"So in chi ho posto la mia fede"

Omelia del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede

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VENEZIA, lunedì, 15 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo l’omelia tenuta ieri durante la Solenne Celebrazione Eucaristica in piazza San Marco dal patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, in occasione dell’apertura diocesana dell’Anno della Fede.

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Introduzione

Carissimi,

l’Anno della Fede è dinanzi alla nostra Chiesa e a ciascuno di noi come grazia, opportunità, compito; il desiderio è viverlo al meglio per essere viva Chiesa del Signore.

Inizio con le parole di Benedetto XVI che nella lettera apostolica Porta fidei – indicendo l’anno – riprende l’apostolo Paolo che, al termine della vita, scrive al discepolo Timoteo e lo esorta a “cercare la fede (cfr. 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr. 2Tm 3,15)” (PF,15). E, poi, continua: “Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede: Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie in noi” (PF, 15).

Questo invito è rivolto alla Chiesa che è in Venezia, al patriarca, ai presbiteri, ai diaconi, ai consacrati, alle consacrate, ai giovani, agli anziani, ai sani, ai malati, a tutti: nessuno escluso.

L’Anno della Fede: una grazia di conversione

Crescere nella fede vuol dire appartenere a Dio e testimoniare con la vita battesimale, il Signore Gesù; per questo necessitano occhi nuovi che sappiano guardare oltre il momento presente, liberi nel coglierlo secondo verità e giustizia.

Ora, la domanda “venga il tuo Regno…” (Mt. 6,10) – che Gesù pone all’inizio del Padre Nostro – non è, per il cristiano, una via di fuga dinanzi a un presente che, talvolta, può anche esser faticoso. Al contrario, ci invita a compiere qualcosa di concreto attraverso una vita di fede più attenta e generosa con cui, rispondendo alla grazia, si possa vivere il tempo presente comunicandogli il respiro dell’eternità, considerando i piccoli semi di verità e di giustizia che sono intorno a noi.

In questo tempo di grazia – che è l’Anno della Fede – pastori e fedeli sono chiamati a testimoniare personalmente e comunitariamente quanto l’apostolo Paolo, al termine della vita, scrive a Timoteo: “So… in chi ho posto la mia fede e sono convinto che egli è capace di custodire fino a quel giorno ciò che mi è stato affidato” (2Tm 1,12). L’Anno della Fede – indetto da Benedetto XVI per celebrare i cinquant’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II e i vent’anni della promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica – ci chiama personalmente in causa assieme alla comunità ecclesiale, invitando all’esame di coscienza sul modo in cui vivere e professare la fede oggi.

Benedetto XVI, all’inizio della Lettera apostolica Porta fidei con cui promulga per la Chiesa l’Anno della Fede, così si esprime: “La ‘PORTA DELLA FEDE’ (cfr. At 14,27) che introduce la vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr. Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre…” (PF, n.1).

Una revisione di vita che voglia essere vera conversione deve qualificarsi, innanzitutto, in termini di critica “generosa”, ossia in termini di autocritica. Il che significa: non puntare il dito contro nessuno. Bisogna superare le recriminazioni, forse anche espressioni di animi “storicamente” amareggiati, certamente di animi non ancora capaci di perdono generoso. Se è il caso, contrastiamo tali stati d’animo con più coraggio e fiducia, con più amore, con umiltà e desiderio di riconciliazione.

La questione decisiva, o “caso serio” nel nostro personale cammino verso una fede più matura, richiede di far nostre sine glossa – ossia senza interpretazioni di comodo – le pagine difficili del Vangelo, cominciando proprio da quelle sul perdono. Si tratta di far esodo verso la verità di Dio, premessa per ricostruire vere relazioni personali e comunitarie. Un’idea di tolleranza non fondata sulla verità, alla fine, risulta fuorviante e destinata a condurre prima all’indifferenza e poi alla reciproca estraneità.

“Io credo”, “noi crediamo”: salvati con gli altri

Bisogna – secondo l’esortazione dell’apostolo Paolo – non esser pigri nella fede ma, piuttosto, saper scorgere, attraverso di essa, le meraviglie di Dio. La fede non si esaurisce nell’atto personale del credere. L’affermazione “io credo” porta sempre con sé anche la dimensione comunitaria del credere, vale a dire “noi crediamo”.

La forma ecclesiale del credere è parte strutturale della fede. Noi, infatti, un giorno abbiamo ricevuto la fede da qualcuno o, almeno, qualcuno ci ha rinsaldati in essa. Emblematico è il caso di Saulo che, dopo l’incontro diretto col Cristo risorto, viene mandato da Anania che lo introdurrà  nella vita di fede, la vita della Chiesa (cfr. At 9,10-19).

Ciascuno di noi, in modo simile, condivide la fede con chi gliel’ha annunciata e con quanti, insieme a lui, credono. Sì, la fede va condivisa con gli altri, o meglio con la Chiesa, all’interno della comunione del popolo di Dio che – come insegna il Concilio Ecumenico Vaticano II – va intesa sempre come unione di fedeli e pastori.

Le parole della costituzione dogmatica Lumen gentium, in proposito, sono chiare: “La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando «dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici» mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cfr. 1 Ts 2,13)…” (LG, 12).

Henri de Lubac, grande storico della teologia, circa la connotazione ecclesiale della fede così s’esprime: “L’io che crede in Gesù Cristo non può essere altro che la Chiesa di Gesù Cristo. La fede del cristiano è dunque partecipazione alla fede della Chiesa. Ma una fede non è fede “nella” Chiesa, è fede “della” Chiesa… L’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” (H. de Lubac, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano, 1979, 109). Si dice letteralmente: “l’anima cristiana è un’anima ecclesiastica” e con ciò si riconoscono ed evidenziano gli elementi che, anche storicamente, segnano la vita di fede della Sposa del Signore.

Un pensiero ricorrente nel magistero di Benedetto XVI ribadisce che l’uomo si pone in relazione con Dio proprio attraverso il prossimo. Noi, d’altra parte, comunichiamo con gli altri credenti attraverso i contenuti della fede. Si dice comunemente: crediamo le stesse “cose”. Due persone che non si conoscono, che non appartengono alla stessa cultura e non parlano la stessa lingua ma credono in Gesù Cristo, attraverso la loro fede, comunicano fra loro nelle cose più importanti. Condividono, infatti, le risposte alle domande fondamentali dell’uomo: Chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Chi mi garantisce oltre la mia fragilità? C’è qualcosa dopo questa vita? Che cos’è il bene? Che cos’è il male?

Si manifesta, così, la dimensione comunitaria del credere e Benedetto XVI lo evidenzia. L’uomo non è chi
amato da solo alla salvezza ma all’interno della comunità ecclesiale: “Con il suo amore, Gesù attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del vangelo, con un mandato che è sempre nuovo” (PF n.7). Nella Chiesa ogni realtà è personale e, allo stesso tempo, comunitaria. Nulla è individuale, a iniziare dalla fede che introduce l’uomo nel mondo di Dio e nell’alleanza tra Dio e l’uomo e degli uomini fra loro.

Quando Gesù comincia ad annunziare il Regno, raduna attorno a sé il nuovo popolo di Dio, costituito inizialmente dai Dodici e dai discepoli. Gesù, poi, congiunge il gesto sacramentale del pane spezzato e del vino effuso con la piena comunione ecclesiale. La salvezza non si esprime, così, come la presenza individuale di Gesù nelle coscienze dei singoli ma nel dono di Lui vivente e presente nella Chiesa, il suo corpo. Sant’Agostino parla, a ragione, della Chiesa come del Christus totus, il Cristo integrale (cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos, 85,1, in PL, 36,1081).

La dimensione comunitaria della fede non solo non schiaccia l’io personale ma fa in maniera che il singolo credente non cada in una fede fai da te, oggi molto di moda. La fede – nella sua dimensione comunitaria e relazionale – è, alla fine, essenziale e permette al soggetto di raggiungere la pienezza umana.  La fede fai da te è comunque rischio ricorrente per la nostra epoca, segnata dall’individualismo che pretende di rinchiudere ogni cosa all’interno di un soggetto che, invece d’incontrare l’Altro, nella vicenda storica di Gesù di Nazareth, finisce per imbattersi nel proprio io o, più realisticamente, nella cultura dominante del determinato momento storico.

In altri termini – stante il progetto di Dio rivelato nel Signore Gesù – gli uomini non sono chiamati a una salvezza individuale ma donata a un popolo costituito su un fondamento imprescindibile: Pietro e i Dodici.

Il libro degli Atti degli Apostoli, fin dalle prime pagine, ne è la diuturna testimonianza: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane, nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti, 2, 43-46).

Insieme a un tale quadro idilliaco, non vanno sottaciuti il peccato di Anania e Saffira (cfr. At 5,1-11), il comportamento dell’incestuoso di Corinto che vive con la moglie di suo padre (cfr. 1Cor 5, 1-5), le divisioni della stessa comunità che provocano nell’apostolo Paolo espressioni che ci sorprendono: “…verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto non già delle parole di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che sanno veramente fare. Il regno di Dio infatti non consiste in parole, ma in potenza. Che cosa volete? Debbo venire a voi con il bastone, o con amore e con dolcezza d’animo? ” (1Cor, 4, 19-21).  

I Dodici rimarranno, comunque, il fondamento: coloro che hanno visto e ascoltato il Signore e hanno vissuto con Lui, quelli che l’hanno seguito a Gerusalemme, l’hanno visto morire in croce ma, soprattutto, l’hanno incontrato nuovamente vivo il terzo giorno, realmente risorto e, concordi, testimoniano che è apparso a Simone (cfr. Lc. 24,34). La Chiesa è fondata sui Dodici, gli inviati del Risorto. E, dopo, i loro successori che continuano l’opera apostolica, evangelizzando fino agli estremi confini della terra.

L’Anno della Fede è, nello stesso tempo, itinerario personale del discepolo ed ecclesiale dell’intera Chiesa. Costituisce un percorso che conduce il credente verso un più vero e intenso incontro con la persona di Gesù, la quale dà alla vita dell’uomo un nuovo orizzonte e la direzione decisiva (cfr. PF n.1).

Il Concilio Ecumenico Vaticano II – come insegna Benedetto XVI – s’inserisce in un cammino ecclesiale di riforma nella continuità. All’inizio della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium, troviamo queste parole: “Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio… ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini annunziando il Vangelo ad ogni creatura…” (LG n.1). 

Cristo – col suo Vangelo, il suo “buon annuncio” – ci raggiunge tramite la Chiesa e il suo ministero. Fondamentale è l’esperienza personale dei Dodici a partire dagli incontri che ebbero col Signore risorto il giorno successivo al sabato. La Chiesa, negli uomini e donne che la compongono, è la prima destinataria dell’annunzio cristiano: “…davvero il Signore è risorto!” (cfr. Lc 24,34). Poi, a sua volta, diventa il soggetto evangelizzante per antonomasia a cui compete l’onore e l’onere dell’annuncio.

Benedetto XVI lo sottolinea quando, nella Lettera Porta fidei, afferma: “La stessa professione di fede è un atto personale e insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede… “Io credo”: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede che ci insegna a dire “Io credo”, “Noi crediamo” (PF n.10).

E’ necessario, all’inizio dell’Anno della Fede, di nuovo ascoltare il richiamo dell’apostolo Paolo che, nella lettera ai Romani, parla del compito e della missione della Chiesa nei confronti dell’annuncio del vangelo cristiano: “Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati invitati? Come sta scritto: ‘Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!’ ” (Rm 10,14-15).

E’, quindi, attraverso la Chiesa che noi incontriamo Dio e possiamo credere in Lui. Ma nonostante ciò – come detto – l’atto di fede rimane gesto della persona, seppur scandito nella comunità ecclesiale e attraverso di essa, mai al di fuori o senza essa. Secondo tale logica, immaginare un incontro con Dio escludendo il prossimo equivarrebbe ad una radicale incomprensione della rivelazione cristiana per la quale gli altri – per la stessa volontà di Gesù – sono segni dell’incontro con l’Altro. Ed è Gesù che ce lo ricorda: “Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualcosa, il Padre mio che è nei cieli, gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 19-20).

Dato che la fede di cui parla Gesù è sempre intimamente legata all’amore, allora, nella vita di fede, assume particolare rilevanza l’apertura del cuore. Fede e carità si esigono a vicenda; per questo l’Anno della Fede deve essere occasione per crescere nella testimonianza reciproca della carità. Una vita di fede priva delle opere – e per il cristiano la prima opera è la carità – costituisce, di per sé, un’obiezione fondamentale. Si tratterebbe di una contraddizione in termini: non è vera, non è genuina, non è salvifica una fede che sia incapace d’amare. Si può dire piuttosto che è una fede che ha smarrito se stessa (cfr. PF n.14).

In tale prospettiva comprendiamo quanto sia decisivo ciò che Giovanni scrive nella prima lettera: “Se uno dice: “io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da Lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” (1Gv 4, 20-21).

Così la fede – soprattutto quando l’ascolto si fa preghiera – conduce a vivere la comunione più intensa con Dio, una comunione che si esprime in una fraternità più grande che sorprende e riempie di stupore quanti sono coinvolti. Il culto, infatti, non risulta gradito a Dio se non esprime un cu
ore riconciliato. Il Vangelo di Matteo ci avverte in proposito: “Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5, 23).

La fede, poi, si esprime secondo modalità e gesti pubblicamente rilevabili: la domenica e le festività proprie della religiosità popolare, gli usi e i costumi di determinate popolazioni e territori ma soprattutto – lo si ribadisce – la domenica, giorno del Signore. Il rischio, soprattutto in epoche che si caratterizzano per la veloce transizione – la cosiddetta società liquida -, è confondere il patrimonio, che esprime la grande Tradizione, con un passato che, invece, non ha più la forza d’incidere sul presente dei singoli e delle comunità.

Allora diventa oltremodo facile passare ad una fede che, nei fatti, non risponde più a una scelta di vita, a un preciso modo di pensare, di parlare e agire ma, piuttosto, a un freddo conformismo a cui ci si consegna e aggrappa e del quale si ha bisogno per coprire le proprie insicurezze. Un altro pericolo, sul quale siamo chiamati a vigilare, consiste nel rischio di confondere l’elemento religioso dell’atto di fede con quello sociale/sociologico che può caratterizzare un particolare territorio o una determinata popolazione.

Anche gli antagonismi e le guerre di religione non sono contrasti intrinsecamente connessi ad una fede vera e autentica ma, piuttosto, appartengono alla vita, alla storia, alla cultura di un’etnia, di un popolo, di una società. Lo ribadiamo: non alla genuina vita di fede. 

I contenuti della fede

L’Anno della Fede, oltre che ricordare il cinquantesimo anniversario dalla solenne inaugurazione del Concilio Ecumenico Vaticano II (11 ottobre 1962), intende anche richiamare, a vent’anni dalla sua promulgazione (11 ottobre 1992), il Catechismo della Chiesa Cattolica.

La lettura meditata delle quattro Costituzioni conciliari e del Catechismo della Chiesa Cattolica ci accompagni lungo l’Anno della Fede sia a livello personale sia comunitario; i due livelli – personale e comunitario – sono, infatti, necessari per una vera comprensione dei grandi testi in cui si trova condensata la saggezza dell’ultimo Concilio. 

E’ vivo desiderio del Santo Padre Benedetto XVI – come lo fu già del suo predecessore, il beato Giovanni Paolo II – fare in modo che il Catechismo, in cui è trasfuso lo spirito e la lettera del Concilio Vaticano II, trovi una più grande  accoglienza presso le nostre comunità.

E proprio Giovanni Paolo II, nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, ricordava come tale idea si manifestò in occasione dell’Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, celebrata nel 1985, a vent’anni dalla conclusione del Concilio; si trattò, quindi, di un’esplicita richiesta proveniente dai padri sinodali. Giovanni Paolo II affermava così d’aver fatto suo il desiderio espresso dal Sinodo dando un’autorevolezza più grande a quel voto. In tal modo conferiva a questo desiderio l’avvallo del successore dell’Apostolo Pietro (cfr. Fidei Depositum, Introduzione).

E’ importante che nell’Anno della Fede, nella nostra Chiesa particolare – vescovo, parroci, diaconi, persone consacrate, fedeli laici – trovino cordiale accoglienza le quattro grandi Costituzioni conciliari e il Catechismo della Chiesa Cattolica. Sarà un gesto concreto di recezione e di amore verso il Concilio Vaticano II. Chiedo, quindi, che tale impegno sia assunto da tutti e, in modo particolare, dai parroci. Ricordo, pure, che la piena recezione del Vaticano II chiede di promuovere nei nostri cammini formativi, personali e comunitari, il Catechismo della Chiesa Cattolica. 

Ancora il beato Giovanni Paolo II – sempre nella Costituzione Fidei Depositum – si è servito di espressioni da cui traspare l’autorevolezza delle sue parole: “Il Catechismo della Chiesa cattolica… di cui oggi ordino la pubblicazione in virtù dell’autorità apostolica, è un’esposizione della fede della Chiesa e della dottrina cattolica, attestate o illuminate dalla Sacra Scrittura, dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa…” (Fidei Depositum, parte IV).

Fin da questi primi mesi il Catechismo della Chiesa Cattolica entri abitualmente nella pastorale ordinaria delle parrocchie, delle comunità pastorali, dei movimenti, delle associazioni e aggregazioni laicali. Ritengo che un proficuo approccio al testo del Catechismo sia offerto dal Compendio dello stesso Catechismo che, in modo agile e organico, introduce e presenta quanto il testo dice circa la professione di fede, i sacramenti, la vita cristiana e la preghiera della Chiesa.

Cito, infine, il passo con cui si chiude la prefazione del Catechismo della Chiesa Cattolica che assume – e fa suo – il principio pastorale del Catechismo Romano, espressione del Concilio di Trento, promulgato da papa San Pio V. Tale passo, che è bene conoscere, per molti costituirà – penso – una felice sorpresa: “Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento deve essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri dell’attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore” (Catechismo Romano, 10).

A tutti auguro un Anno della Fede in compagnia con Maria, la prima discepola del Signore Gesù, il Salvatore del mondo.     

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ZENIT Staff

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