Cibo e politiche di reclusione, al centro del dibattito su rifugiati e richiedenti asilo

Problemi analizzati dall’Osservatore Permanente vaticano presso l’ONU

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GINEVRA, domenica, 9 ottobre 2005 (ZENIT.org).- Il rifornimento di cibo nei campi di rifugiati e la crescente politica di detenzione nei confronti di quanti chiedono asilo sono i due aspetti fondamentali che esigono nuovi approcci, ha sottolineato l’Arcivescovo Silvano M. Tomasi davanti alla 56ª sessione del Comitato Esecutivo del Programma ONU per i Rifugiati (UNHCR, acronimo in inglese).

L’Osservatore Permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite di Ginevra, ha affermato che “cibo sufficiente e sicuro e condizioni minime di libertà personale e benessere” sono elementi “necessari per salvaguardare la dignità umana di ogni persona” e la sua protezione, che rimane “al centro del mandato dell’UNHCR”.

“Se la protezione si estende con modalità appropriate a rifugiati in base alle convenzioni, richiedenti asilo e sfollati interni, la sua definizione dovrebbe ragionevolmente evolversi e diventare più inclusiva in diretta relazione con una più adeguata comprensione della sicurezza”, ha osservato Tomasi.

In alcuni dibattiti recenti relativi ai vari elementi che permettono una sicurezza maggiore della popolazione, ha infatti ricordato, “altri requisiti sono stati aggiunti all’assenza di persecuzioni fisiche, di minacce alla vita e di conflitti violenti”.

Le condizioni precarie di quanti vivono nei campi “li confina spesso lontano dalle occupazioni agricole che permetterebbero loro di produrre autonomamente il proprio cibo e da attività che producano un reddito con cui sostenersi”, ha constatato l’Osservatore Permanente, aggiungendo che in circostanze tali essi “devono dipendere dalla comunità internazionale”.

Le risorse finanziarie inadeguate hanno tuttavia costretto spesso ad un razionamento alimentare e ad una carenza di cibo dalle “conseguenze negative ben documentate”: “bambini il cui sviluppo si arresta, rischio di mercificazione del sesso per ottenere alimenti, rimpatrio forzato in un ambiente ancora non sicuro”.

Di fronte a questa situazione, la delegazione della Santa Sede ha espresso il proprio sostegno all’“opzione dell’integrazione locale dove questa sia possibile”, all’“eccellente collaborazione tra il Programma Alimentare Mondiale e l’UNHCR” e ad una “strategia dello sviluppo integrata che comprenda sia la popolazione locale che i rifugiati sistemati nella stessa regione”.

“In questo modo, la sicurezza del cibo risulta il primo passo verso un ritorno all’esistenza normale per gente già traumatizzata dall’esilio forzato e che non dovrebbe essere resa più vulnerabile dall’incertezza del sostentamento quotidiano”, ha spiegato l’Arcivescovo Tomasi.

Quanto alla crescente politica di reclusione di quanti chiedono asilo come misura deterrente di routine, l’Osservatore Permanente ha affermato che “il pericolo di stigmatizzazione di quanti chiedono asilo e dei rifugiati come ‘immigrati irregolari’ e ‘coloro che saltano la fila’ o persino dei ‘criminali’ (…) può portare ad una semplificazione disumanizzante, emotiva e disinteressata del nesso tra asilo e migrazioni”.

La politica di detenzione, ha ricordato, solleva “questioni umanitarie, di diritti umani e anche di natura giuridica e legale”, e “ci sono reali preoccupazioni circa il fatto che possa diventare una politica sistematica alla quale molti Paesi ricorrono più come una regola che come eccezione suscitata dall’ordine e dalla sicurezza nazionali”.

In questa “complessa questione”, secondo il Nunzio Apostolico “dovrebbe essere un dovere” “soppesare le conseguenze della privazione della libertà e degli standard inadeguati e della qualità di trattamento delle persone coinvolte, soprattutto di gruppi vulnerabili come donne e bambini”.

Le gravi conseguenze di una politica di detenzione generalizzata rendono necessario “uno sforzo coordinato”: le condizioni medie di detenzione mostrano infatti “personale addestrato in modo inadeguato, commistione di bambini e adulti, anziani e donne, e a volte di persone che chiedono asilo e criminali comuni”.

“Anche la mancanza di accesso ai servizi di base e all’istruzione ha un impatto negativo sulla salute fisica e mentale delle persone detenute”.

“C’è poi una questione di percezione – ha proseguito monsignor Tomasi –. Agli occhi della gente, non è facile fare una distinzione tra detenzione, detenzione arbitraria e detenzione amministrativa, per cui quanti chiedono asilo e gli immigrati irregolari sono associati con i criminali, un’immagine che favorisce un comportamento razzista e xenofobo e che costituisce un deterrente per l’integrazione”.

La detenzione prolungata, inoltre, “lascia cicatrici sugli individui che hanno già attraversato difficoltà e subito abusi prima di arrivare nei Paesi in cui vengono arrestati”, e questi segni “rendono complicato il loro reinserimento nella società e in non pochi casi li portano a rischiare la vita”.

Se dunque la sicurezza nazionale richiede che in casi eccezionali quanti chiedono asilo siano detenuti, “ciò dovrebbe avvenire in base a criteri ben definiti e per il minor tempo possibile, con l’opportunità di avere accesso all’assistenza legale, medica e pastorale e all’incontro con i parenti ed il mondo esterno”.

Di fronte a una storia che mostra che “una politica esclusivamente di controllo aumenta la vulnerabilità di quanti chiedono asilo e il rischio di un loro sfruttamento”, “la sfida attuale consiste nel ridurre il divario a livello di qualità di vita tra i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo”, ha osservato.

“Una visione più globale della sicurezza può fornire la volontà di affrontare le cause, di ordine sia economico che politico, che spingono tante persone ed attraversare il mondo alla ricerca di protezione, sopravvivenza e di una vita decente”, ha infine concluso.

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ZENIT Staff

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