Signore, aumenta la nostra fede

Omelia di monsignor Pelvi nella Messa in suffragio dei caduti nelle missioni internazionali di pace

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ROMA, martedì, 13 novembre 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito il testo dell’omelia tenuta ieri da monsignor Vincenzo Pelvi, Ordinario militare per l’Italiadurante la Santa Messa celebrata nella basilica romana Ara Coeli in suffragio dei caduti nelle missioni internazionali di pace.

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Carissimi,

nel brano evangelico ora ascoltato, i discepoli domandano a Gesù: «Signore, aumenta la nostra fede». Anche noi – come i discepoli – abbiamo una fede piccola, fragile e spesso non siamo capaci di vivere con il Signore una relazione profonda, fatta di abbandono pieno e fiducioso, umile e perseverante, gratuito e convinto.

Gesù risponde: Se anche la tua fede fosse piccolissima, basterebbe a spostare le montagne. Tu pensi che la fede si possa misurare, pesare o contare. No! Te ne basta un granello per saltare, come bambino, nelle braccia materne di Dio e cambiare nel suo amore il volto della storia.

Mi chiedo: come posso credere in te, Signore, nella notte del dolore, nel buio della disperazione, nello sconforto della solitudine. Chi può dare senso alla mia angoscia che grida: Perché non rispondi? Perché ti nascondi al mio lamento e non ascolti? E’ il paradosso di un Dio che sembra lontano, in ritardo dinanzi alle nostre attese, che guarda la morte innocente come spettatore dell’odio e dell’oppressione.

Credere è andare oltre l’emozione e le spiegazioni; è volontà di non arrendersi alla pesantezza del presente; impegno a non uccidere la speranza, rendendo possibile ciò che umanamente è impossibile.                                                           

Se aveste fede simile a un granellino di senape, dice Gesù. L’evocazione del granello rimanda al compito che ci è affidato quotidianamente: cominciare ogni giorno dalle scelte semplici, dai piccoli gesti, dall’attenzione agli altri per non soprassedere sul male e sprigionare energie di bene.

La fede, quando c’è, ha sempre la consistenza di un seme, che racchiude in sé la forza di operare grandi cose, costruendo stili di gratuità e accoglienza. Così i nostri ragazzi, ingiustamente e innocentemente uccisi, che hanno creduto all’amore e – come granello di senape – diventano germe di nuovo umanesimo. Lavorando per un popolo martoriato in un deserto di arida disperazione hanno voluto il bene dell’altro, adoperandosi efficacemente per concorrere al riscatto sociale cui aspirano gli uomini. Accanto a quello individuale, c’è un bene legato al vivere sociale della persona: il bene comune.     In una società globalizzata, il bene comune e l’impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell’intera famiglia umana, così da dare forma di pace alla città dell’uomo. E’ promuovendo l’incontro tra i popoli e favorendo lo sviluppo partendo dall’amore e dalla comprensione reciproca che si pongono le basi per una pace solida e duratura.

Il servizio dei nostri militari alla sicurezza nazionale, europea e mondiale richiama quella collaborazione internazionale, unica via per un futuro sereno dell’umanità, custode della causa dei diritti umani. Se non pensiamo in termini di mondialità, siamo destinati al declino e tradiremmo il sacrificio dei nostri giovani caduti e il dolore delle loro famiglie.

Siamo una sola famiglia umana, annodata prima che da obblighi e alleanze legislative, dalla stessa dignità umana, naturalmente strutturata e orientata a quella tranquillitas ordinis, che è la pace.

Carissimi, siamo qui per esprimere, ancora una volta ai nostri ragazzi affetto e riconoscenza, per come hanno vissuto, amato e sperato. Sarebbe formale la nostra presenza, in questo tempio, se non imparassimo, sull’esempio di chi ha donato se stesso, che la vita non è possesso o conquista. Nella generosità dei nostri militari si nasconde una profonda sapienza, frutto di rinunce e sacrifici, e che resta punto di riferimento luminoso per tracciare la rotta della storia, pur nell’oscurità dell’inedito.

A ciascuno dei nostri caduti ripetiamo: Ti amo, cioè, tu non morirai mai. Il legame indissolubile tra noi e loro non si può più rimuovere, permane oltre la morte, perché riflesso dell’amore eterno. Dietro il presente non c’è il nulla. Non è vero che tutto termina con la morte. Lo verifichiamo amando i nostri cari che ci invitano a uscire da noi stessi per cercare un senso e trovarlo. Chi ama veramente sa che perdere la propria singola verità, rinunciare alla sua libertà, è donare la vita: chi perde la vita per amore, la trova.

«Forte è la morte perché è capace di privarci del dono della vita. Forte è l’amore che è capace di ricondurci a un uso migliore della vita. Forte è la morte che è in grado di spogliarci del vestito di questo corpo. Forte è l’amore che è capace di strappare le nostre spoglie mortali e restituircele… Forte come la morte è l’amore, perché l’amore di Cristo è la fine della morte» (Baldovino di Canterbury).

Cari genitori e familiari, voi lo sapete, se i nostri ragazzi non possono ritornare a noi, noi andremo a loro. Oggi li ricordiamo, ci attendono. Noi pensiamo al passato con loro, essi pensano al futuro assieme a noi. Noi li vediamo come ombre, loro dalla luce eterna ci vedono nell’ombra del tempo. E mentre cresce la nostalgia nei nostri cuori, pensiamo che essi abbiano nostalgia di noi, quel desiderio di rivederci, che induce a orientare diversamente la nostra nostalgia, che da rimpianto diventa attesa, da timore diventa speranza di quel mondo, nel quale saremo per sempre con il Signore.

+ Vincenzo Pelvi
Arcivescovo

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ZENIT Staff

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