San Francesco Saverio, che visse bruciando nel fuoco dello zelo

Un ricordo del missionario gesuita nel giorno della sua Memoria liturgica

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I “segni che accompagnano quelli che credono” mostrano il Cielo; sono opere soprannaturali, miracoli che l’uomo, per quanto onesto, “civile” e tollerante non può compiere. Non si possono pianificare in un consiglio pastorale, su di essi vi è, inconfondibile, il copyright di Dio, impresso nella vita di Gesù come in quella di ogni cristiano. 

Alter Christus si diceva di San Francesco d’Assisi: un altro Cristo, questo è un santo, un cristiano, uguale a tutti eppure diverso. Santo è chi, amato da Cristo, ha un cuore che brucia d’amore che lo getta sulle strade del mondo sino agli estremi confini della terra a “predicare” il Vangelo che, per primo, ha salvato lui. 

Il cuore di San Francesco Saverio, che bruciava letteralmente le sue camicie, e che ha fatto della sua vita un lampo di Cielo sulle terre dove ha posato i suoi passi. Come fa ogni buon ebreo la vigilia di Pesah, come ha fatto Cristo, che con il suo sangue ha lavato le impurità di ogni uomo e con la sua carne ha offerto il vero e puro pane azzimo, anche San Francesco Saverio ha percorso ogni centimetro dell’Asia nel desiderio ardente di cercare tutto ciò che era hametz, ogni lievito della menzogna di Satana che impedisce all’uomo di passare dalla morte alla vita piena e felice. 

Francesco Saverio, un chiodo fisso nella mente, la salvezza d’ogni uomo. Un fuoco inestinguibile nel cuore, l’amore a Chi lo aveva amato infinitamente. Macinava chilometri, a piedi, sotto il sole e nella neve, andando a scovare tutti gli uomini che, lui lo sapeva, senza conoscere Cristo, giacevano nella morte. 

Oggi pochi osano più dire che senza Cristo la vita è, quanto meno, mutilata. Eppure il Signore risorto ha inviato gli apostoli di ogni generazione ad evangelizzare dicendo: “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato”; ma oggi questa parola suona scandalosa, e lo zelo si spegne tra riunioni, stesure di documenti, e paure d’essere troppo diversi dal mondo nel quale si vive. 

“Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d’Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all’inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo, onde poter rendere conto a Dio della scienza e dei talenti ricevuti!”: dopo un lungo cammino di conversione, San Francesco Saverio aveva compreso l’unica urgenza improcrastinabile: “annunciare il Vangelo ad ogni creatura”, perché finché l’uomo non incontra Cristo non è autenticamente libero, e per questo “è condannato all’inferno”. 

Ma no, si ripete nelle “Parigi” contemporanee, tutte le religioni sono uguali, è sufficiente cercare Dio che si rivela a tutti in diversi modi. E le persone scivolano nell’inferno, già qui, già ora, accanto a noi, in famiglia, in ufficio, ovunque, tra la nostra colpevole indifferenza. A chi importa la “salvezza” dei figli? Non vengono prima lo studio, il lavoro, la libertà di fare le proprie esperienze, la sicurezza economica? A chi importa la “salvezza” del marito, della moglie, del fidanzato, del collega? 

Ma, se non abbiamo a cuore la “salvezza” dell’anima di chi ci è accanto, allora significa che non lo amiamo davvero. Significa che guardiamo ancora alle persone con occhi mondani, illudendoci che gli altri abbiano bisogno di tutto prima che di Cristo.

Anche Francesco Saverio, giovane e brillante studente, a Parigi cercava tutt’altro che Cristo. Ma il Signore lo ha sedotto strappandolo all’egoismo e alla vanagloria, e da allora, in lui non vi fu nessun’altra volontà che quella di Dio. Aveva incontrato Cristo nel suo “inferno”, aveva conosciuto se stesso, e così non poteva più staccare gli occhi da ogni persona senza vedere in tutti lo schiavo che anche lui era stato, per annunciare a “ogni creatura” la liberazione che egli stesso aveva sperimentato. 

Nulla lo ha più fermato, nulla ha avuto potere sulla vita divina che portava dentro come in un tabernacolo. Per “salvare” tutti quelli a cui era stato inviato, ha bruciato nel “fuoco” dello zelo e dell’amore ogni energia, morendo sfinito a quarant’anni dopo aver fatto cose per le quali ne sarebbero stati necessari duecento: “Questo è il modo dell’evangelizzazione: «Accéndat ardor proximos», che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro. Solo in questo accendere l’altro attraverso la fiamma della nostra carità, cresce realmente l’evangelizzazione, la presenza del Vangelo, che non è più solo parola, ma realtà vissuta…così il fuoco della sua presenza, la novità del suo essere con noi, diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro” (Benedetto XVI). 

Quanti “serpenti” ha preso nelle sue mani incandescenti, bruciando i demoni che si insinuano nelle culture e nei cuori che non conoscono Cristo; quanti “malati e infermi sanati” nel “fuoco” della misericordia. Quanti “veleni” bevuti davanti ai nemici del Vangelo, evaporati nel calore del suo zelo senza che ne soffrisse “alcun danno”. 

E la “nuova lingua” ardente della misericordia con la quale ha annunciato il Vangelo alle più estreme periferie come nei palazzi dei Re. Sino all’alba d’un mattino di dicembre, alle porte della Cina, quando, esausto e abbandonato da tutti, come il suo Signore, ha fatto ritorno al Padre consumato sino all’ultimo respiro come un olocausto offerto  per aprire all’evangelizzazione anche quell’immenso Paese dove non era potuto arrivare. 

La sua storia è un “segno” dell’irripetibile avventura che è la vita di un uomo che appartiene a Cristo. Dio ha avuto molta pazienza con San Francesco Saverio, come ne ha con noi, ogni giorno. Ma spesso siamo paralizzati non comprendendo a che cosa Dio ci stia chiamando. Dubitiamo che Egli sia davvero l’amore che cerchiamo, e ci spaventa consegnargli la vita. 

Diceva Benedetto XVI inaugurando il suo pontificato: “Non abbiamo forse tutti in qualche modo paura – se lasciamo entrare Cristo totalmente dentro di noi, se ci apriamo totalmente a lui – paura che Egli possa portar via qualcosa della nostra vita? Non abbiamo forse paura di rinunciare a qualcosa di grande, di unico, che rende la vita così bella? Non rischiamo di trovarci poi nell’angustia e privati della libertà? No! chi fa entrare Cristo, non perde nulla, nulla – assolutamente nulla di ciò che rende la vita libera, bella e grande.

No, solo in quest’amicizia si spalancano le porte della vita. Solo in quest’amicizia si dischiudono realmente le grandi potenzialità della condizione umana. Solo in quest’amicizia noi sperimentiamo ciò che è bello e ciò che libera… Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo – e troverete la vera vita”. 

Oggi, con lui, può nascere in ciascuno di noi, un santo capace di incendiare d’amore ogni luogo dove siamo chiamati a vivere. Fidanzati, sposati, studenti, anziani, per tutti è pronto lo stesso zelo di Francesco Saverio, l’amore indomito e paziente di Dio che brucia il peccato e fa di ogni istante delle nostre vite un irripetibile atto d’amore. 

Vivere come Saverio, ognuno dove è stato inviato, con il carattere e le attitudini, con le debolezze e i doni che ci appartengono e ci fanno unici e preziosi agli occhi di Dio, perché tutto di noi è santo, “segno” della presenza di Dio qui sulla terra. Non possiamo buttar via nulla, neanche un istante. 

Questa vita ci è donata per essere vissuta sino in fondo con Gesù che “opera i prodigi” che “accompagnano la parola” d’amore predicata sulle strade del mondo: “il n
ostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine” (Benedetto XVI, Udienza del 24 ottobre 2012). 

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Antonello Iapicca

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