Sacerdozio ed ermeneutica della continuità

Relazione del Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna

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ROMA, sabato, 13 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la relazione tenuta dal Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, intervenendo al Convegno teologico internazionale organizzato dalla Congregazione per il Clero e che si è tenuto dall’11 al 12 marzo presso la Pontificia Università Lateranense sul tema “Fedeltà di Cristo, fedeltà del sacerdote”.

 

* * *

 01. Nella mia riflessione sono accostate due realtà: il sacerdozio ordinato e l’ermeneutica della continuità.

Sicuramente riguardo alla seconda viene subito in mente il discorso fatto alla Curia Romana da Benedetto XVI in occasione del Natale 2005 [cfr. Insegnamenti di Benedetto XVI, I (2005), LEV, pag. 1018-1032]. Una grande parte del medesimo infatti è dedicato al tema dell’ermeneutica della continuità [cfr. pag. 1025-1031].     

Penso necessario in ordine alla costruzione della domanda a cui cercherò di rispondere colla mia relazione, definire già in limine l’ermeneutica della continuità. 

Distinguo “continuità” che è un fatto che accade o non accade, da “ermeneutica ” che connota l’attività dello spirito che verifica il fatto della continuità, e lo spiega.             

La continuità è il permanere della stessa identità all’interno del suo cambiamento. La continuità quindi è un  processo intrinseco ad ogni organismo vivente, pena la morte. Ciò accade anche in quell’organismo vivente che è la Chiesa: essa permane nel Principio che l’ha costituita perché ed in quanto ne vive in ogni tempo e luogo.               

I fattori della continuità sono due: uno interno alla esperienza della fede; uno esterno alla medesima. Il primo è descritto da Benedetto XVI nel modo seguente: «la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e … dall’altra parte la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede» [pag. 1026]. Il secondo fattore è costituito dalla necessità che la predicazione del Vangelo si  confronti col modo con cui l’uomo interpreta la realtà e si pone in essa; si confronti cioè colla cultura.     

Distinto è il fatto della continuità dallo sforzo ermeneutico per verificare se esso sia o no accaduto; e in caso affermativo cogliere la logica interna al cambiamento. I due atti ermeneutici sono distinti solo logicamente, non in realtà.            

02. Fatta questa prima premessa risulta chiaro quale è il tema su cui mi è stato chiesto di riflettere.   

Si tratta di riflettere su una realtà che è propria dell’economia salvifica cristiana: il sacerdozio ordinato. Dobbiamo considerarlo nella sua vicenda storica a partire dal Concilio Vaticano II (compreso) fino ai giorni nostri, e mettere  in atto un’ermeneutica della continuità.

Quest’opera ermeneutica può essere fatta in due modi: o analizzando nella loro concatenazione logica i testi magisteriali e le principali riflessioni teologiche sul sacerdozio ordinato, oppure studiando il vissuto sacerdotale di questi anni post-conciliari.       

La mia riflessione si colloca dentro la prima prospettiva, ma non come puntuale analisi di testi magisteriali, ed opere teologiche. Presupposta questa, la mia domanda invece è la seguente:      quale è l’identità permanente del ministero ordinato, e come essa si confronta colla cultura odierna? Due parole ancora di spiegazione.

Il termine «identità» non si riferisce ad un concetto, ad un’idea; «ma al Logos immanente (al ministero ordinato), all’intrinseca verità vivente, all’immagine originaria cui fanno riferimento tutte le altre  manifestazioni [dell’essere e della vita sacerdotale] innervandole all’interno» [L. Scheffczyk, il mondo delle fede cattolica, V&P, Milano 2007, pag. 36].

1L’identità permanente

L’identità del ministero può essere colta solo dallo “sguardo semplice della fede”, non attraverso l’analisi dei singoli fattori che la costituiscono. Per distinguere lo stile romanico dallo stile gotico è necessario guardare nel suo insieme il monumento, e cogliere quella “forma” che metta insieme le singole parti nel modo proprio del gotico o del romanico.    

Vorrei molto semplicemente dirvi che cosa vedo nel ministero quando lo guardo con lo “sguardo semplice della fede”. Vedo   il segno sacramentale della presenza di Cristo nella sua Chiesa: «il Vescovo, il presbitero, il diacono, sono simbolo di realtà vere corrispondenti a questi nomi» [Origene, Commento al Vangelo di Matteo, CN ed., Roma 1999, pag. 168]. 

Che cosa ci aiuta ad avere una intuizione intellettiva di questa “intrinseca verità vivente” del ministero sacerdotale? Una serie di elementi che derivano dalla denkform cattolica.    

La dimensione sacramentale dell’economia salvifica è il primo elemento. L’atto salvifico di Cristo non è una tangente che tocca la circonferenza della storia umana solo in un punto per allontanarsene subito all’infinito. Esso entra dentro la storia e vi rimane permanentemente presente. Non può essere solo ricordato: può essere realmente incontrato e fatto proprio.

La presenza reale, perenne, duratura dell’Evento salvifico è assicurata dal sacramento. Il sacramento è precisamente la presenza di Cristo nella Chiesa, in forma di segno o di simbolo, nella modalità propria a ciascun segno o simbolo medesimo.     

      Il realismo della salvezza è il secondo elemento, strettamente connesso con quello precedente. La salvezza incontra realmente l’uomo nel sacramento e l’uomo la salvezza. Essa non è solo sperata, ma anche realizzata sia pure in forma incoativa. È operato un vero e proprio cambiamento nella condizione ontologica della persona: «carissimi, noi fin da ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» [1Gv 3,2]. L’atto redentivo dell’uomo è un fatto che accade realmente e perennemente, ed introduce l’uomo nella patria della sua identità.

          L’intrinseca verità del ministro sacerdotale è costituita all’interno della dimensione sacramentale della salvezza e del carattere realistico della redenzione

            Questa costituzione è percepibile da un duplice punto di vista: dal legame fra ministero sacerdotale e sacramenti; dal rapporto fra la persona di Cristo vivente nella Chiesa e la persona del sacerdote.

            I due punti di vista devono essere tenuti assieme, diversamente si avrebbe una visione scorretta. Il legame infatti fra sacerdote e sacramenti non va pensato come un caso particolare di una legge ricorrente, e che troviamo presso ogni religione. Il sacrum è sempre affidato ad alcune persone consacrate, deputate a custodirlo ed amministrarlo.

            Il luogo teologico dove il rapporto fra la persona di Cristo, l’economia sacramentale, e la persona del sacerdote è visibile nella sua pura ed intrinseca verità, è la celebrazione dell’Eucarestia.

            Non casualmente Cristo ha istituito uno actu e il sacramento dell’Eucarestia e il ministero della Nuova ed eterna Alleanza.

            Nella santa Eucarestia non è presente solo la grazia e l’opera della salvezza: è realmente presente Cristo stesso che si dona sulla Croce per la redenzione dell’uomo.

            Ma questa presenza non può essere realizzata senza un riferimento alla persona di Cristo: è lui stesso che la deve realizzare. Ovviamente non con una modalità percepibil
e dai sensi, ma nella modalità sacramentale propria dell’economia salvifica: sub signo. È il ministero della nuova Alleanza che rende presente sacramentalmente il Cristo  che compie l’opus redemptionis nostrae.

            Veramente la celebrazione dell’Eucarestia è la cifra dell’esistenza  del sacerdote; è il criterio ermeneutico adeguato del suo esserci; è il Logos immanente della sua esistenza che ne spiega tutte le manifestazioni.

            Potremmo a questo punto dimostrare, in base a molti testi, come il Concilio abbia ripreso chiaramente l’idea della “rappresentanza di Cristo” per definire il ministero [cfr. Sacrosanctum Concilum 33; Lumen Gentium 10 e 28; Presbyterorum ordinis 2 e 13]. Così come l’altro grande documento Magisteriale, l’Es. Apost. Pastores dabo vobis [cfr. 11,3 (nexus ontologici peculiaris qui iungit presbyterum Christo]; 12,2 (cui, tamquam capiti et populi pastori configuratur peculiari quodam modo); 15,4 (sunt igitur presbyteri in Ecclesia et pro Ecclesia velut repraesentatio sacramentalis Christi capitis et pastoris … exsistunt et operantur … et nomine et persona Christi capitis et pastoris); 16,6 (locum coram Ecclesia occpupat – per suum ministerium – quod non nisi signum et continuatio sacramentalis et visibilis est ipsuis Christi)].

            La relazione obiettiva del sacerdote a Cristo capo e pastore è la relazione che costituisce il sacerdozio. Dunque è un’identità di relazione; una identità  che sussiste in una relazione.

Dal punto di vista soggettivo che cosa significa questa particolare forma di identità? Significa l’identificazione del proprio io colla missione, la coincidenza della coscienza del proprio io colla missione. Vorrei fare alcune essenziali riflessioni su questo punto.

            La relazione a Cristo è sempre pensata nella Tradizione in termini di missione [«come il Padre ha mandato me, così io mando voi»], in continuità colla relazione di Cristo al Padre. Il contenuto del rapporto dell’apostolo con Cristo è l’essere mandato da Cristo medesimo come segno efficace della sua presenza operante. La sua identità è la sua missione.

            Il sacerdote viene espropriato del chiuso “essere per se stesso” e consegnato ad “essere per e mediante il Signore” [cfr. Rom 14,7-8], che poi significa concretamente “cercare di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo” [cfr. Rom 15,2-3].

            A Simone viene cambiato il nome «poiché egli è ciò che dice il suo nome» [1Sam 25,25]. Poiché l’identità del sacerdote sussiste nella relazione di vicarietà [vius gerens Christi] o rappresentanza; egli diventa se stesso quanto più dimentica la sua privata soggettività e si identifica sempre più colla sua missione.

            Ho concluso questo primo punto, in cui ho cercato di riflettere sull’identità del sacerdote, e sul versante oggettivo e sul versante soggettivo.

            Sul primo, l’identità diventa comprensibile alla luce dell’analogia fidei, che tiene assieme la dimensione sacramentale dell’economia salvifica e il realismo della salvezza. Sul versante soggettivo, l’identità è definibile come coincidenza del proprio io colla missione.

2.         Nella condizione attuale

            «Certamente c’è una fisionomia essenziale del sacerdote che non muta… Il presbitero del terzo millennio sarà in questo senso, il continuatore dei presbiteri che, nei precedenti millenni, hanno animato la vita della Chiesa … Altrettanto certamente la vita e il ministero del sacerdote devono anche adattarsi ad ogni epoca … dobbiamo perciò cercare di aprirci, per quanto possibile, alla superiore illuminazione dello Spirito Santo, per scoprire gli orientamenti della società contemporanea, riconoscere i bisogni spirituali più profondi» [Es. ap. Pastores dabo vobis 5,5].

L’esortazione apostolica post-sinodale prospetta precisamente quell’ermeneutica della continuità che guida questa riflessione. Il testo post-sinodale infatti parla di una “fisionomia essenziale del sacerdote che non muta” ed ugualmente della necessità che essa prenda corpo in relazione agli “orientamenti della società contemporanea ed ai suoi bisogni spirituali più profondi”.   

Cercherò ora di mettere in atto questa “ermeneutica della continuità”, dopo aver descritto nel paragrafo precedente quella “fisionomia essenziale del sacerdote che non muta”. Ed inizio dalla descrizione di quello che mi sembra il bisogno spirituale più profondo.     

L’itinerario mentis in Deum partiva sempre da un presupposto, poggiava i piedi su una terra ferma: l’intelligibilità del reale di cui ho esperienza. E pertanto la convinzione che il desiderio insonne della ragione di scoprire l’intelligibilità del reale, non era da considerare un desiderio vacuo che non poteva trovare risposta.

L’incontro fra l’intelligibilità del reale e la ragione che cerca è la verità. Come scrisse C. Fabro in due aforismi: «la verità è una qualità fondamentale del reale e una qualità fondamentale dell’essere», e «la verità è un atteggiamento radicale esistenziale: di stare in attesa della rivelazione dell’essere» [Libro dell’esistenza e della libertà vagabonda, Piemme, Casale M. 2000, pag. 116].

Ne deriva che la ricerca di Dio e l’esistenza della verità  simul stant et simul cadunt. Se si nega che esista la verità, la ricerca di Dio non può neppure cominciare.

Secondo studiosi competenti, chi ha scalzato questa base è stato Nietzsche, e la piena accettazione, fino ai suoi esiti finali, di quella demolizione è diventata la temperie spirituale del tempo presente. In che senso? Almeno in due significati.      

Il primo. È accettato, come nostro destino, come il destino dell’Occidente, quello di pensare che l’universo degli enti non nasconda, non rimandi, non significhi una Presenza che non sia a misura dell’ente stesso. Esiste solo la verità propria dei progetti tecnici dell’uomo. Un esempio. L’atto di porre le condizioni della venuta all’esistenza di una nuova persona  – l’atto procreativo – non ha in se stesso una verità che rimanda ad una Presenza. È un mero fatto che può essere anche tecnicamente riprodotto in laboratorio.     

Il secondo. La domanda quindi di senso è una domanda priva di senso: si vive, e basta. E così si dica di ogni fondamentale vissuto umano. L’assenza di Dio è il destino dell’uomo, e, alla fine, si vive ugualmente bene. È questo il volto più tragico [per noi] del nichilismo, non tanto il relativismo morale conseguente.      

Abbiamo così individuato il bisogno spirituale più profondo: il bisogno della Presenza. Nella lettera inviata da Benedetto XVI a tutti i vescovi nel marzo scorso, il S. Padre confida che attribuisce al suo pontificato come compito supremo quello di rendere presente Dio nella vita degli uomini. Ed è a questo bisogno supremo che il sacerdote, la cui identità abbiamo già schizzata, è chiamato oggi a rispondere. Come?

La questione dunque è questa: è possibile riconoscere una Presenza eccedente l’universo dell’ente, ma che abita dentro esso? Esiste la possibilità di toccare l’Infinito mentre vivo nel finito? o dobbiamo rassegnarci all’impossibilità di fare questo incontro?

Queste sono le domande ultime a cui oggi il sacerdote è chiamato a rispondere.     

Sarebbe un grave errore ritenere che il problema sia fondamentalmente di carattere etico; e che quindi il bisogno sp
irituale principale sia il bisogno di una seria proposta etica. Errore, perché una tale diagnosi confonderebbe i sintomi colla malattia. E sarebbe come pensare che ad una persona in preda ad una grave indigestione, la cosa più necessaria sia di spiegargli la chimica della digestione.   

Non dobbiamo mai dimenticare che comunque l’immagine di Dio impressa nell’uomo non può essere cancellata, e che pertanto, pur confuso in mezzo a tanti rumori, il “mormorio del cuore” che invoca la Presenza beatificante continua a farsi sentire. La capacità della verità resta indistruttibile nell’uomo.      

L’uomo che vive oggi la gaia farsa dell’Assenza, ha bisogno di essere risvegliato alla coscienza della sua dignità di persona e ciò lo può fare solo la testimonianza della carità. Nell’inferno del non-senso che furono i lager nazisti, dove ogni possibilità di avvertire la Presenza era consumata, P. Kolbe ha riconosciuto una ragione per cui vivere è bene: la ragione del dono di sé. Una ragione che era il segno e la voce di una Presenza reale.

Non si intenda questo come in primo luogo un dovere derivante dal sacramento dell’Ordine, assieme ad altri doveri. È la “forma vitae”, quel Logos intrinseco di cui ho parlato all’inizio poiché il sacerdote è e agisce “in persona Christi”: di Cristo che redime l’uomo nel dono della Croce, eucaristicamente sempre presente dentro al nostro mondo dell’Assenza.

È quanto insegna anche l’Es. ap. Pastores dabo vobis: «Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo capo e pastore è la carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo … Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé» [23,1.2]. Tralascio le conseguenze pedagogiche nella formazione dei futuri sacerdoti. Non sono oggetto della presente riflessione.

3.         A modo di conclusione

Abbiamo saputo dopo la sua morte, che la B. Teresa di Calcutta ha condiviso per lunghi anni l’esperienza dell’Assenza con l’uomo di oggi.              

Essa l’ha vissuta nella certezza che in fondo l’uomo, quell’uomo di cui condivideva il destino, aveva solo bisogno di essere amato. La cifra dell’esistenza sacerdotale è la cifra eucaristica.             

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ZENIT Staff

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