San Gregorio Nisseno e la via alla conoscenza di Dio

La quarta predica di Quaresima di Padre Raniero Cantalamessa

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CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 30 marzo 2012 (ZENIT.org) – Pubblichiamo il testo della quarta predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, tenuta questa mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano.

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1. Le due dimensioni della fede

Sant’Agostino ha operato, a proposito della fede, una distinzione  che  è rimasta classica fino ad oggi: la distinzione tra le cose credute e l’atto di crederle: “Aliud sunt ea quae creduntur, aliud fides qua creduntur”[1], la fidea quae e la fides qua, come si dice in teologia. La prima è detta anche fede oggettiva, la seconda fede soggettiva. Tutta la riflessione cristiana sulla fede si svolge tra questi due poli.

Si delineano due  orientamenti. Da una parte abbiamo quelli che accentuano l’importanza dell’intelletto nel credere e quindi la fede oggettiva, come assenso alle verità rivelate, dall’altra quelli che accentuano l’importanza della volontà e dell’affetto, quindi la fede soggettiva, il credere in qualcuno (“credere in”), piuttosto che credere qualcosa (“credere che”); da una parte quelli che accentuano le ragioni della mente e dall’altra quelli che, come Pascal, accentuano “le ragioni del cuore”.

In forme diverse questa oscillazione riappare a ogni tornante della storia della teologia: nel medio evo, nella diversa accentuazione tra teologia di san Tommaso e quella di san Bonaventura; al tempo della riforma tra la fede fiducia di Lutero e la fede cattolica informata dalla carità; più tardi  tra la fede nei limiti della semplice ragione di Kant e la fede fondata sul sentimento di Schleiermacher e del romanticismo in genere; più vicino a noi tra la fede della teologia liberale e quella esistenziale di Bultmann, praticamente priva di ogni contenuto oggettivo.

La teologia cattolica contemporanea si sforza, come altre volte nel passato, di trovare il giusto equilibrio tra le due dimensioni della fede. Si è superata la fase in cui, per ragioni polemiche contingenti, tutta l’attenzione nei manuali di teologia aveva finito per concentrarsi sulla fede oggettiva (fides quae), cioè sull’insieme delle verità da credere. “L’atto di fede –si legge in un autorevole dizionario critico di teologia –  nella corrente dominante di tutte le confessioni cristiane, appare oggi come la scoperta di un Tu divino.

L’apologetica della prova tende così a collocarsi dietro una pedagogia dell’esperienza spirituale che tende a iniziare a una esperienza cristiana, di cui si riconosce la possibilità inscritta a priori in ogni essere umano”[2]. In altre parole, più che far leva sulla forza di argomentazioni esterne alla persona, si cerca di aiutarla a trovare in se stessa la conferma della fede, cercando di risvegliare quella scintilla che c’è nel “cuore inquieto” di ogni uomo per il fatto di essere creato “a immagine di Dio”.

Ho fatto questa premessa perché ancora una volta essa ci permette di vedere l’apporto che i Padri possono dare al nostro sforzo per ridare alla fede della Chiesa il suo smalto e la sua forza d’urto. I più grandi tra di essi sono modelli insuperati  di una fede che è oggettiva e soggettiva insieme, preoccupata, cioè, del contenuto della fede, cioè dell’ortodossia, ma al tempo stesso creduta e vissuta con tutto l’ardore del cuore.

L’Apostolo aveva proclamato: “corde creditur” (Rom 10,10), con il cuore si crede, e sappiamo che con la parola cuore, la Bibbia intende entrambe le dimensioni spirituali dell’uomo, la sua intelligenza e la sua volontà, il luogo simbolico della conoscenza e dell’amore.  In questo senso i Padri sono un anello indispensabile per ritrovare la fede come la intende la Scrittura.

2.  “Credo in un solo Dio”

In quest’ultima meditazione  ci accostiamo ai Padri per rinnovare la nostra fede nell’oggetto primario di essa, in quello che si intende comunemente con la parola “credere” e in base a cui distinguiamo le persone tra credenti e non credenti: la fede nell’esistenza di Dio. Abbiamo riflettuto, nelle meditazioni precedenti, sulla divinità di Cristo, sullo Spirito Santo e sulla Trinità. Ma la fede nel Dio trino è lo stadio finale della fede, il “di più” su Dio rivelato da Cristo. Per giungere a questa pienezza bisogna prima aver creduto in Dio. Prima della fede nel Dio trino, c’è la fede nel Dio uno.

San Gregorio Nazianzeno ci ha ricordato la pedagogia di Dio nel rivelarsi a noi. Nell’Antico Testamento  viene rivelato apertamente il Padre e velatamente il Figlio, nel Nuovo, apertamente il Figlio e velatamente lo Spirito Santo, ora, nella Chiesa, godiamo della piena luce della Trinità intera.  Anche Gesù dice di astenersi dal dire agli apostoli quelle cose di cui essi non sono ancora in grado di “portare il peso” (Gv 16, 12). Dobbiamo seguire la stessa pedagogia anche noi nei confronti di coloro a cui vogliamo annunciare oggi la fede.

La Lettera agli Ebrei dice qual è il primo passo per accostarsi a Dio: “Chi si accosta a Dio deve credere che egli è, e che ricompensa tutti quelli che lo cercano” (Eb 11,6). È questo il fondamento di tutto il resto che rimane tale anche dopo che si è creduto nella Trinità. Cerchiamo di vedere come i Padri ci possono essere di ispirazione da questo punto di vista, tenendo sempre presente che il nostro scopo principale non è apologetico, ma spirituale, orientato cioè a consolidare la nostra fede, più che a comunicarla ad altri. La guida che scegliamo per questo cammino è san Gregorio Nisseno.

Gregorio Nisseno (331- 394), fratello carnale di san Basilio, amico e contemporaneo di Gregorio Nazianzeno, è un Padre e dottore della Chiesa di cui si va scoprendo sempre più chiaramente la statura intellettuale e l’importanza decisiva nello sviluppo del pensiero cristiano. “Uno dei pensatori più potenti ed originali che conosca la storia della Chiesa” (L. Bouyer), “il fondatore di una nuova religiosità mistica ed estatica” (H. von Campenhausen).

I Padri  non si sono trovati, come noi, a dover dimostrare l’esistenza di Dio, ma l’unicità di Dio; non hanno dovuto combattere l’ateismo, ma il politeismo. Vedremo, però, come la strada da essi tracciata per giungere alla conoscenza del Dio unico, è la stessa che può portare l’uomo d’oggi alla scoperta di Dio tout court

Per valorizzare il contributo dei Padri e in particolare del Nisseno,  è necessario sapere come si presentava il problema dell’unicità di Dio a loro tempo. A mano a mano che veniva esplicitandosi la dottrina della Trinità, i cristiani si videro esposti alla stessa accusa che essi avevano sempre rivolto ai pagani: quella di credere in più divinità. Ecco perché il credo dei cristiani che, in tute le sue varie redazioni, per tre secoli, era cominciato con le parole “Credo in Dio” (Credo in Deum), a partire dal IV secolo, registra una piccola ma significativa aggiunta che non sarà più omessa in seguito: “Credo in un solo Dio (Credo in unum Deum).

Non è necessario rifare qui il cammino che portò a questo risultato; possiamo partire senz’altro dalla conclusione di esso. Verso la fine del IV secolo si concluse la trasformazione del monoteismo dell’Antico Testamento nel monoteismo trinitario dei cristiani. I latini esprimevano i due aspetti del mistero con la formula  “una sostanza e tre persone”, i greci con la formula “tre ipostasi, una sola ousia”. Dopo un serrato confronto, il processo si concluse apparentemente con un accordo totale tra le due teologie. “Si può concepire – esclamava il Nazianzeno – un accordo più pieno e dire più assolutamente di così la stessa cosa, anche se con parole diverse?”[3].

Una differenza in realtà rimaneva tra i due modi di esprimere il mistero; oggi
si è soliti esprimerla così: i Greci e i latini, nella considerazione della Trinità, muovono da versanti opposti; i greci partono dalle persone divine, cioè dalla pluralità, per giungere all’unità di natura; i latini, viceversa, partono dall’unità della natura divina, per giungere alle tre persone. “Il latino considera la personalità come un modo della natura; il greco considera la natura come il contenuto della persona”.[4]

Io credo che la differenza si possa esprimere anche in altro modo. Entrambi, latini e  greci, partono dall’unità di Dio; sia il simbolo greco che quello latino comincia dicendo: “Credo in un solo Dio” (Credo in unum Deum”!). Soltanto che quest’unità per i latini è concepita ancora come impersonale o pre-personale; è l’essenza di Dio che si specifica poi in Padre, Figlio e Spirito santo, senza, naturalmente, essere pensata come preesistente alle persone.

Per i greci, invece, si tratta di un’unità già personalizzata, perché per essi “l’unità è il Padre, dal quale e verso il quale si contano le altre persone”.[5] Il primo articolo del credo dei greci suona anch’esso “Credo in uno solo Dio Padre onnipotente” (Credo in unum Deum Patrem omnipotentem”), solo che “Padre onnipotente” qui non è staccato da ‘unum Deum’, come nel credo latino, ma fa un tutt’uno con esso: “Credo in un solo Dio che è il Padre onnipotente”.

Questo è il modo in cui concepiscono l’unicità di Dio tutti e tre i Cappadoci, ma più di tutti san Gregorio Nisseno. L’unità delle tre divine persone è data, per lui, dal fatto che il Figlio è perfettamente (sostanzialmente) “unito” al Padre, come lo è anche lo Spirito Santo attraverso il Figlio” [6]. È questa precisa tesi che fa difficoltà per i latini che vedono in essa il pericolo di subordinare il Figlio al Padre e lo Spirito all’uno e all’altro: “Il nome ‘Dio’ – scrive Agostino – indica tutta la Trinità, non il solo Padre”.[7]

Dio è il nome che diamo alla divinità quando la consideriamo non in se stessa, ma in relazione agli uomini e al mondo, perché tutto ciò che essa opera fuori di sé lo opera congiuntamente, come unica causa efficiente. La conclusione importante che possiamo trarre da tutto ciò è che la fede cristiana è anch’essa monoteistica; i cristiani non hanno rinunciato alla fede ebraica in un solo Dio, l’hanno piuttosto arricchita, dando un contenuto e un senso nuovo e meraviglioso a questa unità. Dio è uno, ma non solitario!

3. “Mosè entrò nella nube”

Perché scegliere san Gregorio Nisseno come guida alla conoscenza di questo Dio davanti al quale stiamo come creature dinanzi al Creatore? Il motivo è che questo Padre, per primo nel cristianesimo, ha tracciato una via alla conoscenza di Dio che si rivela particolarmente rispondente alla situazione religiosa dell’uomo d’oggi: la via alla conoscenza che passa attraverso…la non-conoscenza.

L’occasione gli fu offerta dalla polemica con l’eretico Eunomio, il rappresentante di un arianesimo radicale contro cui scrivono tutti i grandi Padri vissuti nell’ultimo scorcio del IV secolo: Basilio, Gregorio Nazianzeno, il Crisostomo e, più acutamente di tutti il Nisseno. Eunomio identificava l’essenza divina nell’essere “ingenerato” (agennetos). In questo senso, per lui essa è perfettamente conoscibile e non presenta alcun mistero; noi possiamo conoscere Dio non meno di quanto lui conosca se stesso.

I Padri reagirono in coro sostenendo la tesi della “inconoscibilità di Dio” nella sua realtà intima. Ma mentre gli altri si fermarono a una confutazione di Eunomio basata più che altro sulle parole della Bibbia, il Nisseno, si spinse oltre dimostrando che proprio il riconoscimento di questa inconoscibilità è la via alla vera conoscenza (theognosia) di Dio. Lo fa riprendendo un tema già abbozzato da Filone[8]: quello di Mosè che incontra Dio entrando nella nube. Il testo biblico è Esodo 24, 15-18 ed ecco il suo commento:

“La manifestazione di Dio avviene dapprima per Mosè nella luce; in seguito egli ha parlato con lui nella nube, infine divenuto più perfetto, Mosè contempla Dio nella tenebra. Il passaggio dall’oscurità alla luce è la prima separazione dalle idee false ed erronee su Dio; l’intelligenza più attenta alle cose nascoste, conducendo l’anima attraverso le cose visibili alla realtà invisibile, è come una nube che oscura tutto il sensibile e abitua l’anima alla contemplazione di quello che è nascosto; infine l’anima che ha camminato per queste vie verso le cose celesti, avendo lasciato le cose terrestri per quanto è possibile alla natura umana, penetra nel santuario della conoscenza divina (theognosia) circondata da ogni parte dalla tenebra divina” [9].

La vera conoscenza e la visione di Dio consistono “nel vedere che egli è invisibile, perché colui che l’anima cerca trascende ogni conoscenza, separato da ogni parte dalla sua incomprensibilità come da una tenebra” [10].  In questo stadio finale della conoscenza,  di Dio non si ha un concetto, ma quello che il Nisseno, con un’espressione divenuta famosa, definisce “un certo sentimento di presenza” (aisthesin tina tes parusia[11].

Un sentire non con i sensi del corpo, s’intende, ma con quelli interiori del cuore. Questo sentimento non è il superamento della fede, ma la sua attuazione più alta: “Con la fede – esclama la sposa del Cantico (Cant 3, 6) – ho trovato l’amato”. Non lo “comprende”; fa di meglio, lo  “prende”! [12].

Queste idee del Nisseno hanno esercitato un influsso immenso nel pensiero cristiano posteriore, al punto da essere considerato il fondatore stesso della mistica cristiana. Attraverso Dionigi Areopagita e Massimo il Confessore che riprendono da lui questo tema, il suo influsso si estende dal mondo greco a quello latino. Il tema della conoscenza di Dio nella tenebra ritorna in Angela da Foligno, nell’autore della Nube della non-conoscenza, nel tema della “dotta ignoranza” di Nicola Cusano, in quella della “notte oscura” di Giovanni della Croce  e in molti altri.

4. Chi umilia davvero la ragione?

Ora  vorrei mostrare come l’intuizione di san Gregorio Nisseno può aiutare noi credenti ad approfondire la nostra fede e a indicare all’uomo moderno, divenuto scettico delle “cinque vie” della teologia tradizionale, un qualche sentiero che lo porti a Dio.

La novità introdotta dal Nisseno nel pensiero cristiano è che per incontrare Dio bisogna oltrepassare i confini della ragione. Siamo agli antipodi del progetto di Kant di mantenere la religione “dentro i confini della semplice ragione”. Nella cultura odierna secolarizzata si è andati al di là di Kant: questi in nome della ragione (almeno della ragion pratica) “postulava” l’esistenza di Dio, i razionalisti  posteriori negano anche questo.

Si capisce da ciò quanto sia attuale il pensiero del Nisseno. Egli dimostra che la parte più alta della persona, la ragione, non è esclusa dalla ricerca di Dio; che non si è costretti a scegliere tra il seguire la fede e il seguire l’intelligenza. Entrando nella nube, cioè credendo, la persona umana non rinuncia alla propria razionalità, ma la trascende, che è una cosa ben diversa. Il credente  dà fondo, per così dire, alle risorse della propria ragione, le permette di porre il suo atto più nobile, perché, come afferma Pascal,  “l’atto supremo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano” [13] .

San Tommaso d’Aquino, considerato giustamente uno dei più strenui difensori delle esigenze della ragione, ha scritto: “Si dice che al termine della nostra conoscenza, Dio è conosciuto come lo Sconosciuto perché il nostro spirito è pervenuto all’estr
emo della sua conoscenza di Dio quando alla fine si accorge che la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che può conoscere quaggiù” [14].

Nell’istante stesso che la ragione riconosce il suo limite, lo infrange e lo supera. Capisce che non può capire, “vede che non può vedere”, diceva il Nisseno, ma comprende anche che un Dio compreso non sarebbe più Dio. È ad opera della ragione che si produce questo riconoscimento, che  è, perciò,  un atto squisitamente razionale. Essa è, alla lettera, una “dotta ignoranza”[15] , un ignorare “a ragion veduta”.

Si deve dunque dire piuttosto il contrario, e cioè che pone un limite alla ragione e la umilia colui che non le riconosce questa capacità di trascendersi. “Finora -ha scritto Kierkegaard- si è sempre parlato così: ‘Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire’. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa  che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può ‘capire che non può capire’, allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire”[16] .

Ma di che genere di oscurità si tratta? Della nube che, a un certo punto, si frappose tra gli egiziani e gli ebrei è detto che essa era “tenebrosa per gli uni e luminosa per gli altri” (cf Es14, 20). Il mondo della fede è oscuro per chi lo guarda dal di fuori, ma è luminoso per chi vi entra dentro. Di una luminosità speciale, del cuore più che della mente. Nella Notte oscura di san Giovanni della Crocera (una variante del tema della nube del Nisseno!) l’anima dichiara di procedere per la sua nuova strada, “senza altra guida e luce, fuor di quella che in cuore mi riluce”. Una luce, però, che è “più sicura che il sol di mezzogiorno”[17].

La beata Angela da Foligno, una delle massime rappresentanti della visione di Dio nelle tenebre, dice che la Madre di Dio “fu tanto ineffabilmente  unita alla somma e assolutamente indicibile Trinità, che in vita godette della gioia di cui godono i santi in cielo, la gioia dell’incomprensibilità (gaudium incomprehensibilitatis), perché capiscono che non si può capire”[18].

È un complemento stupendo alla dottrina di Gregorio di Nissa sulla inconoscibilità di Dio.Ci assicura che lungi dall’umiliarci e privarci di qualcosa, tale inconoscibilità è fatta per riempire l’uomo di entusiasmo e di gioia; ci dice che Dio è infinitamente più grande, più bello, più buono, di quanto riusciremo mai a pensare,  e che è tutto questo per noi, perché la nostra gioia sia piena; perché non ci sfiori ninimamente il pensiero che potremmo annoiarci a passare l’eternità vicino a lui!

Un’altra idea del Nisseno che si rivela utile per un confronto con la cultura religiosa moderna è quella del “sentimento di una presenza” che egli pone al vertice della conoscenza di Dio. La fenomenologia religiosa ha messo in luce, con Rudolph Otto, l’esistenza di un dato primario, presente, in gradi diverse di purezza, in tutte le culture e in tutte le età che egli chiama “sentimento del numinoso”, cioè il senso, misto di terrore e di attrazione, che coglie improvvisamente l’essere umano di fronte al manifestarsi del soprannaturale o del soprarazionale[19].

Se la difesa della fede, secondo gli ultimi orientamenti dell’apologetica ricordati all’inizio, “si colloca dietro una pedagogia dell’esperienza spirituale, di cui si riconosce la possibilità inscritta a priori in ogni essere umano”, non possiamo trascurare l’aggancio che ci offre la moderna fenomenologia religiosa.

Certo, il “sentimento di una certa presenza” del Nisseno è cosa diversa dal confuso senso del numinoso e dal brivido del soprannaturale, ma le due cose hanno qualcosa in comune. Uno è l’inizio di un cammino verso la scoperta del Dio vivente, l’altro ne è il termine.

La conoscenza di Dio, diceva il Nisseno, comincia con un passaggio dalle tenebre alla luce e termina con un passaggio dalla luce alla tenebra. Non si giunge al secondo senza passare per il primo; in altre parole, senza essersi prima purificati dal peccato e dalle passioni. “Avrei già abbandonato i piaceri -dice il libertino- se avessi la fede. Ma io rispondo, dice Pascal: Avresti già la fede se avessi abbandonato i piaceri”[20].

L’immagine che, grazie a Gregorio Nisseno, ci ha accompagnati in tutta questa meditazione,  è stata quella di Mosè che sale sul monte Sinai ed entra nella nube. L’avvicinarsi della Pasqua ci spinge ad andare oltre questa immagine, di passare dal simbolo alla realtà. C’è un altro monte dove un altro Mosè ha incontrato Dio “mentre si faceva buio su tutta la terra” (Mt 27,45). Sul monte Calvario l’uomo Dio, Gesù di Nazareth, ha unito per sempre l’uomo a Dio. Al termine del  suo Itinerario della mente a Dio, San Bonaventura scrive:

“Dopo tutte queste considerazioni, ciò che rimane alla nostra mente è di elevarsi speculando non solo al di sopra di questo mondo sensibile, ma anche al di sopra di se stessa; e in questa ascesa Cristo è via e porta, Cristo è scala e veicolo…Colui che guarda attentamente questo propiziatorio fissandolo sospeso in croce, con fede, speranza e carità, con devozione, ammirazione, esultanza, venerazione, lode e giubilo, compie con lui la Pasqua, cioè il passaggio”[21].

Che il Signore Gesù ci conceda di fare questa bella e santa Pasqua con lui!

*

[1] Agostino, De Trinitate XIII,2,5)

[2] J.-Y. Lacoste et N. Lossky, “Foi“ , in Dictionnaire critique de Théologie, Presses Universitaires de France 1998, p.479).

[3] Gregorio Nazianzeno, Oratio 42, 16 (PG 36, 477).

[4] Th. De Régnon, Études de théologie positive sur la Sainte Trinité, I, Paris 1892, 433.

[5] S. Gregorio Naz., Or. 42, 15 (PG 36, 476).

[6] Cf. Gregorio Nisseno, Contra Eunomium 1,42 (PG 45, 464)

[7] Agostino, De Trinitate, I, 6, l0; cf. anche IX, 1, 1 («credamus Patrern et Filium et Spiritum Sanctum esse unum Deum»).

[8] Cf. Filone Al., De posteritate, 5,15.

[9] Gregorio Niss., Omelia XI sul Cantico (PG 44, 1000 C-D).

[10] Vita di Mosè, II,163 (SCh 1bis, p. 210 s.).

[11] Omelia XI sul Cantico (PG 44, 1001B).

[12] Omelia VI sul Cantico (PG 44, 893 B-C).

[13] B.Pascal, Pensieri 267 Br.

[14] Tommaso, In Boet. Trin. Proem. q.1,a.2, ad 1.

[15] Agostino, Epistola 130,28 (PL 33, 505).

[16] S. Kierkegaard, Diario VIII A 11.

[17] Giovanni della Croce, Notte oscura, canto dell’anima, str.3-4.

[18] Il libro della beata Angela da Foligno, ed. Quaracchi 1985, p. 468.

[19] R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano 1966.

[20] Pascal, Pensieri, 240 Br.

[21] Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, VII, 1-2 (Opere di S. Bonaventura, V,1, Roma, Città Nuova 1993, p. 564).

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ZENIT Staff

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