Si vota a Bologna il referendum sulle scuole materne

Discriminazione e ideologia alla base del referendum per eliminare le scuole paritarie

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In qualsiasi altra città il referendum che si terrà domenica a Bologna non avrebbe storia. Si tratta, come ha detto Romano Prodi, di semplice buon senso: votare “A”, come vorrebbe il Comitato promotore del Referendum, significa voler caricare il Comune, e dunque i contribuenti, di oneri dieci volte più alti di quelli sopportati attualmente,  oppure privare di un servizio quasi 1600 famiglie. Dunque non dovrebbero esserci dubbi: l’esito scontato dovrebbe dare la soluzione “B”. Ma quello che è scontato da un’altra parte, a Bologna, ex-città vetrina del partito comunista, è tutt’altro che sicuro. Anzi. Il referendum è divampato in battaglia di schieramento all’interno della stessa sinistra, combattuta non sul merito ma in chiave ideologica.

I numeri parlano chiaro: le scuole paritarie convenzionate accolgono il 21% dei bambini bolognesi e ricevono contributi pari ad appena il 2,9% delle risorse che il Comune destina alla fascia 3-6 anni. Trasferire quei soldi, un milione di euro, dalle paritarie alle comunali permetterebbe di creare non più di 160 posti, ovvero meno di un decimo dei 1.736 posti attualmente coperti dalle paritarie. Detto altrimenti: il costo per bambino alle paritarie è di 640 euro, il costo per bambino alle comunali è di 6900 euro. Il danno per le casse pubbliche a questo punto è palese e clamoroso, per cui solo una persona ideologizzata e priva di calcolatrice può arrivare a votare “A”.

Sul sito del comitato promotore  si illustrano solo le cifre totali destinate alle paritarie, e il loro aumento nel tempo, ma non il rapporto costi-benefici per le casse pubbliche, tantomeno un raffronto dei i costi pro-capite fra privato e statale. 

Eppure il rischio che prevalga il disegno di azzoppare le scuole materne paritarie, mettendole al di là della portata di famiglie con pochi mezzi, è reale e consistente. Com’è possibile?

E’ passata molta acqua sotto i ponti da quando c’era la guerra fredda,  e Bologna era sede del più grosso partito comunista, vetrina e laboratorio del partito per tutto il Paese e forse di tutto l’Occidente. Però qui più che altrove le cose sono rimaste come prima. Alle ultime politiche,  sommando tutte le formazioni, la sinistra è arrivata a quasi il 70%, mentre in tutto, il centro-destra racimola uno scarno 18,1%.

E allora è una partita che si gioca all’interno della sinistra, dove il Comune e il Pd, appoggiati da Epifani e dalla Camusso, stanno da una parte a difendere il sistema voluto dal Comune stesso negli anni Novanta, sindaco Walter Vitali; dall’altra stanno Sel (6,1% alle politiche), Rivoluzione civile di Ingroia (2,6%), i Grillini (19,1%), la Fiom e stakeholders che vanno dall’Unione atei e agnostici all’Arcigay, il tutto tenuto insieme nel comitati promotore presieduto da Stefano Rodotà, quello che i grillini volevano eleggere Presidente di tutti gli italiani. 

Per questo non stupisce che sia nata qui l’iniziativa di prendere di mira dei modesti contributi alle scuole materne private paritarie, che esistono anche in altre parti d’Italia, e segnatamente a Parma, governata dai grillini, e in Puglia, governata da Vendola e Sel.  A sorprendere invece è la spaccatura nella sinistra stessa, che finora aveva continuato a essere monolitica. Sel e Pd sono infatti alleati in Comune, e se dovesse vincere la posizione dei referendari, il referendum semplicemente consultivo diventerebbe un’arma in mano a Sel che avrebbe buon gioco a minacciare la caduta della giunta al fine di imporre l’esito voluto.  

Ma al di là delle alleanze locali, la posta in gioco consiste nell’effetto – imitazione che i referendari sperano di suscitare nelle altre città, a partire da quelle della stessa Emilia rossa. Ciò risulta evidente quando si contano le voci dei big che si sono paracadutati in città preoccupatissimi della cultura qui impartita ai bimbi piccoli, e che solo il giovane assessore Matteo Lepore ha avuto il coraggio di definire marziani: nomi come Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Gino Strada, Andrea Camilleri, Angelo Guglielmi, Sabina Guzzanti, Carlo Freccero, Moni Ovadia, Corrado Augias , Neri Marcorè, Michele Serra, Philippe Daverio, Amanda Sandrelli e Magherita HacK, a cui si aggiungono un paio di nomi bolognesi: Andrea Mingardi e Francesco Guccini.

“Un attacco frontale alle scuole cattoliche”, ha definito il piano referendario Stefano Zamagni, presidente del Comitato per il Piano B, “una trappola dei mozza-orecchi” sempre pronti a sostenere “scelte settarie e divisive”, si è espresso Giuliano Cazzola, ex-sindacalista ed ex-parlamentare. 

Ma più che anti-cattolici, gli agguerriti referendari probabilmente sono piuttosto pro-omologazione, fautori della scuola dell’uniformità e dell’imprinting di massa, dove diffondere il relativismo religioso e soprattutto l’ideologia di genere, utili a produrre in serie la nuova umanità. Si tratta del tipo di scuola prefigurato in vari interventi da Elsa Fornero, nella sua veste di Ministero delle Pari Opportunità del Governo Monti: dalla conferenza stampa in cui disse che il tema dei diritti di omosessuali e transgender doveva “far parte di ciò che i bambini imparano da piccoli”, al documento intitolato “Strategia nazionale per la prevenzione delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere  per il biennio 2013 -2015”, che prevede “percorsi innovativi” che partano “dagli asili nido e dalle scuole dell’infanzia a costruire un modello educativo inclusivo” non solo per la comunità di lesbiche-gay-bisex-trans “ma per tutti i bambini”. In perfetta sintonia il Miur del Governo Monti, che nella circolare del 17 maggio 2012 specificava che “le scuole favoriscono la costruzione dell’identità sociale e personale da parte dei bambini e dei ragazzi, il che comporta anche la scoperta del proprio orientamento sessuale.” Il Ministro dell’Istruzione appena entrata in carica, Maria Chiara Carrozza, ha doverosamente reiterato la circolare per la Giornata contro l’Omofobia, il 17 maggio, ma ha lasciato che la funzione della scuola nel guidare i bambini alla scoperta del proprio orientamento sessuale risultasse nel richiamo a un sito esterno (www.noisiamopari.it).

A tali indirizzi  è probabile che le scuola paritarie, anche e soprattutto materne, non si adeguerebbero molto facilmente. Molto meglio metterle in condizione di chiudere (o magari limitare i “danni” ai soli figli dei ricchi?).

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Alessandra Nucci

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