Psicologia della religione

Il corso è partito oggi presso la Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo S. Anselmo

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di Eugenio Fizzotti

ROMA, mercoledì, 10 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Con molto entusiasmo ho accettato l’invito, da parte del benedettino P. Philippe Nouzille, decano della Facoltà di Filosofia del Pontificio Ateneo S. Anselmo, di tenere il corso di “Psicologia della religione” nel primo semestre ogni mercoledì, a partire dal 10 ottobre fino al 16 gennaio, dalle ore 10.15 alle ore 11.50.

Invitati a utilizzare il mio testo Introduzione alla psicologia della religione, pubblicato come terza ristampa dalla FrancoAngeli di Milano nel 2012, gli studenti comprenderanno subito che la psicologia della religione prende in considerazione comportamenti e atteggiamenti che la persona o il gruppo qualificano come religiosi, perché collegati con la fede in un essere soprannaturale oppure con una visione della vita che non esclude la dimensione del sacro, e cerca di comprenderne i fattori motivazionali. Di conseguenza sarebbe da preferire – nonostante non sia ancora entrata nel linguaggio corrente – l’espressione “psicologia dell’atteggiamento religioso”.

In quanto scienza positiva che studia il vissuto psichico di una persona in continua evoluzione e inserita in un concreto contesto culturale, la psicologia dell’atteggiamento religioso – seguendo un rigoroso statuto epistemologico – esclude metodologicamente il trascendente dal suo orizzonte di ricerca e ciò a un duplice livello.

Per prima cosa, essa non si ritiene abilitata a dimostrare oppure a confutare le affermazioni propriamente religiose, e quindi si pone al di qua e al fuori degli interrogativi di portata teologica che riguardano l’oggetto della sua indagine. In secondo luogo, ritiene che non è possibile in alcun modo e a nessun titolo introdurre l’azione del soprannaturale per spiegare un determinato comportamento.

Il credente, è vero, crede che la preghiera e i riti implicano la fede nell’azione divina, almeno nella forma della disposizione personale ad accettarla e a riconoscerne i segni di presenza. E, grazie a tale atteggiamento, riesce a spiegare non solo i fatti eccezionali (conversione, esperienze mistiche, martirio), ma la fede stessa. La psicologia, però, può solo osservare questi dinamismi e queste credenze e tenerne conto, perché hanno anch’essi un evidente risvolto psicologico, ma non può cogliere il significato propriamente religioso degli enunciati di fede, in quanto nella prospettiva psicologica non sono suscettibili né di verifica né di falsificazione empirica.

Per accostare correttamente i vissuti religiosi della persona la psicologia segue alcuni criteri di lettura. Il primo è quello dell’intenzionalità, in base al quale si cerca di comprendere ciò che la persona intende realizzare, quali scopi vuole raggiungere, a quali altri comportamenti fa riferimento, quali dinamismi ne hanno favorito la scelta. Con il secondo criterio l’atteggiamento religioso viene collocato in un orizzonte di totalità e di integrità, ossia – secondo la felice espressione di G. W. Allport – in una «concezione unificatrice della vita». Con il criterio della dinamicità si riconosce che ogni comportamento religioso “si fa” a mano a mano che si fa la persona stessa, è legato alla sua storia e si riflette su ogni momento dell’evoluzione del singolo e del gruppo al quale appartiene. Il quarto criterio, infine, pone in evidenza la stretta relazione tra l’atteggiamento religioso e il significato culturale che esso assume in un determinato contesto storico, che comprende l’organizzazione sociale, il pluralismo culturale, le attese economiche, le problematiche politiche.

Vari sono anche i modelli interpretativi dell’atteggiamento religioso: mentre il modello freudiano vede nel rapporto tra l’uomo e la religione la possibile ricerca di una figura illusoria che, dando sicurezza e protezione, si sostituisca alla figura paterna con la quale nei primi anni di vita si sarebbe instaurato un conflitto insanabile, il modello sociale vede nell’atteggiamento religioso il risultato di buoni esempi di processi psicologici e sociali che operano nella vita reale e sottolinea volentieri l’adeguamento alle norme stabilite da un determinato gruppo. Così come il modello cognitivo ritiene che la persona risponde al significato di uno stimolo, ossia all’interpretazione che ne dà,  piuttosto che allo stimolo stesso, mentre il modello umanistico-esistenziale interpreta l’atteggiamento religioso come una delle strade attraverso le quali è possibile giungere alla piena realizzazione di sé – secondo la prospettiva specifica di A. Maslow – o del compito unico e originale della propria esistenza – secondo l’orientamento di V. E. Frankl.

Numerose ricerche hanno potuto individuare un ampio e articolato spettro di dimensioni che caratterizza il vissuto religioso. La prima dimensione, quella esperienziale, comprende sensazioni, percezioni ed emozioni, proprie di un individuo o di un gruppo, finalizzate a un senso di benessere legato a una ricompensa promessa o un senso di disagio in conseguenza di una punizione prospettata. La dimensione ideologica è costituita dai contenuti specifici di un sistema teorico e di una esplicita o implicita prospettiva teologica. La dimensione ritualistica concerne le pratiche religiose, che riguardano il culto, l’adorazione della divinità, la preghiera o la partecipazione a momenti particolarmente significativi a livello sia individuale che pubblico. La dimensione intellettuale si riferisce a quel minimo di informazioni circa le credenze basilari della propria fede e dei propri riti grazie a cui il soggetto può far fronte alle esigenze di confronto che con sempre più frequenza gli vengono presentate da messaggi e opinioni di fonte diversa. La dimensione consequenziale, infine, si identifica con gli effetti che sono riscontrabili nella vita quotidiana, nelle decisioni esistenziali, nella disponibilità al servizio degli altri e nell’attuazione di norme morali, nell’accoglienza di prescrizioni e di comportamenti socialmente accettabili.

Dal punto di vista motivazionale l’atteggiamento religioso può mettere in evidenza la ricerca di risposte rassicuranti dinanzi alle frustrazioni, oppure il tentativo di difendere, attraverso l’incoraggiamento del gruppo di appartenenza, un sistema di comportamenti e di scelte morali che sembrerebbe minacciato in un contesto sociale che annulla o stravolge i valori che in precedenza garantivano e custodivano l’umanità. Esso può anche essere dettato da curiosità intellettuale che, mai sufficientemente appagabile né appagata, vorrebbe individuare le risposte precise sul da farsi nel concreto di ogni giorno, oppure cercherebbe elementi di sostegno e di confronto a proprie personali ipotesi interpretative, siano esse a favore o contro l’intervento del divino.

Ma è anche possibile che la religione rappresenti un rifugio dinanzi all’angoscia che tormenta quando si vivono situazioni di emarginazione, di isolamento, di rifiuto, di depressione, con il rischio di trasformarsi in fattore di immaturità e di regressione a stati di dipendenza. Ma esso potrà benissimo essere l’espressione di una visione della vita come “compito aperto”, una vita cioè disposta al confronto e orientata alla novità, capace di cogliere le domande che si levano di continuo dal quotidiano, in una prospettiva di estensione di interessi e di assunzione di responsabilità. In tal caso, Dio e la fede non si presentano come compagni di viaggio che castigano o promettono surrogati di felicità e di benessere, ma saranno occasioni di sviluppo nel rispetto dei propri personali ritmi di crescita.

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ZENIT Staff

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