Segnali di speranza dall'Africa (I)

Intervista a monsignor Jude Thaddeus Okolo

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di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 29 settembre 2009 (ZENIT.org).- Secondo monsignor Giampaolo Crepaldi, la soluzione dei problemi dell’Africa è un problema strategico per il mondo e per la Chiesa.

Ma come si fa a sconfiggere il sottosviluppo, la povertà e le malattie, come attuare la rivoluzione verde, in che modo sostenere la speranza e convincere i giovani a non emigrare, in che rapporti ci si può relazionare con l’islam, quali i problemi della Chiesa in Africa e quali le strade per trovare le soluzioni?

Il 4 ottobre si aprirà a Roma il secondo Sinodo per l’Africa, e questi temi saranno dibattuti intensamente.

Per cercare di capire cosa accade in Africa e quali potrebbero essere le strade da battere per trovare le soluzioni, ZENIT ha intervistato monsignor Jude Thaddeus Okolo, Nunzio Apostolico in Ciad e nella Repubblica Centrafricana.

In Africa più dell’80% della popolazione lavora nel settore agricolo, eppure nel continente centinaia di milioni di persone soffrono la fame. Come si spiega questo fenomeno?

Monsignor Okolo: È vero che il continente africano possiede una superficie estesa di terreno agricolo e una grande parte della popolazione ha accesso alla terra e lavora in agricoltura. Con le risorse materiali a disposizione, il nostro continente africano dovrebbe essere capace di nutrire i suoi figli. Ha una capacità produttiva che, se ben sfruttata, potrebbe assicurare il proprio mercato agricolo e superare l’insicurezza alimentare. Malgrado tutto questo, molti soffrono di fame. Il fenomeno si può spiegare partendo dalle difficoltà e dalle sfide che ci sono; e ce ne sono tante. Ne vediamo alcune.

Inanzitutto, bisogna riconoscere che alcuni Paesi del continente africano hanno compiuto notevoli progressi nel settore agricolo. L’esempio oppure l’esperienza di uno Stato in difficoltà non possono servire per condannare tutto il continente. Le realtà variano: le mentalità dimostrano contrasti enormi e impressionanti; si rileva una grande diversità tra regimi politici; i contesti culturali e religiosi variano; nelle esperienze storiche e pure negli orientamenti economici ci sono divergenze.

Si nota pure che la questione di buon governo (bonne gouvernance) ha registrato un sensibile miglioramento e la crescita economica ha raggiunto livelli straordinari. Per quanto riguarda l’agricoltura, i paesaggi cambiano da una località all’altra, anche nello stesso Paese. Quindi, parlando dello sviluppo agricolo, non si può non prendere atto di queste divergenze. Inoltre, una generalizzazione dello status quo non ci serve molto in questo argomento.

Quali sono queste difficoltà, questi problemi e queste sfide?

Monsignor Okolo: Mancanza di priorità agricola nella politica dei governanti. Per molti governanti e responsabili politici, poi, il budget per la sicurezza nazionale occupa un posto di priorità. Quindi, conviene convincere questi a fissare un orientamento ragionevole, chiaro e di priorità nella politica di sviluppo agricolo. Quando si parla dello sviluppo agricolo, si parla certamente della maniera di riorientare il popolo africano verso lo sviluppo sostenibile attraverso l’uso della terra e lo sfruttamento responsabile della natura.

Nuova coscientizzazione e sviluppo positivo della mentalità indigena. Con i mutamenti politici degli anni Sessanta e Settanta, in alcuni Paesi africani si pensava che lo sviluppo consistesse nell’abbandonare la terra, mettersi in cravatta e pantaloni e trovarsi nell’ufficio come pubblico funzionario. Ognuno desiderava abbandonare lo stato di contadino e mostrarsi sofisticato, erudito, emancipato, educato – una certa pseudo-sofisticazione, si può dire. La tendenza era di sfuggire dalla cultura agricola; la logica era di abbandonare la terra. Quindi, molti che hanno messo piede nella scuola superiore non vogliono più ritornare a coltivare la terra. Il compito più difficile ora sarebbe quello di convincere questi giovani che l’agricoltura può essere ancora di moda.

Mezzi di produzione. Ancora oggi, quasi dappertutto nei Paesi africani, l’agricoltura si fa con gli stessi attrezzi di sessant’anni fa. Questo limita la produzione. D’altra parte, uno dei problemi dei mezzi meccanizzati è la questione spinosa della manutenzione adeguata: disponibilità dei pezzi di ricambio, capacità tecnica degli agenti locali, attenzione all’istruzione per l’uso, ecc.

Il trasporto di prodotti da una parte del Paese all’altro può risultare molto oneroso per mancanza di mezzi adeguati e di strade asfaltate. Inoltre, piove molto e l’erosione distrugge le poche strade che ci sono. Il costo di trasporto è altissimo, quando i mezzi ci sono. Altrimenti la gente percorre decine di chilometri a piedi, portando sulla testa i propri prodotti.

Strano ma vero, in alcuni casi può darsi che ci sia una mancanza di volontà di maggiore impegno da parte dei contadini. Delle volte, alcuni contadini non si rendono conto della possibilità di migliorare la loro situazione: si accontentano di rimanere come sono e soprattutto resistono a ogni sforzo verso un vero cambiamento.

Insicurezza sociale e traffico legale/illegale di armi. Fino a poco tempo fa, i Paesi europei erano i più grandi fornitori di armi leggere ai Paesi africani. Queste armi cadevano nelle mani dei ribelli. Nelle zone controllate dai ribelli, nessuna attività agricola è possibile.

Una difficoltà che s’aggiunge alle altre è quella della criminalità organizzata transnazionale, in se stessa differente dalle attività di ribellione. Essa facilita il traffico di armi, il contrabbando di risorse naturali, aumenta il pericolo del traffico e del consumo di stupefacenti, della tratta di esseri umani, riduce la capacità dello Stato di controllare il proprio territorio e di organizzare la coltura della terra.

Di che cosa hanno bisogno gli africani per realizzare una prima rivoluzione verde?

Monsignor Okolo: Forse per rivoluzione verde qui si intende la biotecnologia moderna. In quel senso, i bisogni di molti africani sono diversi. Ma se si parla di un impegno più concreto nell’agricoltura, devo dire che molti Paesi africani hanno già attivato la “rivoluzione verde”, facendo prendere coscienza ai loro concittadini della realtà. Nel mio Paese d’origine, la Green Revolution era il ritornello nelle campagne politiche degli anni Ottanta. Quindi, non si può pensare che niente sia stato fatto.

Per uno sviluppo agricolo più concreto e che risponda alle esigenze di questo popolo, a parte le soluzioni alle difficoltà menzionate, si pensa alla coscientizzazione di base per sviluppare meglio le mentalità, le cooperative, le iniziative di giustizia e di pace, il rispetto della modalità dei popoli, tenendo conto dell’ambiente, del sistema di microfinanziamento, ecc.

Il lavoro di conscientizzazione non è per niente facile, a cominciare da quelli che dovrebbero essere più informati. Un piccolo esempio. Tutti sanno che la manioca contiene il cianuro, un veleno micidiale. Si sa come agisce al contatto con l’enzima umano, al momento del consumo del prodotto. In alcune parti, per la sopravvivenza, la manioca viene mangiata in abbondanza, ogni giorno – la produzione è abbondante, ma la preparazione, per togliere il cianuro è faticosa. Quindi, il pericolo c’è sempre. Convincere la gente, erudita o no, ad abbandonare la manioca per altri cibi più nutrienti (mais, millet, igname, sorgho, couscous, ecc.) è un problema non facile. Il risultato è che il cianuro distrugge lentamente il cervello di chi consuma la manioca. Blocca la capacità di autosviluppo; la persona umana rimane condannata a vivere la routine, senza saperlo.

Creare e sostenere le cooperative. In alcuni Paesi, in certe località, spuntano le associazioni cooperative, che spingono anche alla competizione dinamica. Occore rafforzare queste organizzazioni contadine e anche sostenerle con il finanziamento dello Stato. Per un popolo abituat
o a iniziative di famiglie e non di cooperative, non sarà facile far funzionare queste cooperative.

Dare il giusto prezzo del reddito. I prezzi dei prodotti agricoli dei Paesi africani sono fissati non dai produttori africani, ma dai terzi interessati. Si nota una grande differenza tra i prezzi pagati ai contadini produttori e i prezzi di vendita ai consumatori in Occidente. A Damara, nella Repubblica Centroafricana, 30 unità di pompelmo si vendono a circa un solo Euro. Magari i contadini sono contenti di ricevere questa cifra. Quei pompelmi, quando arrivano ai consumatori esteri, a che prezzo saranno venduti? D’altra parte, questa gente deve pagare il valore di circa sei Euro per comperarsi una camicia di seconda mano.

Rispettare le forme d’agricoltura in Africa. Certo, chi parla d’agricoltura in Africa non può riferirsi ai grandi imprenditori di terreni a vasta estensione, con trattori, impiegati, ecc. La questione dei grandi farmers esiste solo in pochi Paesi del continente. Quindi, qui si tratta di agricoltura familiare: i genitori e la loro prole che si organizzano. In più, l’impegno è stagionale e annuale: si produce per la stagione seguente. Quasi non ci sono previsioni per lunghi anni e di conseguenza non ci sono magazzini di stoccaggio, oppure mezzi di conservazione a lunga durata. Questa brevità di pianificazione crea disagi quando le intemperie si scatenano. Le aziende di famiglia sono piccolissime, l’allevamento nomade è contenuto a quanto si può controllare. È inutile cercare di cambiare subito il sistema. Anche per questa ragione il sostegno agricolo passa per il microfinanziamento.

Rimborso di credito nel sistema di microfinanziamento. La mentalità di rimborso del “credito istituzionale” è molto aliena in certe parti dell’Africa, soprattutto se tale prestito proviene dall’estero o dallo Stato. E’ interessante notare che si restituiscono i prestiti personali tra amici e conoscenti, ma non quelli delle istituzioni. Questa mentalità crea dei problemi per le banche, le quali non sono disposte a finanziare progetti di famiglia senza garanzia di restituzione.

[La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata questo mercoledì, 30 settembre]

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ZENIT Staff

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