Santa Sabina: il gioiello più prezioso dell'Aventino

Storia di una delle più antiche basiliche paleocristiane nel cuore della Capitale

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di Paolo Lorizzo*

ROMA, sabato, 18 agosto 2012 (ZENIT.org).- Nell’antichità per raggiungere il Mons Aventinus si percorreva la via carrozzabile denominata Vicus Piscinae Publicae da cui partiva un’altra strada (Vicus Armilustri) considerata l’attuale via di Santa Sabina, che scendeva dal colle fino a raggiungere, con ubicazione imprecisata, la Porta Lavernalis che si apriva nel circuito delle Mura Serviane.

Seppur la Basilica di S. Sabina presenta notevoli rimaneggiamenti, possiede ancora notevoli tracce e l’antico impianto paleocristiano del V secolo, costruito tra il 422 e il 432 da Pietro di Illiria sulle rovine di una precedente costruzione romana appartenuta alla matrona Sabina, in seguito divenuta Santa, a cui la chiesa è dedicata.

La nobile Sabina, moglie del senatore Valentino e vissuta tra la fine del I e l’inizio del II secolo, come accadde spesso nel patriziato romano, fu indotta alla conversione seguendo la fedele ancella Serapia. La tradizione vuole che insieme frequentassero le segrete riunioni che si tenevano nelle catacombe per sfuggire alle persecuzioni proclamate dagli editti imperiali. Quando Serapia venne catturata ed uccisa a bastonate, Sabina decise di rivelarsi Cristiana e fu a sua volta martirizzata con il taglio della testa.

Parte dell’edificio venne realizzato con l’impiego di materiali più antichi, appartenuti ad edifici abbandonati o a templi sconsacrati. E’ questo il caso delle ventiquattro colonne utilizzate per sorreggere le divisione delle navate provenienti dal tempio di Giunone Regina che sorgeva poco distante.

Gli scavi dei sotterranei hanno rivelato un contesto storico di grande interesse, riportando alla luce tratti di un basolato stradale (sicuramente pertinente al Vicus Armilustri) e porzioni delle Mura Serviane, documentate da due sottofasi del VI e del IV secolo a.C. Le due grandi campagne di scavo del 1855/57 e 1936/39 riportarono alla luce numerose fondazioni pertinenti ad edifici di varia datazione e destinazione. Furono gli scavi effettuati all’interno della basilica che restituirono le vestigia più rilevanti.

Venne infatti rinvenuto un nucleo abitativo datato al II secolo d.C. (l’epoca di S. Sabina, costruzione che ha restituito magnifici mosaici) e un tempio con due colonne in peperino sulla fronte ‘in antis’ (avanzate rispetto alla fronte del tempio e fiancheggiate da due ante in muratura) addirittura risalente al III secolo a.C.

Come già sottolineato, in seguito alla prima costruzione l’edificio subì numerosi rimaneggiamenti, il primo dei quali avvenne nel 1547 con il rifacimento interno ad opera di Domenico Fontana e successivamente nel 1643 con Francesco Borromini. Fu soltanto durante le magistrali campagne di restauro intraprese da Antonio Munoz (a cui si devono tra l’altro altre esemplari attività di restauro di edifici di epoca romana) avvenute dal 1914/19 e 1936/37 che la Basilica poté riacquistare ampi tratti della sua originaria impostazione, a tal punto da definire questi interventi ‘architettura neo-paleocristiana’.

Nel 1219 il complesso venne affidato da Papa Onorio III all’Ordine dei Frati Predicatori, fondato da Domenico Guzman che qui visse allargando e facendo prosperare la sua comunità. La tradizione vuole che la pianta di arancio oggi visibile all’interno del chiostro del convento sia la stessa piantata da Guzman nel 1220, la prima portata in Italia e proveniente dalla Spagna.

Quella che vediamo oggi attraverso una piccola apertura dal muro di recinzione non è altro che l’ultima pianta nata dall’originale portata da Guzman, che si dice abbia dato i frutti che Caterina da Siena donò canditi ad Urbano VI nel 1379.

Architettonicamente parlando la chiesa rappresenta uno dei pochi esemplari di edificio ‘senza facciata’. L’ingresso infatti è inglobato nel nartece che rappresenta uno dei quattro lati del portico inserito all’interno del complesso domenicano. L’interno, diviso in tre navate, presenta nella parete di fondo una grande abside, nei pressi della quale vi è la Schola Cantorum ricostruita nel secolo scorso riutilizzando frammenti di marmo pertinenti all’antico pluteo medievale. Da qui è visibile il catino absidale con lo splendido affresco realizzato da Taddeo Zuccari nel 1560 riproducente ‘Gesù, gli Apostoli e i Santi sepolti nella Basilica’.

In origine l’interno era probabilmente quasi del tutto ricoperto di splendidi mosaici parietali, oggi visibili soltanto nella controfacciata e in alcuni clipei, situati sull’arco trionfale.

Sono molti gli elementi di estremo interesse artistico che meriterebbero quantomeno una citazione, ma ci piace ricordare la presenza di un frammento di un fusto di colonna in un angolo della controfacciata subito dopo l’ingresso con una pietra nera sulla sua sommità.

La leggenda narra che questa pietra venne scagliata dal demonio contro Domenico (da qui il termine di Lapis Diavoli) durante un raccoglimento sulla tomba dei martiri. La pietra frantumò la lapide ma risparmiò Domenico. In realtà sappiamo che la lapide venne distrutta durante i lavori di restauro del 1587. Oggi quei frammenti sono stati recuperati e ricostruiti all’interno della Schola Cantorum, quasi a significare il trionfo del Bene sul male.

* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.

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ZENIT Staff

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