Sul Concilio né nostalgie anacronistiche né fughe in avanti (Prima parte)

Un commento all’omelia di Benedetto XVI durante la solenne celebrazione di apertura dell’Anno della Fede

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di Massimo Introvigne

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 12 ottobre (ZENIT.org).- L’11 ottobre 2012, a cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, Benedetto XVI ha aperto l’Anno della fede. «Per fare memoria del Concilio», la solenne celebrazione in Piazza San Pietro «è stata arricchita – ha spiegato il Papa – di alcuni segni specifici: la processione iniziale, che ha voluto richiamare quella memorabile dei Padri conciliari quando entrarono solennemente in questa Basilica; l’intronizzazione dell’Evangeliario, copia di quello utilizzato durante il Concilio; la consegna dei sette Messaggi finali del Concilio e quella del Catechismo della Chiesa Cattolica» al termine della Messa prima della Benedizione. Tutti questi segni hanno lo scopo per il Pontefice di farci entrare più profondamente nel Vaticano II, «per farlo nostro e portarlo avanti nel suo vero senso».

L’Anno della fede, in realtà, «è legato coerentemente a tutto il cammino della Chiesa negli ultimi 50 anni: dal Concilio, attraverso il Magistero del Servo di Dio Paolo VI [1897-1978], il quale indisse un “Anno della fede” nel 1967, fino al Grande Giubileo del 2000, con il quale il Beato Giovanni Paolo II [1920-2005] ha riproposto all’intera umanità Gesù Cristo quale unico Salvatore». Tutto il Magistero post-conciliare, afferma Benedetto XVI, mostra «una profonda e piena convergenza proprio su Cristo quale centro del cosmo e della storia, e sull’ansia apostolica di annunciarlo al mondo». L’evangelizzazione parte dal Padre e, mediante la forza dello Spirito, raggiunge tutta la storia umana in Gesù Cristo. E «la Chiesa è lo strumento primo e necessario di questa opera di Cristo, perché è a Lui unita come il corpo al capo».

Il Concilio, ricorda ancora il Papa, «non ha voluto mettere a tema la fede in un documento specifico. E tuttavia, esso è stato interamente animato dalla consapevolezza e dal desiderio di doversi, per così dire, immergere nuovamente nel mistero cristiano, per poterlo riproporre efficacemente all’uomo contemporaneo». All’udienza generale dell’8 marzo 1967 lo ricordava con parole molto chiare il servo di Dio Paolo VI: «Se il Concilio non tratta espressamente della fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e forte, e costruisce su di essa le sue dottrine. Basterebbe ricordare [alcune] affermazioni conciliari (…) per rendersi conto dell’essenziale importanza che il Concilio, coerente con la tradizione dottrinale della Chiesa, attribuisce alla fede, alla vera fede, quella che ha per sorgente Cristo e per canale il magistero della Chiesa».

E  Benedetto XVI cita pure il beato Giovanni XXIII (1881-1963), che nel solenne discorso di apertura del Concilio di cinquant’anni fa con altrettanta chiarezza ne indicava lo scopo ultimo: «Questo massimamente riguarda il Concilio Ecumenico: che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito ed insegnato in forma più efficace. (…) Lo scopo principale di questo Concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina… Per questo non occorreva un Concilio… E’ necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo».

Benedetto XVI afferma di averlo egli stesso sperimentato partecipando al Vaticano II: «durante il Concilio vi era una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato: nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi».

E tuttavia il Papa riconosce il rischio che questa tensione ad annunciare la fede «pecchi di confusione». Per evitare la confusione occorre poggiare sempre su «una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II»; occorre «ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito». La «vera eredità del Vaticano II» si trova nei testi: «il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità». In effetti, «il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento».

Nessuno è autorizzato ad alimentare equivoci in nome di un presunto «spirito» del Concilio sganciato dalla «lettera» dei testi. «I Padri conciliari volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano». Purtroppo, «negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei, che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità».

Dunque, se oggi il Papa propone un Anno della fede, «non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che 50 anni fa!». Le cose non vanno meglio di allora. Vanno peggio. «In questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale. Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso». Viviamo in un deserto. Ma è anche vero che spesso «nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita».

Come rispondere a questa sete? Occorre che chi ha sete incontri un evangelizzatore, una persona «che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni». «Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cfr Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato 20 anni or sono».

Il Papa ha voluto anche ricordare che il giorno dell’apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, ricorreva la festa di Maria Madre di Dio, fissata da Papa Pio XI (1857-1939) nel giorno della proclamazione del dogma della Divina Maternità della Madonna da parte del Concilio di Efeso nel 431. Il beato Giovanni XXIII tenne particolarmente a porre così il Concilio sotto il patrocinio della Madre di Dio.

[La seconda parte verrà pubblicata sabato 13 ottobre]

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ZENIT Staff

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