Riscatto nella Musica?

Dagli spiritual a Springsteen, san Paolo compare quale voce di liberazione

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ROMA, venerdì, 24 aprile 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito un articolo pubblicato sul decimo numero della rivista “Paulus” (aprile 2009), dedicato al tema “Paolo educatore alla libertà”.

 

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Nelle Seeger sessions, sorta di ritorno alle origini della canzone americana, Bruce Springsteen – uno dei più formidabili cantori a “stelle e strisce” – canta di «Paolo e Sila incatenati in prigione». Il riferimento è agli Atti degli Apostoli (16,12-31), quando Paolo e Sila si trovano a Filippi rinchiusi «nella cella più interna» finché «non venne un terremoto» che scosse le fondamenta della prigione: allora «le porte si aprirono» e «si sciolsero le catene». Il brano interpretato da Springsteen, Keep your eyes on the prize, è carico di storia. La liberazione di Paolo e Sila che vi viene evocata divenne – negli anni sessanta – il simbolo dell’affrancamento dalla segregazione, delle battaglie per i diritti civili che impegnarono (e infiammarono) l’America. La storia stessa delle interpretazioni di questo brano è vertiginosa. Bob Dylan la incise nel suo primo album (con il titolo Gospel plow), Peter Seeger la cantò in We shall overcome: the complete Carnegie Hall Concert, e – come segnalato dal critico Dave Marsh – Mahalia Jackson la impreziosì in una memorabile interpretazione assieme alla Duke Ellington Orchestra al Newport Jazz Festival del 1958. Ancora più vertiginoso è, però, il lavoro “archeologico” sul brano. Da dove arrivano quelle parole? Cosa spiega la presenza di san Paolo in coppia con Sila nella canzone americana?

Keep your eyes on the prize è in realtà la riscrittura di uno spiritual e, come ogni spiritual, è una materia (poetica, linguistica, semantica) fluttuante, legata alla tradizione del canto e alla preghiera, oltre che al call-and-response, la struttura antifonale che ne domina la struttura. Il brano attraversa la storia con titoli diversi: Gospel plow, Paul and Silas, Hold on. Il ritornello del testo originario della canzone – keep your eyes on the plough (aratro) – deriva da Luca 9,62 quando Gesù dice: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio». Paolo imprigionato, Paolo che ritrova la libertà non poteva che diventare un “motivo” carico di risonanze emotive per gli schiavi d’America, costretti a una prigionia altrettanto feroce e intrappolati in una contraddizione altrettanto crudele: essere schiavi nella terra della libertà, essere persone ridotte a mera proprietà. Ecco allora che tracce dell’Apostolo si trovano in brani come The winter, John John of the holy order, Holy baby (I shall send thee), Old time religion. Come Mosè, l’altra figura più amata e ricorrente negli spiritual, la presenza di Paolo si carica di forti valenze escatologiche. Essa incarna il desiderio, il “salto” verso la salvezza. Lo testimonia un altro spiritual, nel quale c’è traccia della coppia Paolo e Sila, Blow your trumpet, Gabriel: «Paolo e Sila prigionieri /

i cristiani pregano giorno e notte / e spero che quella tromba mi soffi a casa / alla mia nuova Gerusalemme // Allora suona la tromba Gabriele / suona la tromba più forte / e spero che quella tromba mi soffi a casa / alla mia nuova Gerusalemme». Come ha notato Luca Cerchiari: «Gabriele, la tromba, la Nuova Gerusalemme» sono tutti «segni della fine dei tempi». La vita dello schiavo, così intimamente materiata di dolore, sarà riscattata nel giorno del giudizio, nel capovolgimento escatologico quando «leone e agnello pascoleranno assieme». Non è un caso allora che le figure e i simboli che dicono il giorno del giudizio siano prepotentemente presenti negli spiritual: la luna che «si tinge di sangue», «il mondo in fiamme», «i santi che marciano», la frusta che «non schioccherà più», il sole che «non ustionerà più», la pioggia «che non bagnerà».

La fede nell’éschaton non confina lo schiavo in una sorta di indifferenza, non lo proietta cioè in un limbo di disimpegno né oblitera la presenza del male, come qualche studioso ha suggerito. L’onnipresenza del dolore – del trouble – non ostruisce la possibilità della liberazione, ma anzi la “fonda”. Solo la consapevolezza della matericità del male, della sua invadenza, apre le porte alla liberazione. Il brano Didn’t my Lord deliver Daniel? è, ad esempio, una sorta di catalogo di interventi salvifici: «Ha salvato Daniele dalla fossa dei leoni / Giona dal ventre della balena / e i bambini ebrei dalla fornace ardente // Non ha il Signore liberato Daniele? / Non ha il Signore liberato Daniele? E perché allora non ogni uomo?». Come un terremoto ha scosso la terra e ha liberato Paolo e Sila, allo stesso modo, lo schiavo sa che sarà liberato e questa convinzione innerva l’intero universo poetico degli spiritual.

Canto che attualizza

Alla base del mondo afroamericano, come è stato riconosciuto da più parti, c’è dunque la Bibbia che ha riversato il suo patrimonio figurale, lessicale e simbolico non solo negli spiritual, ma anche nell’intero corpo della cultura nera. Nelle chiese nere il preaching è una vera e propria forma di arte che presenta tutta la virtuosità del jazz. La stessa retorica dei politici afroamericani è intessuta di allusioni e riferimenti biblici. Questa osmosi è ancora più evidente nella musica sacra, la cui impronta si è impressa anche sulla musica profana. L’etnomusicologo Harold Courlander ha scritto pertanto che «se gli spiritual fossero sistematizzati in ordine cronologico, rappresenterebbero una versione orale della Bibbia. Ogni canto si nutre di un passo significativo delle sacre Scritture». Ma l’originalità dell’esperienza degli afroamericani sta tutta nel modo in cui essi hanno recepito e rivissuto il testo biblico. Come ha scritto Allen Dwight Callahan, «la Bibbia degli schiavi divenne musicale, la musica degli schiavi divenne biblica». L’assoluta preminenza della voce nella cultura afroamericana nasce proprio da questa esperienza: «Fu attraverso la voce, e non attraverso la pagina stampata, che la Bibbia entrò profondamente nel mondo degli schiavi». Qual è allora il rapporto tra san Paolo, e più in generale tra le figure bibliche che ricorrono negli spiritual, e gli schiavi che pregano e – come Paolo e Sila imprigionati – «cantavano inni a Dio» (At 16,25)? Questo rapporto non si esaurisce in una semplice identificazione tra chi riconosce una comune sofferenza e una comune condizione. La salvezza non è un discorso relegato all’oltrevita. La fuga di Paolo e Sila dalla prigione, così come l’intera storia di liberazione dell’Esodo, non sono semplici accadimenti da rievocare nella liturgia. Il canto, attraverso la riattualizzazione della narrazione della salvezza e l’identificazione degli schiavi con i protagonisti delle storie bibliche, opera una trasformazione spirituale, riversando la sua carica escatologica nell’ora e nel qui, nel tempo presente, attraverso l’esperienza totalizzante della conversione. Tra il credente e Dio si apre lo spazio della confidenza, del dialogo amoroso, della promessa e della consolazione. Un balsamo grazie al quale gli schiavi seppero preservare se stessi, il senso della loro identità, della loro fede. E della loro forza.

Luca Miele

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ZENIT Staff

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