Ristampata l’opera di un grande eroe del Risorgimento

“Dei doveri degli uomini” secondo Silvio Pellico

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di Antonio Gaspari

ROMA, lunedì, 13 giugno 2011 (ZENIT.org).- C’è un autore italiano che è stato considerato il più grande del Risorgimento e di cui oggi si parla poco. Si tratta di Silvio Pellico, letterato e scrittore, i cui libri “Le mie prigioni” e “Dei doveri degli uomini” sono tra i più tradotti al mondo.

Nella metà dell’Ottocento “Le mie prigioni” era il libro più diffuso e letto in Europa. Ancora nel 1952 si è calcolato che ne esistevano 269 traduzioni. Per avere un termine di riferimento nello stesso anno erano 55 le traduzioni de “I Promessi Sposi”. Sempre nel 1952 “Dei doveri degli uomini” vantava 64 traduzioni in francese, 17 in spagnolo e 4 rispettivamente in inglese e tedesco più 28 traduzioni in altre lingue.

Fino a qualche decennio fa “Le mie prigioni” e “Dei doveri degli uomini” erano tra i testi più diffusi nelle antologie in uso nella varie classi della scuole primarie e secondarie. E sarebbe necessario riprenderlo per spiegare alle nuove generazioni le ragioni del nostro Risorgimento.

Ed è proprio per rispondere all’urgenza di far conoscere alle giovani generazioni i grandi uomini e le idee che fecero il Risorgimento e portarono all’Unità d’Italia, che le edizioni “Fede & Cultura, hanno ripubblicato “Dei Doveri degli uomini”.

Nell’introduzione dell’edizione di Fede & Cultura è scritto che in occasione dei 150 anni della nascita dello Stato italiano, si è sentita la necessità di ripubblicare questo saggio “scritto da un testimone vero, che cercò in ogni modo di conciliare il desiderio d’unità con l’identità cattolica degli italiani”.

Il saggio educa in forma breve ed efficace ad una vita virtuosa. Tra i temi trattati: l’amore per la verità, la stima dell’uomo, l’amor di patria, l’amore filiale, il rispetto dei vecchi e dei predecessori, l’amor fraterno, l’amicizia, la dignità dell’amore, il matrimonio, la beneficenza, la stima del sapere, la gentilezza, la gratitudine, il coraggio.

Scrive il letterato di Saluzzo “il primo de’ nostri doveri si è l’amore della verità, e la fede in essa. La verità è Dio. Amare Dio ed amare la verità sono la stessa còsa. Invigorisciti, o amico, a volere la verità, a non lasciarti abbagliare dalla falsa eloquènza di que’ melanconici e rabbiosi sofisti che s’industriano a gettar dubbi sconfortanti sopra ogni còsa. La ragione a nulla sèrve, e anzi nuòce, quando si vòlge a combattere il vero, a screditarlo, a sostenere ignobili supposizioni; quando traèndo disperate conseguènze dai mali ond’è sparsa la vita, nega la vita èssere un bène (…) Ciò riconosciuto, diamo arditamente bando allo scetticismo, al cinismo, a tutte le filosofie degradanti; imponiamoci di credere al vero, al bèllo, al buòno”.

Circa il rapporto tra la religione e la nazione, il Pellico scrive:“Èssere schernitori della religione e dei buoni costumi, ed amare degnamente la patria, è cosa incompatibile, quanto sia incompatibile l’esser degno estimatore d’una dònna amata, e non riputare che vi sia òbbligo d’èssere fedele.Se un uòmo vilipènde gli altari, la santità coniugale, la decènza, la probità, e grida: ‘Patria, patria!’ non gli credere. Egli è un ipòcrita del patriotismo, egli è un pessimo cittadino. Non v’è buòn patriòta, se non l’uòmo virtuoso, l’uòmo che sènte ed ama tutti i suòi doveri, e si fa studio di seguirli. Ei non si confonde mai nè coll’adulatore dei potènti, nè coll’odiatore maligno d’ogni autorità: èsser servile ed èssere irriverènte sono pari eccèsso”.

Ed ancora: “Coraggio sèmpre! senza questa condizione, non vi è virtù. Coraggio per vincere il tuo egoismo e diventar benèfico; coraggio per vincere la tua pigrizia e proseguire in tutti gli studi onorevoli; coraggio per difèndere la patria e protèggere in ogni incontro il tuo simile; coraggio per resistere al mal esèmpio ed alla ingiusta derisione; coraggio per patire e malattie e stènti ed angòsce d’ogni spècie senza codardi lamenti; coraggio per anelare ad una perfezione cui non è possibile giungere sulla tèrra, ma alla quale se non aneliamo, secondo il sublime cenno del Vangèlo perderemo ogni nobiltà”.

In Europa Pellico godeva dell’apprezzamento di Vincenzo Monti e Ugo Foscolo. Fu stimato e amato da Johan Sodermark Stendhal, da Madame de Stahel, da Friedrich von Schlegel, e dagli altri letterati d’oltrealpe. Lo scrittore russo Aleksandr Puškin parlò di lui con ammirazione definendolo un “martire mansueto”. La sua tragedia “Francesca da Rimini” venne parzialmente tradotta la lord Byron. Parlava l’inglese, il francese, l’italiano, il latino e il tedesco e la sua fama di letterato e insegnante era tale che anche il Re di Francia, Luigi Filippo d’Orleans, lo voleva precettore dei suoi figli.

Fondò e fu redattore e direttore de la rivista settimanale “Il Conciliatore” con cui cercò di far emergere la legittimità della fede con la ragione, superando i conflitti tra Stato e Chiesa, conciliando la cattolicità degli italiani con l’istituzione nazionale che stava per nascere. Pellico testimoniò la vera anima del popolo italiano, un cattolicesimo conciliato con i lumi, capace di pacato eroismo, di sacrificio totale senza gesti inconsulti e violenti.

Si battè con gli scritti, i giornali, la forza delle idee, senza mai cedere alla tentazione di ricorrere alla critica, al pugnale, al terrorismo, al delitto politico, alla violenza. La dignità, il coraggio e l’umanità con cui affrontò il carcere duro e la persecuzione, continuando a predicare il bene, anche nei confronti dei suoi aguzzini, lo indicano come uno degli italiani più grandi.

Secondo molti storici la sua vicenda è veramente eroica quanto quella di Nelson Mandela contro l’apartheid o quella del Mahatma Ghandi contro il colonialismo.

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ZENIT Staff

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