Terapia fetale e trattamenti palliativi prenatali

Oggi è possibile curare i bambini ancora in grembo cambiando la storia naturale di molte condizioni patologiche, per restituire vita al feto erroneamente considerato terminale, speranza alla famiglia e dignità scientifica ai medici

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La terapia fetale ha consolidato sempre più il concetto di feto come paziente e negli ultimi 15 anni si è spinta, lì dove il trattamento terapeutico non era possibile, ad attuare trattamenti di palliazione per il feto sia per diminuire le problematiche legate al dolore fetale (palliazione nocicettiva) sia per attuare procedure che pur non essendo risolutive permettono di arrivare ad epoche gestazionali compatibili con la vita postnatale (palliazione clinica).

La terapia fetale quindi è uscita dall’alveo sperimentale ed è diventata un’opzione terapeutica scientificamente validata come risposta a patologie fetali considerate fino a pochi anni or sono non passibili di terapia.

Le metodologie di cura fetale sono essenzialmente 4: transplacentare non invasiva (attraverso la madre), invasiva con aghi e dispositivi eco guidati (invasiva fetoscopica), invasiva open. La prima forma di metodologia terapeutica comprende l’uso di farmaci che passando la placenta vanno a curare patologie del ritmo cardiaco fetale o più recentemente mirano a contenere il danno neurocognitivo nei bambini down.

La seconda forma di terapia fetale comprende vari approcci. Drenare grosse cisti ovariche (tra 4 e 8 cm) di bambine non ancora nate (approccio  intralesionale) permette di far nascere feti che conservano la capacità procreativa futura, evitando la torsione del peduncolo ovarico, la necrosi e la perdita dell’ovaio prima della nascita. Immettere tiroxina nel liquido amniotico con un ago sotto guida ecografica (approccio intramniotico, amnioinfusione) mira ad impedire che un feto con gozzo tiroideo prenatale vada incontro a ritardo mentale. Il gozzo, in effetti, scompare dopo che il feto con i normali atti di deglutizione beve il liquido amniotico come una medicina. In altri casi correggere la mancanza di liquido amniotico con soluzione fisiologica dalla 17° alla 25° settimana (approccio intramniotico, amnioinfusione) permette di aiutare la formazione dei polmoni fetali e così prepararli all’adattamento postnatale (sopravvivenza passata dal 27 al 50%).

Viceversa in caso di gravidanze gemellari in cui uno dei due gemelli ha una grande quantità di liquido amniotico nella sua sacca (sindrome TTTS) l’asportazione di grandi quantità di liquido (approccio amniotico, amnioriduzione) comporta un aumento di sopravvivenza che passa dal 12 al 45%.

In tali casi però il trattamento che migliora ancor più la sopravvivenza e diminuisce la morbilità feto neonatale è il trattamento laser. Questa tecnica appartiene alle metodologie fetoscopiche che mirano a ridistribuire la circolazione fra i due gemelli qualora vi siano collegamenti vascolari patologici.

Fare trasfusioni a feti gravemente anemici, direttamente nel cordone ombelicale sotto guida ecografica (approccio intravascolare), ha aumentato la sopravvivenza negli ultimi 20 anni dal 40 al 90%, così come il drenaggio di liquidi patologici dalla pancia e dal torace fetale ha spostato la sopravvivenza dal 35 al 70%.

I trattamenti palliativi, soprattutto in presenza di accumuli e distensione delle sierose fetali mirano ad evitare che i liquidi raccolti distendendo le sierose ricche di terminazioni nervose, possano far sentire dolore al feto. Tale approccio però permette anche altri due obiettivi: studiare il liquido drenato (valutazione diagnostica) e impedire la compressione del liquido sul ritorno venoso per opporsi allo scompenso cardiaco (azione terapeutica). Come si vede diagnosi, palliazione e terapia fetale s’integrano e cambiano la storia naturale di molte condizioni patologiche, restituendo vita al feto erroneamente considerato terminale, speranza alla famiglia e dignità scientifica ai medici.

[Fonte: Notizie Pro Vita, marzo 2014, p.9]

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Pino Noia

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