Stili di vita che parlano di amore, libertà e gioia reale

Mons. Fisichella conclude il Convegno organizzato dalla Facoltà di Teologia della Santa Croce

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di Giovanni Tridente

ROMA, mercoledì, 14 marzo 2012 (ZENIT.org) – La testimonianza rappresenta “l’ultima parola che il cristiano pronuncia per dare credibilità della sua fede, consapevole che essa equivale ad offrire in dono la propria vita per amore”.

Sono le parole di mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, intervenuto al Convegno “Parola e testimonianza nella comunicazione della fede”, svoltosi dal 12 al 13 marzo su iniziativa della Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce.

La testimonianza è, quindi, secondo il vescovo, un fattore “vitale per la Chiesa nello svolgimento della sua missione nel mondo” e per molti aspetti è anche la “prima via” percorribile nella ricerca di “strumenti più coerenti” per evangelizzare il mondo di oggi. L’annuncio del Vangelo, dunque, “richiede testimoni convinti, capaci di mettere la propria esistenza al servizio della verità di un annuncio che può essere accolto solo tramite loro”.

In un contesto di indifferenza, agnosticismo e mancanza di fede, ha aggiunto, “i testimoni hanno il grave compito di provocare l’assunzione di stili di vita che sanno parlare di vero amore, di genuina libertà e di gioia reale” .

Questo tipo di testimonianza, ha concluso il prelato, diventa imprescindibile nel percorso della nuova evangelizzazione intrapreso dalla Chiesa, e sarà “tanto più provocatoria quanto più riuscirà ad esprimersi attraverso un linguaggio autentico”.

Si è soffermato poi sulla valenza antropologica della testimonianza cristiana anche mons. Giuseppe Angelini, docente presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, il quale ha ribadito che “il senso e la necessità della testimonianza possono essere compresi soltanto a condizione che si riconosca la condizione originaria della persona”.

Nel “clima culturale” attuale, caratterizzato dal “rifiuto dell’idea di verità”, secondo mons. Angelini, domina “una declinazione debole e decisamente scadente della categoria della testimonianza”, tollerata solo come “racconto della propri esperienza”.

Eppure, “la testimonianza è categoria assolutamente irrinunciabile per dire la qualità della parola cristiana”, ma è insieme anche “la categoria alla quale le forme correnti del pensiero appaiono oggi decisamente refrattarie”, sulla base del principio dell’estraneità reciproca delle coscienze”.

Di fronte a questa concezione, bisogna far valere “l’immagine della testimonianza quale confessione della verità che precede il soggetto, apre il suo cammino e impegna la sua libertà”. Una verità, insomma, che “ha bisogno dello svolgimento del dramma della vita” per manifestarsi nella sua chiarezza e consentire una decisione irrevocabile.

Il Rettore dell’Università San Dámaso di Madrid, il Prof. Javier María Prades, ha invece affrontato la nozione di testimonianza nei documenti del Concilio Vaticano II e del magistero pontificio postconciliare. Dal lungo excursus documentale ha quindi sintetizzato che “la testimonianza per antonomasia è quella di Cristo stesso”, ma è anche “un’azione peculiare di ogni fedele cristiano in virtù della sua partecipazione al sacerdozio comune attraverso il battesimo, la cresima e l’eucaristia”.

Per il rettore, dunque, la testimonianza va ugualmente concepita “come culto spirituale, fino alla santità e al martirio” e rappresenta “un elemento decisivo nella missione della Chiesa”, collocandosi al centro della vita della stessa e della sua azione pastorale.

Da queste considerazioni è emerso, infine, secondo il cattedratico, che “la credibilità della fede si riconosce all’interno della vita stessa dei cristiani”, mentre è il martirio a chiarire “l’intima correlazione tra la santità di vita e la professione esplicita della fede” e a permettere “l’interpretazione di ogni testimonianza cristiana”.

Partendo dal documento conciliare Dei Verbum, il Prof. Paul O’Callaghan, ordinario di Antropologia teologica alla Santa Croce, ha spiegato che “i credenti, quando danno testimonianza della loro fede, stabiliscono un legame triplice: con chi ascolta, che viene spinto dalla loro convinzione e sincerità; con Dio che rivendica la verità in e per mezzo della loro vita, e con se stessi, perché la testimonianza che danno è e deve essere in profonda
sintonia – unità di vita – con il loro vissuto concreto”.

Ovviamente, bisogna tener conto che “non si tratta di un processo automatico, ma libero, dovuto alla riserva escatologica che sempre caratterizza la rivelazione cristiana, e alla necessità di una risposta generosa, personale e intrasferibile che ogni uomo viene invitato a dare alla grazia divina”.

Il professore ha anche argomentato che “il Vangelo è costituito in modo tale da non imporsi sull’uomo”: “il Dio onnipotente, che ha creato il cielo e la terra, cerca una risposta pienamente libera e generosa dell’uomo alla sua rivelazione”. Ne è prova il fatto che “con la risurrezione di Cristo non tutti credevano. Con la vita santa dei cristiani, neppure”.

Tuttavia, è la risurrezione che aggiunge “qualcosa di nuovo alla morte di Gesù, perché ne offre l’interpretazione definitiva”. Infatti, la morte di Cristo “non viene percepita più come ripudio da parte di Dio ma proclamazione in Lui e per mezzo di Lui della verità da lui predicata”. E la stessa risurrezione “diventa proclamazione iconica di tutto ciò che Gesù disse e fece”.

Di “testimonianza e dialogo nella missione della Chiesa” ha infine parlato il Prof. César Izquierdo, della Facoltà di Teologia dell’Università di Navarra, partendo dall’assunto che “senza la testimonianza apostolica, che è, insieme, comunicazione e espressione della fede, la Chiesa non esisterebbe”.

Pur tuttavia, la testimonianza della Chiesa “non è un suo fatto privato, un qualcosa che essa intraprende di sua iniziativa”, quanto espressione “del suo essere in Cristo”, una sua “forma peculiare” e per nulla complementare.

Evidentemente, oggi il ricorso alla testimonianza e al dialogo “è condizionato talvolta da un contesto sociale e ideologico estraneo e spesso ostile alla verità”, frutto “di due principi della cultura postmoderna: il primo è che la verità non può essere affermata pubblicamente; il secondo è che la fede può essere qualificata non come vera o falsa, ma soltanto come sincera o ingannevole”, ha spiegato lo studioso.

Di conseguenza “sembra inadeguato e addirittura sconveniente pretendere che il sentimento religioso esca dalla sfera personale e miri ad avere un riflesso nella società”. Ecco che di fronte a queste pretese, “la predicazione cristiana non può rinunciare a che la fede sia testimoniata pubblicamente, e a che questa testimonianza sia in relazione con la verità”,
come ricordato anche dagli ultimi due pontefici.

Il convegno ha offerto, inoltre, una riflessione teologica sugli ambiti dell’arte, della società e della politica grazie alla partecipazione di eminenti rappresentanti intervenuti a due distinte tavole rotonde.

Alla prima, moderata dal giornalista Lorenzo Fazzini, hanno preso parte la Sovrintendente della Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Roma, Maria Vittoria Marini Clarelli; l’attore e regista della famosa serie televisiva Don Matteo, Giulio Base, e la giornalista e autrice di Sposati e sii sottomessa, Costanza Miriano.

La seconda tavola rotonda ha registrato invece la partecipazione di esponenti della politica moderati dal dott. Luca De Mata. Nell’ambito del simposio, sono stare presentate, inoltre, circa venti comunicazioni su vari aspetti legati al tema generale delle due giornate.

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ZENIT Staff

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