"Rimanere in Terra Santa è un dovere prima ancora che un diritto"

Intervista a padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa

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di Robert Cheaib

ROMA, domenica, 24 ottobre 2010, (ZENIT.org).- Il chiasso del conflitto israelo-palestinese fa passare sotto silenzio la vita della comunità cristiana in Terra Santa e i suoi problemi. Eppure la presenza cristiana in quei Luoghi Santi è un dovere verso il passato, il presente e il futuro.

In quest’intervista, padre Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, offre una panoramica sulla condizione reale di quei cristiani che dimorano ancora nella Terra di Gesù in mezzo ai conflitti politici e religiosi, e presenta la sfide che la plurisecolare presenza cristiana – e francescana – affronta.

Le condizioni dei cristiani nei Paesi a maggioranza musulmana sono state presentate in più di una sede ma la loro situazione nello Stato ebraico è poco conosciuta. L’intervento del rabbino Rosen ha fatto intravvedere che gli ebrei in Israele «hanno ancora molta strada da fare per superare un passato negativo». Mentre lei nel suo intervento al Sinodo ha osservato acutamente: «Troppo spesso la prospettiva pastorale in Terra Santa parte dalla situazione piuttosto che dalla vocazione della Chiesa». Ci può parlare – in quanto testimone oculare – delle condizioni dei cristiani, soprattutto in materia di libertà religiosa, libertà di coscienza e diritti politici?

Padre Pizzaballa: Quando si parla di Terra Santa si fa sempre un po’ di confusione. In Terra Santa ci sono due entità politiche: c’è Israele e c’è l’Autonomia palestinese, che sono in conflitto, un aspetto che rende le cose ancora più complicate. Quindi la situazione dei cristiani in Israele, dove c’è una maggioranza ebraica seguita da un’altra maggioranza musulmana e poi dalla minoranza cristiana, è una cosa; mentre invece la situazione dei cristiani dentro l’Autonomia palestinese dove c’è un’enorme maggioranza musulmana, ha un’altra dinamica. Bisognerebbe, perciò, distinguere molto bene questi due ambiti.

In Israele il cristiano ha seri problemi di identità. Non c’è un problema sociale o economico, ci sono problemi che si possono incontrare in tutti Paesi, ma diciamo che dal punto di vista della vita economica e sociale i cristiani non incontrano grossi problemi. Il vero problema per un cristiano è quello di essere cittadino israeliano ma non ebreo, di essere arabo ma non musulmano. E’ quindi una minoranza dentro una minoranza. Non ci sono dal punto di vista della legge delle discriminazioni, ci sono però di fatto delle disuguaglianze di trattamento, di approccio che colpiscono in modo particolare la minoranza cristiana, ripeto non perché la legge lo preveda, ma perché di fatto nella vita sociale una minoranza non è visibile e non è presa spesso in considerazione e per “sfondare” bisogna essere il doppio più bravi degli altri. Naturalmente c’è poi anche il problema politico: che rapporto devono avere le minoranze con uno Stato che si definisce ebraico? Questo è un aspetto. Assieme a esso, c’è il rapporto sempre difficile tra ebraismo e cristianesimo che influisce. C’è un pregiudizio di fondo che nasce e che si è sviluppato lungo i secoli nell’ebraismo nei confronti del cristianesimo per ragioni che sono conosciute e che in Israele diventano tangibili.

Diversa è la situazione nell’Autonomia palestinese su cui influisce innanzitutto il conflitto israelo-palestinese. Qui c’è una maggioranza islamica che fa sempre più fatica a vedere i cristiani perché sono sempre di meno e anche nelle zone che erano tradizionalmente cristiane, penso soprattutto a Betlemme, oggi vive una ridotta minoranza cristiana. E se nel ’67 era il 70% della popolazione, oggi è meno del 10%. Il conflitto israelo-palestinese sta assumendo anche un carattere religioso purtroppo. A volte non è sempre così ma a volte passa l’idea che per essere dei buoni patrioti bisogna essere musulmani. Non è così perché all’interno della componente cristiana ci sono delle persone di spicco, anche se sempre di meno. Ci sono forme di integralismo, sicuramente. Ci sono in certe frange israeliane ci sono anche all’interno dell’Autonomia palestinese. I cristiani, quindi, nella loro piccolezza e nella loro divisione si sentono un po’ schiacciati da questa situazione. E’ una realtà piuttosto complessa e che, dal punto di vista umano, desta molte preoccupazioni.

Quale effetto avrebbe sui non ebrei il giuramento di lealtà allo Stato ebraico proposto da Benjamin Netanyahu?

Padre Pizzaballa: Innanzitutto lo Stato d’Israele si è sempre definito fin dal principio come Stato ebraico e democratico e la posizione delle minoranze a questo livello non è mai stata chiarita del tutto. Adesso Israele ha voluto con una prova di forza dare vita a questa legge che ha suscitato molto scalpore, sia dentro Israele che fuori, non soltanto tra le minoranze musulmana e cristiana ma anche all’interno della stessa componente israeliano-ebraica, portando anche ad accuse molto gravi di fascismo. E’ una legge ingiusta perché in Medio Oriente come anche in Israele la separazione Stato-Chiesa non esiste e poi in questo complesso così intricato di identità crea dei disagi molto forti e anche ingiusti, perché è un’ingiustizia far dichiarare a chi non è ebreo fedeltà a dei principi ebraici.

Nella seconda conferenza stampa lei ha affermato: «i tempi del Sinodo non sono i tempi dei giornalisti». Ma la cosa che penserebbe un cristiano medio che crede e ama la Chiesa come realtà storica e non solo escatologica può essere la seguente: se il Syn‘odos non è un «camminare insieme» verso obiettivi pianificati e verso la realizzazione del bene da fare oggi e non rimandare a domani, il tutto non si ridurrebbe a una seduta collettiva catartica, per quanto questa possa essere salutare?

Padre Pizzaballa: È vero che i tempi della Chiesa dovrebbero essere più veloci. Ma non sono i tempi della vita sociale, perché nella società ci sono cambiamenti molto rapidi che la Chiesa fatica a digerire. Che ci siano dei problemi anche dentro le dinamiche della vita della Chiesa, non c’è alcun dubbio. Che ci sia anche una certa distanza tra il territorio e le autorità della Chiesa, questo anche è vero. Però non dobbiamo nemmeno buttarci troppo giù, avere una visione troppo critica o comunque troppo ripiegata su noi stessi. Nonostante i nostri problemi dobbiamo guardare anche al bene che la Chiesa riesce a fare attraverso le sue istituzioni, attraverso le scuole, attraverso le tante opere, ma soprattutto attraverso i tanti pastori, i tanti laici che s’impegnano, che si danno da fare che non attendono l’indicazione da non so chi ma con passione, con amore si dedicano al territorio e alle persone che sono nel territorio. Queste persone non fanno chiasso, però sono quelle che poi fanno la Chiesa. Il Papa ha usato un’espressione molto bella all’inizio del Sinodo: è “la fede dei semplici” che rende forte e grande la Chiesa. E’ vero che in certi ambiti di autorità della Chiesa si fanno troppe disamine, troppe discussioni e si fa fatica poi a passare all’implementazione anche perché la struttura del Chiesa è piuttosto complessa, ma bisogna anche guardare sul territorio a ciò che sorge, ciò che nasce e poi metterci anche in una prospettiva di fede: non saranno i nostri programmi a salvare la Chiesa ma è innanzitutto l’opera di Dio che passa attraverso la preghiera, la vita e la passione di tante persone.

Una delle questioni più urgenti per i cristiani del Medio Oriente è quella dei pellegrinaggi, nata con la dichiarazione dello Stato d’Israele nel 1948, e che colpisce principalmente i cristiani arabi. Nei discorsi giunti alla stampa non sembra si sia parlato di questo tema durante il Sinodo. Non sarebbe opportuno, invece, che i Vescovi del Medio Oriente unissero la loro voce per lanciare un appello ai governi della regione?

Padre Pizzaballa: Nel Sinodo non si è parlato direttamente del pellegrinaggio ai Luoghi Santi dai Paesi arabi. Se ne è parlato indirettamente nell’invito a f
are tutto il possibile per il raggiungimento della pace in Medio Oriente. Questa anche è una prospettiva, sicuramente. Va detto che con Israele i Luoghi Santi hanno goduto di una libertà ineccepibile, però è vero anche che il conflitto israelo-palestinese nonché il conflitto di Israele con i Paesi arabi ha di fatto chiuso ciò che tradizionalmente era aperto a tutte le comunità cristiane del Medio Oriente e che guardavano alla Terra Santa come a una fonte spirituale. Questa è una ferita profonda che resta e per la quale dobbiamo lavorare come Chiesa – anche se forse non abbiamo poi tanto potere – e insistere presso la comunità internazionale perché questo aspetto sia tenuto presente e affinché cadano quanto prima questi confini, queste barriere anche psicologiche da ambo le parti.

L’evento cristiano non è un evento astratto, è avvenuto in tempi precisi e la martoriata Terra Santa è il suo spazio sacro preciso. Per questo lei, a ragione, ha affermato nel suo intervento che «abitare quello spazio è la nostra vocazione». Come può la Chiesa universale aiutare i cristiani della Terra Santa a dimorare e quale cambiamento/miglioramento prospetta dopo questo Sinodo?

Padre Pizzaballa: Abitare i Luoghi Santi è un dovere prima ancora che un diritto di ogni cristiano e ciascuno però con modalità diverse. La Chiesa universale deve abitare quei luoghi sentirli col pellegrinaggio venendo in Terra Santa; la comunità cristiana, vivendo in quei luoghi facendo memoria dei luoghi dove Gesù è nato, morto e risorto, vivendo e pregando, battezzando i propri figli, sposandosi, seppellendo i propri morti. E poi non è feticismo, non si tratta solamente di stare nei luoghi con devozionismo sofisticato ma si tratta di vivere in quei luoghi con vitalità abitando la città, abitando gli spazi, portando il proprio contributo come cristiani. Quindi la nostra vocazione come cristiani è proprio quella di alzare lo sguardo. Noi non vogliamo essere testimoni del sepolcro vuoto di Cristo: ecce locus ubi posuerunt eum (“ecco il luogo dove l’avevano deposto”), dire questo significa poi anche alzare lo sguardo. Il messaggio cristiano non è un ripiegarsi devozionista sul Santo Sepolcro ma è uno slancio di speranza perché Cristo è risorto e il nostro contributo deve essere questo. Ci sono problemi, ci sono conflitti, ci sono incomprensioni, ci sono oppressioni ma noi non ci pieghiamo guardiamo avanti, perché Cristo ha detto il mondo e noi ne siamo testimoni.

La presenza francescana in Terra Santa è plurisecolare. Essa fu ufficializzata con il Capitolo generale del 1217, e venne considerata come «la perla di tutte le province». Quali sono i punti fermi del significato della vostra presenza, e quali cambiamenti vi impongono i segni dei tempi attuali, ai quali si aggiunge anche il Sinodo per il Medio Oriente?

Padre Pizzaballa: La missione della Custodia francescana di Terra Santa è sempre quella: badare ai Luoghi Santi – le pietre della memoria – e alle pietre vive – la comunità cristiana -. Stare nei luoghi oggi non è popolare, perché si parla molto di comunità, di assemblea mentre marcare il territorio ha un’importanza che soprattutto in Medio Oriente è capitale. Quindi stare in quei luoghi anche se non ci va nessuno, anche se sono isolati, anche se non è gratificante. Semplicemente stare lì e celebrarne la memoria con la preghiera, innanzitutto. E poi c’è lo stare con la comunità cristiana, con le pietre vive perché la società sta cambiando, i giovani cambiano, hanno nuove attese, nuove esigenze, c’è una forte spinta al secolarismo anche in Medio Oriente e con la crescita del livello economico c’è anche un allontanamento perché si ha meno bisogno dell’aiuto sociale della Chiesa, mentre invece viene sempre richiesto un aiuto culturale, un aiuto anche spirituale e di presenza molto forte. In questo senso cambierà la nostra missione, che però resta la stessa nella sostanza.

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ZENIT Staff

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