a ricordare il loro iniziale entusiasmo: “Ricordatevi di quei primi giorni…” (Eb 10,32).

Della lettera alla chiesa di Efeso riteniamo dunque il pressante invito a ritrovare l’amore e il fervore di un tempo. Un’altra componente della conversione sacerdotale lo troviamo nella lettera alla chiesa di Smirne. Anche qui, il Risorto mette anzitutto in luce il positivo: “Conosco la tua tribolazione, la tua povertà…”, ma segue subito l’appello: “Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita”.

Fedeltà! Il Santo Padre ha messo questa parola come titolo e programma all’anno sacerdotale: “Fedeltà di Cristo e fedeltà del sacerdote”. La parola fedeltà ha due significati fondamentali. Il primo è quello di costanza e di perseveranza; il secondo, è quello di lealtà, correttezza, l’opposto insomma di infedeltà, inganno e tradimento.

Il primo significato è quello presente nelle parole del Risorto alla chiesa di Smirne, il secondo è quello inteso da Paolo nel testo che abbiamo scelto come guida delle nostre riflessioni: “Ognuno ci consideri servitori di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele” (1 Cor 4, 1-2). Questa parola richiama, forse volutamente, quella di Gesù nel vangelo di Luca: “Chi è l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito?” (Lc 12, 42). Il contrario di questa fedeltà è quello che fa, nella parabola, l’amministratore infedele (Lc 16, 1 ss.).

A questa fedeltà si oppone il tradimento della fiducia di Cristo e della Chiesa, la doppia vita, il venir meno ai doveri del proprio stato, soprattutto per quanto riguarda il celibato e la castità. Sappiamo per dolorosa esperienza quanto danno può venire alla Chiesa e alle anime da questo tipo di infedeltà. È la prova forse più dura che la Chiesa sta attraversando in questo momento.

3. “Alla chiesa di Laodicea scrivi
…”

La lettera che deve farci riflettere più di tutte è quella all’angelo della chiesa di Laodicea. Ne conosciamo il tono severo: “Conosco le tue opere: tu non sei ne freddo né caldo…Poiché sei tiepido, non sei cioè ne freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca…Sii zelante e convertiti” (Ap 3, 15 s).

La tiepidezza di una parte del clero, la mancanza di zelo e l’inerzia apostolica: io credo che sia questo a indebolire la Chiesa più ancora degli scandali occasionali di alcuni sacerdoti che fanno più chiasso e contro i quali è più facile correre ai ripari. “La grande sventura per noi parroci -diceva il Santo Curato d’Ars – è che l’anima si intorpidisce”[1]. Lui non era certamente nel numero di questi parroci, ma questa sua frase fa pensare.

Non si deve generalizzare (la Chiesa è ricca di sacerdoti santi che compiono silenziosamente il loro dovere), ma guai anche a tacere. Un laico impegnato mi diceva con tristezza: “La popolazione del nostro paese negli ultimi vent’anni è cresciuta di oltre tre milioni di abitanti, ma noi cattolici siamo fermi al numero di prima. Qualcosa non va nella nostra chiesa”. E conoscendo quel clero, sapevo cosa non andava: la preoccupazione di molti di loro non erano le anime, ma i soldi e le comodità.

Vi sono luoghi dove la Chiesa è viva ed evangelizza quasi solo per l’impegno e lo zelo di alcuni fedeli laici e aggregazioni laicali che per altro vengono a volte ostacolati e guardati con sospetto. Sono essi spesso che spingono i propri sacerdoti, pagando loro viaggio e soggiorno, a partecipare a un ritiro o a esercizi spirituali che diversamente non farebbero mai.

A volte sono proprio coloro che meno fanno per il regno di Dio  quelli che più ne reclamano i vantaggi. San Pietro e san Paolo, entrambi, hanno sentito il bisogno di mettere in guardia dalla tentazione di atteggiarsi a padroni della fede: “Non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, ma fatevi modelli del gregge” (cf. 1 Pt 5,3), scrive il primo; “Noi non vogliamo farla da padroni sulla vostra fede, ma essere collaboratori della vostra gioia”, scrive il secondo ( 2 Cor 1, 24).

Ci si atteggia a padroni della fede, per esempio, quando si considerano tutti gli spazi e i locali della parrocchia come cose proprie da concedere a chi si vuole, anziché come beni di tutta la comunità, dei quali si è custodi, non proprietari.

Trovandomi a predicare in un paese europeo  che era stato in passato una fucina di sacerdoti e di missionari e che ora attraversava una crisi profonda, chiesi a un sacerdote del posto qual era secondo lui la causa di ciò. “In questo paese, mi rispose, i sacerdoti, dal pulpito e dal confessionale, decidevano tutto, perfino chi uno doveva sposare e quanti figli doveva avere. Quando si è diffuso nella società il senso e l’esigenza della libertà individuale, la gente si è ribellata  e ha voltato del tutto le spalle alla Chiesa”. Il clero si sentiva “padrone della fede”, più che collaboratore della gioia della gente.

Le parole rivolte dal Risorto alla chiesa di Laodicea: “Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”, fanno pensare a un’altra grande tentazione del clero quando viene meno la passione per le anime, è cioè la brama del denaro. Già san Paolo lamentava amaramente: “Omnia quae sua sunt quaerunt, non quae Jesu Christi“: tutti cercano il proprio interesse, non quello di Cristo (Fil 2, 21) Tra le raccomandazioni più insistenti agli anziani, nelle Lettere pastorali, c’è quella di non essere attaccati al denaro ( 1Tim 3, 3). Nella Lettera di indizione dell’anno sacerdotale il Santo Padre presenta il Santo Curato d’Ars come modello di povertà sacerdotale. “Egli era ricco per dare agli altri ed era molto povero per se stesso”. Il suo segreto era: “dare tutto e non conservare niente”.

Nel suo lungo discorso sui pastori[2], sant’Agostino proponeva a suo tempo, per un salutare esame di coscienza, l’apostrofe di Ezechiele contro i pastori negligenti. Non è male riascoltarla, almeno per sapere cosa è si deve evitare nel ministero sacerdotale:

“Guai ai pastori d’Israele che non hanno fatto altro che pascere se stessi! Non è forse il gregge quello che i pastori debbono pascere? Voi mangiate il latte, vi vestite della lana, ammazzate ciò che è ingrassato, ma non pascete il gregge. Voi non avete rafforzato le pecore deboli, non avete guarito la malata, non avete fasciato quella che era ferita, non avete ricondotto la smarrita, non avete cercato la perduta, ma avete dominato su di loro con violenza e con asprezza” (Ez 34, 2-4).

4. “Ecco, io sto alla porta e busso”

Ma anche la severa Lettera alla chiesa di Laodicea, come tutte le altre, è una lettera d’amore. Essa termina con una delle immagini in assoluto più toccanti della Bibbia: “Io tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo…Ecco: io sto alla porta e busso”.

In noi sacerdoti Cristo non bussa per entrare, ma per uscire. Quando si tratta della prima conversione, dall’incredulità alla fede, o dal peccato alla grazia, Cristo è fuori e bussa alle pareti del cuore per entrare; quando si tratta di successive conversioni, da uno stato di grazia a uno più alto, dalla tiepidezza al fervore, avviene il contrario: Cristo è dentro e bussa alle pareti del cuore per uscire!

Spiego in che senso. Nel battesimo abbiamo ricevuto lo Spirito di Cristo; esso rimane in noi come nel suo tempio (1 Cor 3,16), finché non ne  viene scacciato dal peccato mortale. Ma può succedere che questo Spirito finisca per essere come imprigionato e murato dal cuore di pietra che gli si forma intorno. Non ha la possibilità di espandersi e permeare di sé le facoltà, le azioni e i sentimenti della persona. Quando leggiamo la frase di Cristo: “Ecco io sto alla porta e busso” (Ap 3, 20), dovremmo capire che egli non bussa dall’esterno, ma dall’interno; non vuole entrare, ma uscire.

L’Apostolo dice che Cristo deve essere “formato” in noi (Gal 4, 19), cioè svilupparsi e ricevere la sua piena forma; è questo sviluppo che è impedito dalla tiepidezza e dal cuore di pietra. A volte si vedono ai lati delle strade grossi alberi (a Roma sono in genere pini) le cui radici, imprigionate dall’asfalto, lottano per espandersi, sollevando a tratti lo stesso cemento. Così dobbiamo immaginare che è il regno di Dio nel cuore dell’uomo: un seme destinato a diventare un albero maestoso su cui si posano gli uccelli del cielo, ma che fa fatica a svilupparsi se viene soffocato da preoccupazioni terrene.

Vi sono ovviamente gradi diversi in questa situazione. Nella maggioranza delle anime impegnate in un cammino spirituale Cristo non è imprigionato dentro una corazza, ma per così dire in libertà vigilata. È libero di muoversi, ma dentro limiti ben precisi. Questo avviene quando tacitamente gli si fa capire cosa può chiederci e cosa non può chiederci. Preghiera sì, ma non da compromettere il sonno, il riposo, la sana informazione…; obbedienza sì, ma  che non si abusi della nostra disponibilità; castità sì, ma non fino al punto da privarci di qualche spettacolo distensivo, anche se spinto… Insomma l’uso di mezze misure.

Nella storia della santità l’esempio più famoso della prima conversione, quella dal peccato alla grazia, è  sant’Agostino; l’esempio più istruttivo della seconda conversione, quella dalla tiepidezza al fervore, è santa Teresa d’Avila.  Quello che ella dice di sé nella Vita è probabilmente esagerato e dettato dalla delicatezza della sua coscienza, ma può servire a tutti noi per un utile esame di coscienza. “Di passatempo in passatempo, di vanità in vanità, di occasione in occasione, cominciai a mettere di nuovo in pericolo la mia anima […]. Le cose di Dio mi davano piacere e non sapevo svincolarmi da quelle del mondo. Volevo conciliare questi due nemici tra loro tanto contrari: la vita dello spirito  con i gusti e i passatempi dei sensi”.

Il risultato di questo stato era una profonda
infelicità: ” Cadevo e mi rialzavo, e mi rialzavo così male che ritornavo a cadere. Ero così in basso in fatto di perfezione che non facevo quasi più conto dei peccati veniali, e non temevo i mortali come avrei dovuto, perché non ne fuggivo i pericoli. Posso dire che la mia vita era delle più penose che si possano immaginare, perché non godevo di Dio, né mi sentivo contenta del mondo. Quando ero nei passatempi mondani, il pensiero di quello che dovevo a Dio me li faceva trascorrere con pena; e quando ero con Dio, mi venivano a disturbare gli affetti del mondo”[3]. Molti sacerdoti potrebbero scoprire in questa analisi il motivo di fondo della propria insoddisfazione e scontentezza.

 Fu la contemplazione del Cristo della passione a dare a Teresa la spinta decisiva al cambiamento che fece di lei la santa e la mistica che conosciamo[4].

5. “Voglio sperare!”

Torniamo, per finire, alla risposta di Dio ai lamenti di Geremia. Dio fa al suo profeta convertito delle promesse che acquistano un significato particolare se lette come rivolte a noi sacerdoti della Chiesa cattolica nell’attuale momento di grave disagio che stiamo attraversando: “Se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile”: cioè, se saprai distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario nella tua vita, se preferirai la mia approvazione a quella degli uomini; “tu sarai come la mia bocca”. “Essi devono tornare a te, non tu a loro”: sarà il mondo a cercare il tuo favore, non tu quello del mondo. “Io ti renderò come un muro durissimo di bronzo (questa parola è rivolta ora a lei, Santo Padre); combatteranno contro di te, ma non potranno prevalere, perché io sarò con te” (Ger 15, 19-20).

Quello che occorre in questo momento è un sussulto di speranza; dovremmo tornare a leggere l’enciclica “Spe salvi sumus” del nostro Santo Padre. La Scrittura ci presenta diversi esempi di sussulti di speranza, ma uno mi pare particolarmente istruttivo e vicino alla situazione attuale: la Terza Lamentazione di Geremia. Comincia in tono sconsolato:  “Io sono l’uomo che ha visto l’afflizione sotto la verga del suo furore. Egli mi ha condotto, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce…Io sono diventato lo scherno di tutto il mio popolo, la sua canzone di tutto il giorno. Io ho detto: ‘È sparita la mia fiducia, non ho più speranza nel Signore!” (Lam III, 1-18).

Ma a questo punto è come se il profeta avesse un improvviso ripensamento; dice a se stesso: ” È una grazia del Signore che non siamo stati completamente distrutti; le sue compassioni infatti non sono esaurite;  si rinnovano ogni mattina. Grande è la tua fedeltà!  ‘Il Signore è la mia parte, perciò spererò in lui”.

E dal momento che prende la decisione “Voglio sperare!”, il tono cambia e da cupa lamentazione diventa fiduciosa attesa di restaurazione: “Il Signore è buono con quelli che sperano in lui, con chi lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore.  Porga la guancia a chi lo percuote, si sazi pure di offese!  Il Signore infatti non respinge per sempre;  ma, se affligge, ha pure compassione, secondo la sua immensa bontà;  poiché non è volentieri che egli umilia e affligge i figli dell’uomo” (Lam III, 22-33).

Mi sono trovato a predicare un ritiro al clero di una diocesi americana scosso dalla reazione indiscriminata dell’opinione pubblica di fronte agli scandali di alcuni dei loro membri. Si era all’indomani del crollo delle Torri Gemelle e le macerie materiali sembravano il simbolo di altre macerie. Questo testo della Scrittura contribuì visibilmente a ridare fiducia e speranza a molti.

Cristo soffre più di noi per l’umiliazione dei suoi sacerdoti e l’afflizione della sua Chiesa; se la permette, è perché conosce il bene che da essa può scaturire, in vista di una maggiore purezza della sua Chiesa. Se ci sarà umiltà, la Chiesa uscirà più splendente che mai da questa guerra! L’accanimento dei media – lo vediamo anche in altri casi – a lungo andare ottiene l’effetto contrario a quello da essi desiderato.

L’ invito di Cristo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”, era rivolto, in primo luogo, a coloro che aveva intorno a sé e oggi ai suoi sacerdoti. “Venite a me e troverete ristoro”: il frutto più bello di questo anno sacerdotale sarà un ritorno a Cristo, un rinnovamento della nostra amicizia con lui. Nel suo amore, il sacerdote troverà tutto quello di cui si è privato umanamente e “cento volte di più”, secondo la sua promessa.

Cambiamo  dunque la iniziale protesta di Geremia in ringraziamento: “Grazie Signore, che un giorno ci hai sedotto, grazie che ci siamo lasciati sedurre, grazie che ci dai la possibilità di ritornare a te e ci riprendi dopo ogni tentativo di fuga. Grazie che affidi a noi “la custodia dei tuoi atri” (Zacc 3, 7) e fai di noi “la tua bocca”. Grazie per il nostro sacerdozio!

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[1] Cit. nella Lettera di indizione dell’anno sacerdotale di Benedetto XVI

[2] Cf. Agostino, Sermo 46: CCL 41, pp.529 ss.

[3] Teresa d’Avila, Vita, cc. 7-8.

[4]  Ib.  9, 1-3

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ZENIT Staff

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