Tanto gentile, tanto onesta… e un po' demodé

Lucetta Scaraffia riflette sull’attualità della Beatrice dantesca e ne indica un corrispettivo moderno in quattro grandi donne ebree del secolo scorso: Simone Weil, Hannah Arendt, Edith Stein ed Hetty Hillesum

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Specchio specchio delle mie brame… E se fosse ancora Beatrice il modello della più bella del reame? Del resto, quando Dante nella Vita Nuova aveva promesso che non avrebbe mai più scritto nulla sulla donna da lui amata finché dal proprio cuore non fosse riuscito ad esprimere “ciò che di lei non fue detto d’alcuna”, ne stava già segnando il destino.

Sul più delicato e ammirato profilo femminile uscito dalla penna del sommo poeta, ha offerto una riflessione inedita Lucetta Scaraffia, giornalista e docente di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza, in seguito all’evento legato al ciclo di conferenze Donne della Commedia nello specchio delle Donne del nostro tempo, proposto a palazzo Firenze dalla Società Dante Alighieri.

Le ultime tappe, previste per l’8 aprile e il 13 maggio, avranno per protagoniste Piccarda Donati e la vergine Maria.

Lucetta Scaraffia ha risposto per Zenit alle seguenti domande:

Chi è Beatrice, una donna in carne ed ossa o un’invenzione letteraria uscita dalla fantasia di Dante?

Lucetta Scaraffia: La questione è stata discussa a lungo dai commentatori più autorevoli di Dante. Io preferisco fra tutte l’interpretazione proposta da Romano Guardini, grande studioso di Dante, che la considera una donna vera, in carne ed ossa, che Dante ha incontrato più volte in gioventù e alla quale ha dedicato le sue rime. Beatrice “è un essere umano reale ma divenuto celeste, trapassato nell’eternità mediante la morte”.

Quindi le virtù straordinarie di Beatrice derivano dal fatto che è morta e poi assurta al cielo dei beati: è “donna beata e bella”, come dice Virgilio; ha tutte le sue qualità umane esaltate dal trovarsi in Paradiso.

Per quali caratteristiche potrebbe rispecchiarsi in Beatrice una donna di oggi?

Lucetta Scaraffia: Oggi Beatrice non va molto di moda: la sua personalità sembra troppo assente, non troviamo in lei nessun segno di una volontà individuale che faccia pensare ad un progetto di autorealizzazione.

Nel poema Beatrice è solo il nesso attraverso il quale la grazia di Dio arriva a Dante; Beatrice è un puro strumento di salvezza: non si affatica, non gli dice cosa fare, ma con la sua sola presenza gli trasmette la grazia. È la prova che i beati, quelli che stanno in Paradiso, sono dei trasmettitori della grazia di Dio. E la grazia è una dimensione connaturata alla natura femminile. Oggi, invece, le donne hanno paura di finire ingabbiate in certi ruoli, statuti, tratti intellettuali o morali.

Beatrice è l’immagine della donna remissiva?

Lucetta Scaraffia: Non è certo remissiva, interviene con energia nella vita di Dante, ma per salvarlo. L’unica cosa che la muove è la preoccupazione della salvezza eterna dell’uomo che l’ha tanto amata. Un tema oggi molto poco sentito.

Beatrice non è madre: come si coniuga l’amore materno con la figura di Beatrice? 

Lucetta Scaraffia: Non è madre in senso concreto, ma è madre in senso spirituale. La sua sollecitudine per il peccatore, la sua capacità di perdono e di amore sono tipici di un comportamento materno. Beatrice assume il ruolo di madre spirituale per il suo calore, la sua accoglienza.

Una donna può realizzarsi anche scindendo la propria femminilità dalla maternità?

Lucetta Scaraffia: Non credo: si tratterebbe di una realizzazione parziale, falsa. Perché si tratterebbe della negazione di un aspetto fondamentale della sua identità a favore di un modello maschile, nel quale il potere e il denaro diventano gli unici criteri per giudicare le azioni e le scelte.

Ci sono state alcune ‘beatrici’ nei luoghi più oscuri della storia contemporanea? Come hanno agito?

Lucetta Scaraffia: Le ultime Beatrici sono state quelle dell’800: le donne fedeli, rimaste legate alla Chiesa mentre gli uomini si secolarizzavano, le donne che trasmettevano la fede ai figli. Un’immagine, questa, ripresa sul piano laico dal femminismo ottocentesco che credeva nella superiore moralità della donna legata al suo essere madre: le femministe pensavano che se le donne fossero entrate nella sfera pubblica, avrebbero purificato e moralizzato il mondo.

Ma possiamo considerare ‘beatrici’ contemporanee quattro intellettuali ebree vissute negli anni delle persecuzioni e della shoah – Simone Weil, Hannah Arendt, Edith Stein, Hetty Hillesum – e che, se pure in modo molto diverso, si sono assunte il compito di riflettere sul problema del male e sul modo di affrontarlo senza perdere la propria umanità.

Sono state loro, quattro donne ebree, ad accogliere questa pesante responsabilità intellettuale senza paura e senza fermarsi alla superficie delle spiegazioni politiche e storiche, e a indicare al mondo – in primo luogo, al loro mondo ebraico – le vie per salvarsi in senso spirituale dalla catastrofe del Novecento.

Contraddistinte da vicende biografiche molto diverse e anche diversamente coinvolte nel genocidio ebraico – Stein e Hillesum sono morte ad Auschwitz, Arendt è fuggita in Francia, poi negli Stati Uniti e si è salvata, Weil è morta di tubercolosi nell’esilio inglese – queste donne hanno infatti in comune la radice profonda della riflessione: il senso e la natura del male con cui si sono scontrate, unitamente alla ricerca di una via di uscita spirituale e intellettuale.

Esse hanno svolto un ruolo centrale nella costruzione della coscienza morale contemporanea, nella riflessione della società europea su se stessa. E con le loro vite hanno testimoniato un modo particolare di essere intellettuali e, al tempo stesso, donne, profondamente legate alla loro origine ebraica, mantenendo una propria specificità di sentimento e di pensiero. A loro dobbiamo se riusciamo a ripensare al Novecento in modo meno disperato, se riusciamo a non vedere nella shoah la morte di Dio.

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Maria Gabriella Filippi

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