Registro delle unioni civili a Roma: "Un'iniziativa pratica marginale che ha un valore simbolico"

Il giurista Emanuele Bilotti commenta l’impegno elettorale del Sindaco Ignazio Marino a dotare quanto prima anche Roma di un registro delle unioni civili

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Nei giorni scorsi la stampa ha riferito che il Sindaco Ignazio Marino ha ribadito il proprio impegno elettorale a dotare quanto prima anche Roma di un registro delle unioni civili. L’istituzione di un simile registro non è una novità. In Italia già diversi Comuni hanno dato corso a un’analoga iniziativa. È noto tuttavia quanto sia marginale la rilevanza pratica di certi registri. Solo il legislatore statale può infatti attribuire diritti e obblighi reciproci a due soggetti non coniugati, che, uniti da un vincolo affettivo, vivono insieme e si prestano l’un l’altro assistenza morale e materiale. Assai spesso, del resto, sono gli stessi regolamenti istitutivi dei registri in questione a chiarire che la creazione di un nuovo status personale è di esclusiva competenza del legislatore statale.

D’altra parte, anche laddove successivi regolamenti comunali dovessero far discendere dall’iscrizione un titolo preferenziale per l’accesso a determinati servizi o prestazioni, bisognerebbe poi verificare con attenzione se in tal modo l’ente territoriale non abbia travalicato le proprie competenze, ponendo in essere atti illegittimi.

È fin troppo evidente, in realtà, che certe iniziative – e dunque la predisposizione dei mezzi necessari ad attuarle – hanno soprattutto un valore simbolico. Lo ha riconosciuto, del resto, lo stesso Sindaco Marino, dichiarando che «un registro in Comune non cambia le leggi dello Stato» e che «il Sindaco di Roma e i consiglieri non possono fare nulla se non pressione sul Parlamento affinché si abbia una legge sulle unioni civili e la genitorialità». Insomma, per ammissione dello stesso Sindaco, l’istituzione di un registro delle unioni civili non sarebbe altro che un atto di «pressione» sul legislatore, e dunque, in definitiva, di propaganda politica.

Nessuna pressione politica potrebbe però legittimare un’eventuale violazione ad opera del legislatore ordinario di principi sanciti da norme costituzionali. Certi principi non possono infatti considerarsi come norme di pura opinione. Essi rappresentano piuttosto, per il legislatore ancor prima che per l’interprete, dei criteri vincolanti di comprensione e classificazione, e quindi di assimilazione e differenziazione dei fatti sociali giuridicamente rilevanti. È perciò senz’altro destinato a cadere nel vuoto l’auspicio, formulato sempre dal Sindaco Marino, che il legislatore statale garantisca anche «la possibilità per una coppia omosessuale di essere genitori». Un esito di questo tipo appare infatti manifestamente incompatibile con l’idea della genitorialità come rapporto obiettivamente fondato sul fatto biologico della generazione, inequivocabilmente accolta dall’art. 30 della Costituzione.

Invero, nell’odierno contesto culturale, nonostante le resistenze della sensibilità comune, si cerca insistentemente di avvalorare una concezione alternativa della genitorialità: una concezione secondo cui il fatto di aver generato sarebbe un mero accidente della paternità e della maternità. Per essere padri e madri non sarebbe insomma necessario essere stati anche genitori; sarebbe sufficiente la semplice volontà di assumere il ruolo di genitori. In maniera subdola si cerca talora di accreditare una simile concezione facendo riferimento all’adozione del minore, la quale dà vita incontestabilmente a un rapporto di filiazione che prescinde dalla generazione.

Lo stesso art. 30 chiarisce tuttavia che solo in caso di incapacità dei genitori a far fronte alle proprie responsabilità verso i figli la legge può disporre altre forme di intervento, com’è appunto l’adozione. In nessun modo il rapporto di filiazione adottiva può perciò essere assunto a modello di una genitorialità fondata sulla volontà unilaterale dell’adulto di essere genitore.

L’adozione deve piuttosto essere considerata come un caso del tutto eccezionale, un’extrema ratio di tutela, cui far ricorso nell’interesse del minore abbandonato, al quale dev’essere pur sempre garantito il diritto alla bigenitorialità. Né il ripudio di una concezione puramente volontaristica della responsabilità genitoriale da parte del legislatore costituzionale potrebbe essere considerato solo come un ossequio a una tradizione ormai superata.

A ben vedere, infatti, il principio della responsabilità genitoriale per il semplice fatto della generazione è senz’altro funzionale alla miglior tutela dell’interesse del minore, dato che, com’è evidente, la responsabilità genitoriale può essere davvero certa e determinata solo se non dipende dall’arbitrio dell’adulto, ma discende da un fatto naturalistico, irreversibile e irrevocabile. È per la stessa ragione, del resto, che il divieto di fecondazione eterologa, finalmente sancito dalla legge n. 40 del 2004, non solo non è costituzionalmente illegittimo, ma è anzi costituzionalmente necessario: anche quel divieto contribuisce infatti a dare effettività al precetto costituzionale che, per la miglior tutela dell’interesse del minore, esclude senz’altro che la costituzione di uno status filiationis possa dipendere dall’arbitrio dell’adulto.

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ZENIT Staff

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