Mons. Francesco Follo - Foto © Servizio Fotografico-L'Osservatore Romano

Mons. Follo: Accogliere il Figlio di Dio come ha fatto San Giuseppe, il Custode del Redentore e “vicario” del Padre celeste

4ª Domenica di Avvento  –  Anno A –  22 dicembre 2019

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Accogliere il Figlio di Dio come ha fatto San Giuseppe, il Custode del Redentore e “vicario” del Padre celeste.

 

Rito Romano

4ª Domenica di Avvento  –  Anno A –  22 dicembre 2019

Is 7,10-14; Sal 23; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

 

Rito Ambrosiano

6ª Domenica di Avvento – Domenica dell’Incarnazione o della Divina Maternità della Beata Vergine Maria

Is 62,10-63,3b; Sal 71; Fil 4,4-9; Lc 1,26-38a

 

 

 

1) Accogliere Cristo come ha fatto San Giuseppe.

Solo due giorni separano questa quarta Domenica di Avvento dal Natale. Dopodomani notte ci raccoglieremo per celebrare il grande mistero dell’amore infinito, che non finisce mai di stupirci: Dio si è fatto Figlio dell’uomo perché noi diventiamo figli di Dio.

Per aiutarci a ben accogliere il Messia, la Liturgia di oggi ci propone l’esempio di San Giuseppe. Come lui  dobbiamo come lui accogliere il Dio fatto uomo che giunge a noi come dono fatto in Maria, la Vergine Madre. Come Giuseppe, noi dobbiamo “semplicemente” accoglierlo.

Raccontandoci  racconta i fatti che precedettero la nascita di Gesù, il vangelo di oggi aiuta ad imparare questo “come” messo in atto da Giuseppe per accogliere il dono di Dio e viverlo come vocazione e non come problema

Nel suo racconto l’evangelista Matteo non spiega quali fossero i pensieri di San Giuseppe, ma ci dice l’essenziale sul  Custode del Redentore. Questo Santo del silenzio (i vangeli non registrano nessuna sua parola e davanti al fatto stupefacente della maternità di Maria, non denuncia la sua sposa di infedeltà. Tace perché crede nella sua innocente purezza) cerca di fare la volontà di Dio ed è pronto alla rinuncia radicale di non prendere in casa sua la sua legittima sposa, che aveva affascinato la sua mente ed il suo cuore. Infatti, invece di far valere i propri diritti di sposo, Giuseppe sceglie una soluzione che per lui rappresenta un sacrificio enorme . E il vangelo dice: “Poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto” (Mt. 1,19).

Questa breve frase riassume un vero e proprio dramma interiore, se pensiamo all’amore che Giuseppe aveva per Maria. Ma anche in una tale circostanza, Giuseppe intende fare la volontà di Dio e decide, sicuramente con gran dolore, di rmandare via Maria di nascosto. Questo versetto va meditato con profonda attenzione, per capire quale sia stata la prova che Giuseppe ha dovuto sostenere nei giorni che hanno preceduto la nascita di Gesù. Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr  Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata.

Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità: “Giuseppe – gli dice – non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt 1,20).

Il brano evangelico di questa Domenica  ci mostra tutta la grandezza d’animo di san Giuseppe. Egli stava seguendo un buon progetto di vita, ma Dio riservava per lui un altro disegno, una missione più grande. Giuseppe era un uomo che dava sempre ascolto alla voce di Dio, profondamente sensibile al suo segreto volere, un uomo attento ai messaggi che gli giungevano dal profondo del cuore e dall’Alto. Non si è ostinato a perseguire quel suo progetto di vita, non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo, ma è stato pronto a mettersi a disposizione della novità che, in modo sconcertante, gli veniva presentata. E’ così, era un uomo buono. Non odiava, e non ha permesso che il rancore gli avvelenasse l’animo. Ma quante volte a noi l’odio, l’antipatia pure, il rancore ci avvelenano l’anima! E questo fa male.

Non permetterlo mai: lui è un esempio di questo. E così, Giuseppe è diventato ancora più libero e grande. Accettandosi secondo il disegno del Signore, Giuseppe trova pienamente se stesso, al di là di sé. Questa sua libertà di rinunciare a ciò che è suo, al possesso sulla propria esistenza, e questa sua piena disponibilità interiore alla volontà di Dio, ci interpellano e ci mostrano la via. Se, come San Giuseppe, accogliamo Cristo, vangelo vivente, fare esperienca del fatto che il Vangelo non distrugge niente. Il Vangelo non lascia fuori nessuna realtà, consacra tutto, rivela tutto, compie tutto, dà alla vita una dimensione infinita, meravigliosa e lieta.

In questa domenica prepariamoci ad accogliere Gesù bambino come ha fatto San Giuseppe. Il premio che lui ricevette fu l’amore di Maria e di Gesù, divenendo il suo padre putativo (sarebbe meglio dire: legale) e il vicario in terra del Padre celeste.

Però, teniamo uniti  Maria e Giuseppe. Dunque con un unico sguardo contempliamo la Vergine Madre, la donna piena di grazia che ha avuto il coraggio di affidarsi totalmente alla Parola di Dio, e Giuseppe, l’uomo fedele e giusto che ha preferito credere al Signore invece di ascoltare le voci del dubbio e dell’orgoglio umano. Con loro, camminiamo insieme verso il presepe, con loro costruiamo il presepe per deporvi Cristo, Dono di Dio, Verità che salva la nostra vita.

 

 

 

2) L’Angelo portò l’annuncio a Giuseppe.

            Il Vangelo di questa domenica ci parla dell’annuncio a Giuseppe, padre legale di Gesù, che nasce perché anche questo artigiano di Nazareth ha detto di sì e ha dato una dimora sicura dove il Verbo di Amore incarnato potesse essere l’Emmanuele. C’è una stretta relazione tra l’Annuncio a Maria e quello a Giuseppe. Apparendo in sogno a questo uomo giusto, l’Angelo lo introduce nel mistero della maternità verginale di Maria: questa giovane donna, che secondo la legge è sua “sposa”, è diventata madre in virtù dello Spirito Santo rimanendo vergine.

L’Angelo si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre il nome di “Gesù” al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazareth a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria: “Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù[1]; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,20-21).

La risposta del santo Falegname di Nazareth all’Angelo non fu data con delle parole, ma con l’obbedienza fattiva: “Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sè la sua sposa” (Mt 1,24), e dunque ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo (cfr. S. Ireneo, Adversus haereses, IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694). Non risulta che Gesù abbia seguito scuole particolari, ma ha avuto, oltre Maria, tre maestri, più grandi di quelli diplomati: Giuseppe lavoratore, la Natura e la Sacra Scrittura.

Non va dimenticato che Gesù fu un lavoratore e figlio legale di un lavoratore. Non va dimenticato che Gesù nacque povero e visse tra gente che lavorava con le proprie mani, che guadagnava il suo pane con l’opera delle mani. Mani che benedissero i bambini, i poveri, assolsero i peccatori, guarirono i malati. Mani che prima di essere bagnate dal sangue suo versato per noi, furono bagnate di sudore e che sentirono l’indolenzimento della fatica. Mani che sapevano quanto forza ci vuole per conficcare i chiodi. Mani che “sono il paesaggio del Cuore” (B. Giovanni Paolo II).

Non va dimenticata la Natura, che ci insegna Dio mostrando il suo splendore. Se studiamo il libro della Natura, percepiamo in essa l’impronta di Dio e la nostra preghiera si fa contemplazione del Creatore e diciamo: “Benedetto sei tu, Signore, nel firmamento, degno di lode e di gloria nei secoli” (Dn 3,56). Con questa preghiera il cristiano esprime la sua gratitudine non solo per il dono della creazione, ma anche perché si percepisce come destinatario della paterna premura di Dio, che in Cristo lo ha elevato alla dignità di figlio. Un premura paterna che fa guardare con occhi nuovi allo stesso creato e ne fa gustare la bellezza, nella quale intraveda, come in filigrana, l’amore di Dio.

Non va dimenticata la Sacra Scrittura, che per Gesù fu evidente alimento per cui rispose al diavolo che lo tentava: “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. La Parola di Dio si intreccia con l’Eucaristia, come scrive Origene: “Noi leggiamo le Sante Scritture. Io penso che il Vangelo è il Corpo di Cristo; io penso che le sante Scritture sono il suo insegnamento. E quando egli dice: “Chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue” (Gv 6,53) benché queste parole si debbano intendere anche del Mistero eucaristico, tuttavia il corpo di Cristo e il sangue di Cristo è veramente la parola della Scrittura, è l’insegnamento di Dio. Quando ci rechiamo al Mistero eucaristico, se ne cade una briciola, ci sentiamo perduti,. E quando stiamo ascoltando la Parola di Dio, e ci viene versata nelle orecchie la Parola di Dio e la carne di Cristo e il suo sangue e noi pensiamo ad altro, in quale grande pericolo incappiamo[2].

 

3) L’Emmanuele è un miracolo di obbedienza.

Di fronte al prodigio della concezione verginale, San Matteo mette in rilievo le parole della profezia di Isaia e l’obbedienza di Giuseppe, uomo giusto. 
Il testo di Isaia 7,14 nel suo contesto originale si riferiva alla nascita del figlio del re Acaz, un segno che la sua casata avrebbe avuto un futuro.

L’evangelista lo utilizza per indicare in primo luogo la verginità[3] di Maria. 
In secondo luogo il testo gli fornisce il nome Emmanuele, Dio con noi, che riafferma l’identità di Figlio di Dio e introduce l’idea della presenza costante di Gesù presso i suoi che verrà esplicitata dal Risorto al momento dell’ascesa al cielo (vedi Mt 28,20). L’apostolo Paolo dirà più tardi: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”(Rm 8,32s).

Grazie all’obbedienza di fede di Giuseppe e di Maria, grazie alla loro accoglienza della parola che Dio ha rivolto loro attraverso il Suo Angelo, essi accolsero in casa l’Emmanuele, il Dio con noi. Giuseppe come Maria si aprì al dono di Dio perché Dio potesse fare nascere nella storia la salvezza promessa. Giuseppe prese con sé Maria, la sua sposa, e insieme a lei la missione di dare carne alla Parola di Dio. 
Il brano evangelico si conclude in realtà con il v. 25 dove San Matteo afferma: “Senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”. 
In Giuseppe abbiamo l’esempio dell’uomo di fede che ascolta e mette in pratica la Parola di Dio (cfr. Mt 7,24) e che accogliendola entra a far parte della famiglia di divina, come ci assicura Giovanni: “A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).

Le Vergini consacrate sull’esempio di Maria, accolgono la Parola di Dio, obbedendo con amore verginale. In un mondo, almeno quello cristiano in cui la castità viene ammirata anche se non sempre capita, in un mondo dove l’obbedienza viene disprezzata, queste donne sono chiamate a mostrare che l’obbedienza è dire di sì a Dio come ha fatto Giuseppe, come ha fatto Maria. La loro è un’obbedienza sponsale e un gesto di libertà.        L’obbedienza è adeguata all’amore di Cristo, che non ci dona qualcosa, ma se stesso, come Sposo della Chiesa.

L’obbedienza conviene all’Amore, perché è condivisione dell’indivisibile, partecipazione creata alla perfezione di Dio, dismisura di Dio nelle misure dell’uomo. La vocazione obbediente delle Vergini Consacrate è la prontezza ad accogliere l’agire di Dio, che è amato sopra ogni cosa e persona.

L’obbedienza è la risposta della persona consacrata che, in contatto orante con la Parola incarnata, scopre la volontà particolare di Dio sulla sua vita, la ratifica e fa esperienza che “in sua volontà è nostra pace” (Dante Alighieri).

 

 

 

Lettura Patristica

 

            Propongo una parte di un Sermone di Sant’Agostino dove si spiega bene come Maria, così Giuseppe è chiamato ad accogliere un sorprendente piano divino. Egli si fa obbediente a ciò che è frutto dello Spirito e, proprio in forza di questa sua obbedienza, diviene collaboratore di Dio nella storia della salvezza. Egli sarà il padre legale di Gesù; ma il fatto di non aver partecipato al suo concepimento, non gli attribuirà tuttavia una paternità “di minor grado”. Agostino insiste a chiare lettere: Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità.

 

Dai “Discorsi” di Sant’Agostino d’Ippona

Serm. 51, 16.26; 20.30 – PL 38, 338

La vera paternità di Giuseppe

“La dignità verginale ebbe origine dalla Madre del Signore, quando cioè nacque il re di tutti i popoli; fu lei a meritare non solo d’avere il figlio ma anche di non soggiacere alla corruzione. Come dunque quello era vero matrimonio e matrimonio senza corruzione, così quel che la moglie partorì castamente, perché il marito non avrebbe dovuto accoglierlo castamente? Come infatti era casta la moglie, così era casto il marito; e come era casta la madre, così era casto il padre. Colui dunque che dice: “Giuseppe non doveva essere chiamato padre, perché non aveva generato il figlio”, nel procreare i figli cerca la libidine, non l’affetto ispirato dalla carità. Giuseppe con l’animo compiva meglio ciò che altri desidera compiere con la carne. Così, per esempio, anche coloro che adottano dei figli, non li generano forse col cuore più castamente, non potendoli generare carnalmente? Vedete, fratelli, i diritti dell’adozione, per cui un uomo diventa figlio di uno dal quale non è nato, in modo che ha maggior diritto nei suoi riguardi la volontà dell’adottante che non la natura del generante.

Allo stesso modo che è casto marito, così [Giuseppe] è pure casto padre. Ciò che lo Spirito Santo effettuò, lo effettuò per ambedue. È detto: Essendo un uomo giusto (Mt 1, 19). Giusto dunque l’uomo, giusta la donna. Lo Spirito Santo, che riposava nella giustizia di ambedue, diede un figlio ad entrambi. (…) L’Evangelista dice anche: E gli partorì un figlio (Lc 2, 7), parole con cui senza dubbio si afferma che Giuseppe è padre non per virtù della carne, ma della carità. Così dunque egli è padre e lo è realmente. (…) E perché è padre? Perché tanto più sicuramente padre, quanto più castamente padre. In realtà si credeva ch’egli fosse padre di nostro Signore Gesù Cristo in modo diverso; lo fosse cioè come tutti gli altri padri che generano carnalmente, non come quelli che accolgono i figli con il solo affetto spirituale. Difatti anche Luca dice: Era opinione comune che Giuseppe fosse il padre di Gesù (Lc 3, 23). Perché era opinione comune? Perché l’opinione e il giudizio della gente era portato verso ciò che di solito fanno gli uomini. Il Signore dunque non è discendente di Giuseppe per via carnale, sebbene fosse ritenuto tale. Tuttavia alla pietà e alla carità di Giuseppe nacque dalla vergine Maria un figlio, e proprio il Figlio di Dio.

 

 

[1] “Gesù” era un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che – secondo la promessa divina – adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù – Yehossua’, che significa: Dio salva.

[2] Origene, Omelie sul libro dei Salmi, 74.

[3]  San Matteo si serve della traduzione dei LXX che utilizzano parthénos (vergine) per indicare il termine ebraico ‘alma che significa giovane donna.

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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