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Rischio attentati in Italia? "Elevato, anche per le nostre tradizioni cristiane"

Pollari, ex direttore del Sismi, analizza gli attentati di Bruxelles e la possibilità che un obiettivo possa essere l’Italia, dove l’intelligence possiede però un “prezioso patrimonio d’esperienza”

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Prima l’aeroporto, poi la metropolitana. 32 vittime e oltre 250 feriti. Sono ancora fresche le più recenti ferite di una scia di attentati terroristici che ha tragicamente iniziato a fluttuare in Europa. Quattro mesi fa era stata Parigi la vittima dell’odio jihadista, oggi è Bruxelles. E il rischio che la capitale belga non sia l’ultimo paragrafo di questa saga di terrore è molto elevato.
Alto l’allarme anche in Italia. Lo conferma il generale Nicolò Pollari, direttore del Sismi dal 2001 al 2006. Pollari prese le redini dell’intelligence militare italiana poco dopo l’11 settembre, in un periodo eufemisticamente “caldo”. In virtù dell’enorme esperienza maturata sul campo e dell’approfondita conoscenza del terrorismo islamico, l’ex 007 spiega a ZENIT cosa c’è dietro gli attentati di Bruxelles, come arginare questo fenomeno e il livello di rischio per l’Italia. E racconta come la nostra intelligence ha saputo dare in passato “apprezzabilissima prova di sé”.
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Generale, a quattro mesi dagli attentati di Parigi, il terrorismo torna a colpire, stavolta a Bruxelles…
Gli attentati di Parigi e di Bruxelles sottolineano non solo la debolezza dei sistemi occidentali, incerti e divisi sul contrasto a queste aggressioni, ma specialmente l’evoluzione delle medesime ormai, evidentemente, regolate da nuove forme di governance. Il cosiddetto Califfato, ad esempio, pur alimentandosi dal modello terroristico di al Qaeda, conduce una guerra ibrida incentrata su tre canali: guerre convenzionali, accanto ad operazioni condotte da lupi solitari e da commandos, guerre psicologiche e mediatiche attraverso una struttura sostanzialmente affine ad un vero e proprio Stato e mediante appositi organi di stampa di loro proprietà o riferimento – in particolare attraverso una nota rivista (Dabiq, ndr) – e, infine, con la militarizzazione del terrorismo. In questo caso si è trattato, come già negli attentati di Parigi, di una vera e propria operazione militare perfettamente organizzata che si è giovata di elementi della rete nazionale, con la direzione di un Isis Commander, più che verosimilmente venuto dall’Iraq. Evidentemente l’assoluta riservatezza ed il fattore sorpresa hanno fatto premio, garantito il pieno successo degli attacchi.
Quali misure è necessario mettere in campo per arginare questo fenomeno?
Misurarsi per arginare e, se possibile, neutralizzare questo fenomeno significa conoscerlo e prenderne atto realisticamente, promuovendo tutto quanto è necessario in termini  di misure socio-politiche, di qualità ed efficienza dei dispositivi di sicurezza ma, specialmente, a partire da un uso adeguato e proprio dell’intelligence, delle reti informative e della cooperazione internazionale, passando dalle buone intenzioni alla concretezza.
C’è il rischio che in nome della sicurezza vengano adottate leggi speciali – controllo nei movimenti, nelle comunicazioni, nella corrispondenza, nelle transazioni finanziarie – che erodano fette importanti delle libertà individuali? 
Per fronteggiare questa minaccia non dobbiamo in alcun modo rinunciare a diritti fondanti ovvero anche solo affievolirli, alla nostra cultura ed al livello di civiltà che, grazie a Dio, nel tempo ci siamo conquistati. Anzi, se dovessimo pensare di farlo per dare maggiore forza ed efficacia all’azione di contrasto, non solo commetteremmo un tragico ed imperdonabile errore, ma certificheremmo la vittoria del fondamentalismo islamico. Disponiamo di anticorpi, strumenti, mezzi e percorsi tecnico-operativi che permettono di misurarsi con il problema in termini efficaci  e concretamente proficui, senza dover incidere su alcun principio, su alcun diritto o su alcuna delle libertà di cui godiamo. Ma bisogna volerlo, scegliendo uomini capaci ed i metodi più adeguati, con piena consapevolezza e con giusta determinazione, sopendo le competizioni politiche interne, le gelosie di appartenenza ed ogni altro confronto od intenzione estranei al raggiungimento di tali obiettivi.
Verosimile la saldatura di un accordo tra criminalità organizzata e terrorismo islamico in Italia?
Su di un piano strategico lo escludo. Sul piano tattico, in funzione di obiettivi particolari, è possibile e, spesso, avviene.
Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, dopo gli attentati di Parigi ha affermato: “Nel nostro Paese si può stare tranquilli, il sistema di intelligence funziona”. Quali sono le caratteristiche che lo rendono efficiente? Forse l’esperienza maturata durante gli anni di piombo?
Certamente le esperienze maturate negli anni di piombo, fino a quelle relative all’esplosione terroristica dell’11 settembre 2001 e degli anni delle operazioni militari in Afganistan ed in Iraq, costituiscono un prezioso patrimonio di esperienza. Le Forze di Polizia e la nostra intelligence hanno saputo dare apprezzabilissima prova di sé. Basta pensare a quanto ha fatto il generale Dalla Chiesa e a quanto altri, con quel viatico, hanno saputo fare dopo. Basta pensare poi, a quanto ha saputo fare l’intelligence italiana allorché, nel periodo “caldo” degli attentati contro interessi europei, si prospettarono ipotesi di minaccia concreta al nostro Paese, quando nel corso del 2004 in cui un gruppo salafita aderente della galassia qaedista progettò di far saltare in aria l’Ambasciata italiana di Beirut. Il Sismi, mediante le proprie reti informative in quell’area, riuscì a prendere notizia dell’iniziativa e ad individuare preventivamente tutte le persone coinvolte, compreso il famoso “Miqati”che dirigeva l’operazione. L’attentato fu sventato. Tutti vennero tratti in arresto e furono condannati. L’esplosivo, i proietti, le munizioni e le armi dell’organizzazione vennero individuate e sequestrate. Si deve, in particolare, all’acume ed al coraggio dell’allora Capo della 1° Divisione del Sismi la cattura fisica di Miqati, latitante, senza volto e ricercato da tutte le polizie e le intelligence del mondo, già responsabile e condannato in via definitiva per gravissimi e cruenti attentati terroristici. L’auspicio ed il senso delle parole del Ministro credo risiedano nell’aspettativa che alla radice di quanto si fa e, specialmente, di quanto si dovrà fare alitino queste esperienze e queste professionalità.
Il terrorismo islamico finora non ha mai colpito, almeno in Occidente, luoghi sacri cristiani. Secondo Lei, si tratta di una precisa volontà di attaccare luoghi simbolo non della fede cristiana, bensì della secolarizzazione occidentale?
L’obiettivo attuale degli attentati del terrorismo islamico è rappresentato dagli effetti che conseguono ad ogni azione portata a termine con successo. Ciò che l’Isis vuol perseguire, dunque, è innanzitutto il  successo delle operazioni compiute, la drammatizzazione degli eventi e degli scenari, l’elevato numero delle vittime, l’intensità e l’estensione delle distruzioni ma, specialmente, il ritorno mediatico e l’enfasi che ne consegue. Escludo che sussista la precisa volontà di colpire, o meno, questo o quel luogo simbolo in Europa. Ciò che hanno fatto nel resto del mondo ne è eloquente testimonianza! La vera priorità dell’Isis è quella di dare sempre piena dimostrazione di vitalità, di forza, di determinazione e di infallibilità. Non si sentono, dunque, necessariamente e prioritariamente vincolati all’importanza dei singoli obiettivi, né alla relativa espressività suggestiva: ciò che interessa loro è, prima di tutto, il successo dell’operazione. Tutto il resto viene dopo.
Quanto è alto il livello di rischio per l’Italia durante il Giubileo?
Il livello di rischio attuale in Italia è da valutare come elevato. Ciò non necessariamente in dipendenza ed in stretta correlazione con le celebrazioni del Giubileo, ma per la sostanziale affinità della posizione culturale e politico-militare del nostro Paese rispetto alle altre democrazie occidentali e, quindi, per l’atteggiamento tenuto dal medesimo rispetto agli eventi delle aree mediorientali e nordafricane negli ultimi decenni. E anche per le tradizioni cristiane che caratterizzano la nostra storia e la nostra vita, per la vicinanza, non solo fisica, della sede papale, per la qualità della convivenza e delle interazioni con le comunità ebraiche e, tutto sommato, per la diversità del nostro costume di vita e di relazione.

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Federico Cenci

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