Famiglia "naturale" e famiglia "sintetica"

Intervento del prof. D’Agostino nella conferenza stampa di presentazione del Convegno internazionale “I Diritti della Famiglia e le sfide del mondo contemporaneo”

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

Nel corso della conferenza stampa di presentazione del Convegno internazionale “I Diritti della Famiglia e le sfide del mondo contemporaneo”, è intervenuto anche il professor Francesco D’Agostino, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI). Riportiamo di seguito il testo della sua relazione.

***

Famiglia “naturale” e famiglia “sintetica”

I trent’anni che ci separano dalla promulgazione della Carta dei diritti della famiglia non ne hanno incrinato, sotto alcun profilo, la valenza dottrinale. Nella Presentazione della Carta dei diritti della famiglia si dichiara con molta immediatezza e semplicità che l’obiettivo del documento è quello di presentare agli uomini del mondo d’oggi “una formulazione…dei fondamentali diritti inerenti a quella società naturale e universale che è la famiglia” ed effettivamente bisogna riconoscere che questo obiettivo è stato centrato. E’ ben difficile individuare nella Carta espressioni meritevoli di aggiornamento o di riformulazioni, così come carenze o ridondanze. Ciò che appariva necessario dire sui diritti della famiglia trent’anni fa, è stato ben detto e corrisponde puntualmente a ciò che continua ad essere necessario dire anche oggi. Ciò che era superfluo dire trent’anni fa, nella Cartanon è stato detto ed è per questo che mancano in questo testo tante varie possibili osservazioni sulla famiglia vere, ma nello stesso tempo banalmente vere e quindi superflue.

Tutto bene, dunque? Il fatto che siano passati trent’anni da quando la Carta è stata promulgata non possiede quindi alcuna rilevanza? No: in questi trent’anni qualcosa di rilevante, in tema di famiglia, è successo e sta sotto gli occhi di tutti, anche se non da tutti viene correttamente rilevato. Ciò che è successo è che a carico della famiglia è venuta a determinarsi una nuova sensibilità, che sta lacerando non tanto l’unitarietà del fenomeno famiglia come dato empirico, ma l’unitarietà della famiglia, come categoria ontologica. E poiché ciò che è nuovo richiede di essere espresso con termini nuovi, mi propongo di usare l’espressione famiglia sintetica, per alludere a un modo di pensare la famiglia che non è più in grado di percepirne la naturalità e l’universalità (le due dimensioni richiamate nella Premessa della Carta),</em> perché la percepisce unicamente come costruzione sociale.

Non so se l’espressione famiglia sintetica entrerà nel linguaggio comune, per essere alla fine recepita nei dizionari, tra i neologismi. So però che si tratta di un’espressione necessaria, perché tutte le altre che potrebbero essere usate al suo posto (famiglie allargate, famiglie ricomposte, nuove famiglie, fino all’orribile famigliastre) alludono a dinamiche e a fenomeni diversi, di rilevanza esclusivamente empirica. Famiglia sintetica serve a mostrare come esistano e siano in continua espansione comunità familiari, che sono certamente fondate sulla volontà di una coppia di costituire una famiglia (ma come potrebbe essere diversamente? come potrebbe esserci una famiglia involontaria?), nelle quali però la volontà non si manifesta in uno specifico atto di volizione, dotato di una sua forza costitutiva (come può essere il reciproco giuramento davanti a Dio dei coniugi o il fatidico davanti all’ufficiale di stato civile), bensì in un progetto aperto, destinato a espandersi o a contrarsi nel tempo, a creare vincoli occasionali, ancorché limpidi, o insopportabili vischiosità, suscettibile di essere potenziato e approfondito, così come di essere destrutturato, cancellato, rimosso per dar luogo a nuove e diverse sintesi. Quella che nella prospettiva tradizionale possiamo chiamare famiglia naturale è la famiglia che, a partire dalla sua origine, fonde i suoi membri in una comunità, nella quale le posizioni originarie di ciascuno di essi vengono, in qualche misura, definitivamente trascese e non sono quindi assolutamente più riconquistabili (come accade, ad es., per usare una grossolana metafora gastronomica, quando il cuoco unisce gli ingredienti del piatto che sta elaborando, ben sapendo che, una volta che li abbia amalgamati, è impossibile riportarli al loro stato iniziale). Nella famiglia sintetica invece non è così: più che ad una pietanza, essa può più adeguatamente essere paragonata ad una macchina, assemblata in base a un progetto, ma le cui parti costitutive potrebbero –ad libitum-essere smontate e rimontate e comunque riutilizzate per costruire un altro meccanismo. Un matrimonio naturale può ben fallire e concludersi in una separazione o in un divorzio; ma nemmeno nel caso in cui i divorziati convolino a nuove nozze si può ritenere la prima esperienza tamquam non fuisset. Il suo rilievo istituzionale possiede una sua oggettività istituzionale, a volte ben labile, ma in ogni modo incancellabile: lo stato di un divorziato non è analogabile allo stato di un celibe, per minime che siano le differenze tra di essi. Analogamente, il riconoscimento di un figlio naturale è irreversibile, ecc. Non è così nelle dinamiche della famiglia sintetica: quando i rapporti sintetici si estinguono, di essi può restar traccia nella memoria, individuale o collettiva, ma in essa soltanto; sotto ogni altro profilo della famiglia sintetica non resta nulla, perché di essa non deve restar nulla, perché è proprio per questo che essa è stata pensata e voluta.

Quando Irène Théry, alcuni anni fa, propose nel libro Le démariage (Paris, Odile Jacob, 1993) questo termine all’attenzione di tutti, voleva alludere a un fenomeno sociologico eclatante e in continua espansione: la fuga delle coppie dal matrimonio legale. Tale fuga, però, non era non confondere assolutamente –avvertiva la studiosa- con una, per dir così, disaffezione all’esperienza di vita di coppia. A diversi anni di distanza siamo in grado di meglio comprendere il senso autentico del démariage, che non è solamente un segno di insofferenza per la regolamentazione giuridica degli affetti interpersonali (ed eventualmente generativi), ma un ben diverso modo di progettare il futuro e di dare una forma all’esperienza relazionale. E’ questo il fenomeno su cui dobbiamo riflettere, perché –se le sue manifestazioni sono divenute palesi solo negli ultimi decenni- le sue radici sono probabilmente ben più antiche e non sono state studiate nel modo dovuto.

Sono diversi i paradigmi interpretativi che potremmo utilizzare per comprendere meglio le radici delle famiglie sintetiche. Quello che voglio utilizzare –la contrapposizione tra spirito classico e spirito romantico-si inserisce in un quadro di amplissimo raggio e potrà quindi apparire, forse, astratto e comunque difficile a valutarsi. Ma possiede, a mio avviso, una carica esplicativa che non va minimizzata. La mia tesi è che la famiglia naturale ha una radice classica, mentre quella sintetica ha una radice romantica. Il punto è che classicismo e romanticismo, nel contesto di questo discorso, non vanno pensati come due paradigmi letterari o come due alternative riducibili a varianti di gusto, tra le quali quindi sarebbe è legittimo scegliere esclusivamente secondo preferenze soggettive, insindacabili e quindi non meritevoli nemmeno di essere argomentate. Si tratta piuttosto di due varianti antropologiche, con rilevanti ricadute sociali.

Il vecchio Goethe non amava il romanticismo; era solito ripetere -dimenticando i suoi trascorsi di gioventù- che lo spirito romantico è uno spirito malato. In tal modo, egli ci ha dato una chi
ave ermeneutica essenziale per intendere anche il classicismo, cioè il paradigma che comunemente, e correttamente, si ritiene essere l’opposto del romanticismo, e per liberare queste due categorie contrapposte dall’ ipoteca scolastico-manualistica che grava su di esse, quella per la quale esse servirebbero unicamente a descrivere una particolarissima epoca della cultura europea, quella tardo settecentesca e proto-ottocentesca. Non è così. Spirito classico e spirito romantico sono due possibilità strutturali dello spirito e il loro corretto intendimento ci aiuta non solo a capire una fase essenziale della cultura europea, ma ben più in generale un modo antinomico di manifestazione dell’humanum. Il classicismo è -o comunque ha sempre voluto rappresentarsi- come la manifestazione dello spirito in quanto sano, impegnato intenzionalmente a conquistarsi un difficile, profondo e sofferto equilibrio (tanto quanto il romanticismo si è sempre manifestato come espressione di uno spirito che accetta ogni squilibrio e che intenzionalmente accetta perfino di identificarsi come malato). Il classicismo infatti è amore per la luce, la serenità, l’ordine, il logos, la compostezza, l’autocontrollo, l’impegno, la fedeltà, la bellezza; non subisce il fascino, né meno che mai la tentazione dell’orrido; odia l’irrequietudine, la sproporzione, l’oscurità, la contraddizione, ogni forma di patetismo, l’irrazionalità, la stravaganza, il tradimento. E soprattutto il classicismo non riesce a comprendere la storia (né quella individuale, né quella collettiva), che invece è tanto amata dal romanticismo. Non la comprende non perché ne neghi l’esistenza e le dinamiche (sarebbe questa un’evidente assurdità), ma perché la storia apre indebite pretese di manipolazione del futuro e distrae dall’impegno nel e per il presente; attraverso la storia, in altre parole, emergono tutte quelle dimensioni di negatività dello spirito (l’irrequietudine, la violenza, il fanatismo, il desiderio del nuovo non in quanto buono, ma in quanto nuovo) contro cui lo spirito classico combatte senza tregua. Il romanticismo, invece, innamorato della storia come mutamento continuo, incessante, creatore di valori, disprezza il presente; può immergersi, nelle sue versioni conservatrici, nell’ idolatria del passato (pensato sempre comunque come un paradigma da riattualizzare), ma soprattutto ama lasciarsi travolgere dal fascino del futuro. Sia nelle sue versioni conservatrici che in quelle rivoluzionarie esso esalta la volontà, come forza endogena dello spirito, una forza che non tollera limite né misura e che non accetta di essere sottoposta ad alcun vaglio.

Abituati a pensare categorie come classicismo e romanticismo alla stregua di categorie artistico-letterarie, siamo difficilmente portati a applicarle ad una realtà sociale come quella della famiglia sintetica. Eppure, solo l’uso di queste categorie può aiutarci a comprenderne fino in fondo l’identità. La famiglia sintetica è intrinsecamente romantica. Non si fonda su di un progetto, ma sull’immediatezza dei sentimenti. Pensa al futuro come orizzonte indiscriminato di possibilità. E quando essa entra in crisi, non assume la crisi come negatività da fronteggiare e da riparare, bensì come apertura di nuove possibilità. La famiglia sintetica non percepisce la scansione dei tempi, né ama modellare o prendersi cura dei ruoli familiari, che ai tempi sono collegati (nulla di meno riconducibile alla famiglia sintetica di quell’art d’être grand-père, al cui apprendimento dedicava le sue energie il vecchio Victor Hugo); le sue passioni si accendono improvvisamente e altrettanto improvvisamente si spengono. Esse hanno il fascino che possiede la sperimentazione pura, non vincolata a finalità predeterminate, completamente cangiante nelle forme e nelle tecniche. La sua identità è analogabile a quell’identità di genere, di cui tanto oggi si parla, che si determinerebbe attraverso impulsi interiori e che si manifesterebbe all’esterno solo nelle modalità, assolutamente non predeterminabili, che il soggetto decide occasionalmente di adottare.

Ha un futuro la famiglia sintetica? No e non può averlo, perché il futuro appartiene a chi nel futuro ha fiducia, non a chi vivendo solo nel presente è indifferente al domani. Se non ha un futuro, la famiglia sintetica, però, indubbiamente ha un presente. Ha un presente molto evidente: basti osservare le alterazioni (a volte intenzionali, a volte non intenzionali) che essa sta inducendo nella famiglia naturale. E’ pericoloso questo suo manifestarsi nel presente? Pone a un ingiusto rischio la famiglia naturale? E’ doveroso, per proteggere questa, contrastare quella e con quali strumenti (legali, sociali, psicologici, religiosi)? E fino a che limiti sarebbe possibile spingere questo contrasto? Oppure dobbiamo ritenere che proprio attraverso il confronto/scontro con la famiglia sintetica si aprano nuove possibilità per la famiglia naturale di tornare a comprendere se stessa e le sue ragioni costitutive? Per molti è solo l’eccesso che fa riscoprire il valore della sobrietà, è solo la malattia che fa percepire il bene della salute, è solo l’instabilità che induce all’elogio dell’equilibrio. Secondo alcuni, della famiglia sintetica la famiglia naturale non dovrebbe avere alcuna paura, perché ciò che non corrisponde alla natura giunge inevitabilmente a perdersi, sia pure in tempi difficilmente prevedibili e più o meno lunghi. Lo dimostrerebbero, sempre secondo alcuni, le periodiche crisi che nella storia hanno colpito la famiglia naturale, inducendo alcuni a preconizzarne addirittura la morte e che, invece, ne hanno solo riconfermato l’identità profonda e necessaria.

Gli studiosi dei movimenti collettivi e delle istituzioni hanno quindi un notevole ventaglio di opzioni prognostiche e dottrinali con cui fare i conti. Chi invece voglia restare aderente all’esperienza individuale e poco si interessi a come le esperienze individuali si manifestino all’interno di esperienze collettive tenderà piuttosto a interrogarsi sul portato di felicità che uomini e donne possono attendersi dalle nuove dinamiche familiari. Non c’è dubbio che la famiglia naturale abbia sempre avuto (e sempre continuerà ad avere, ove sopravviva alla crisi del presente) le sue luci e le sue ombre; ma non c’è nemmeno alcun dubbio che l’esperienza familiare sia sempre stata ritenuta intrinsecamente desiderabile almeno come esperienza tra tempi, cioè come esperienza di durata. Il nesso strutturale che nella famiglia naturale si dà tra matrimonio e procreazione è espressivo di quanto stiamo dicendo. Si hanno rapporti con le prostitute, sosteneva Demostene, per soddisfare i propri bisogni sessuali; si hanno rapporti con le etere, per soddisfare le proprie esigenze relazionali; ma ci si sposa, egli concludeva, per avere figli. Al di là della secca brutalità di queste espressioni, è indubbio che Demostene abbia colto una verità antropologica (non religioso-confessionale!): nella famiglia gli esseri umani sperimentano la dimensione della temporalità, quella dimensione che solo attraverso l’ordine delle generazioni può essere sperimentata dagli uomini. E’ una dimensione, quella della temporalità, cui -direbbe un giusnaturalista – sono obiettivamente preordinate tutte le relazioni tra i sessi: sia l’esercizio “basso” della sessualità (che Demostene esemplifica nel rapporto con le prostitute), sia l’esercizio sublimato della sessualità (le relazioni con le etere), sia l’esercizio coniugale (che ben può, anche se Demostene sembra non in grado di percepirlo, ricomprendere i precedenti ed assurgere quindi a forma compiuta di relazione uomo-donna). La famiglia sintetica non è in grado d
i elaborare né di essere espressiva di alcunché di analogo, per la semplice ragione che non tematizza l’esperienza della relazione uomo-donna né come strutturata, né come caratterizzata da durata, ma solo come mera evenienza fattuale. Svuotando in tal modo dall’interno la familiarità e negandole rilievo assiologico, la famiglia sintetica assume nei confronti del’ordine delle generazioni qualsiasi possibile posizione: può escluderlo dal proprio orizzonte, al punto da attivare pratiche non solo anticoncezionali, ma anche al limite di sterilizzazione volontaria; può percepirlo come dotato di valore, al punto da combattere la sterilità con pratiche anche estreme di procreazione assistita; può non elaborarlo come tema antropologico e fare del mettere al mondo figli il risultato della mera casualità biologica.

La famiglia sintetica, in breve, non si riconosce come una istituzione sociale, né ritiene che i sistemi ordinamentali istituzionalizzati debbano normativizzarla (se non per quel che concerne la pretesa di fruire di alcune forme diutilità parassitarie, di cui qui non mette conto parlare). Essa quindi è espressiva di una formidabile sfida: la sua stessa esistenza tende a far revocare in dubbio l’opportunità di un controllo sociale delle generazioni, su cui si fonda non solo ogni diritto positivo di famiglia, ma ancor più e ancor prima ogni sistema di identificazione sociale delle individualità personali, che è sempre tradizionalmente affidato al loro ruolo familiare.

In sintesi, la famiglia sintetica coltiva (ne siano o meno consapevoli i suoi membri) una duplice pretesa: quella di restare ai margini di ogni sistema ordinamentale e quella, ancor più radicale, di non costituire in nessun caso, essa stessa, un sistema. Le due pretese convergono in quello che Hegel chiamava l’odio per la legge, la manifestazione estrema dello spirito romantico e contemporaneamente la messa alla prova più dura, possibile e immaginabile, dello spirito classico. Nella riflessione hegeliana, chi nutre odio per la legge non va assimilato ad un anarchico, che progetta l’abolizione dello Stato e la cancellazione dei codici, ma piuttosto a chi ragiona come fa il conte di Suffolk nella prima parte (atto secondo, quarta scena) dell’ Henry VI di Shakespeare: “Beh, a scuola di diritto io sono sempre stato un allievo svogliato; non ho potuto mai piegare la mia volontà alla legge; e perciò piego la legge alla mia volontà”. Di qui il paradosso insolubile della famiglia sintetica: la sua pretesa di essere riconosciuta istituzionalmente, ma non come vincolo, bensì come espressione di libertà arbitraria e insindacabile. Riuscirà il diritto, che è nella sua struttura classicismo antiromantico, a difendere la naturalità, cioè l’antisinteticità della famiglia?

Print Friendly, PDF & Email
Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione