Rapporto Federculture 2015: luci ed ombre del Bel Paese

Per valorizzare l’immenso patrimonio culturale italiano occorre un’alleanza inedita tra cultura ed economia

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Cultura, identità e innovazione la sfida per il futuro, questo il titolo del Rapporto Federculture 2015 presentato l’8 luglio a Roma presso la Sala Accademica del Conservatorio di S. Cecilia: una pubblicazione che analizza lo stato del settore della cultura in Italia, evidenziando le criticità e i punti di forza sulla base di approfondite indagini statistiche.

Federculture è un’associazione che rappresenta le più importanti aziende culturali del Paese, insieme a Regioni, Province, Comuni, e tutti i soggetti pubblici e privati impegnati nella gestione dei servizi legati alla cultura, al turismo e al tempo libero. Si tratta dunque di uno snodo importante del sistema culturale in Italia, capace di guardare alle problematiche del settore in modo circostanziato e, soprattutto, integrato.

Diamo allora uno sguardo ai dati essenziali che emergono dal Rapporto 2015. Torna a crescere la spesa in cultura delle famiglie italiane: una percentuale esigua, più 2%, ma comunque in controtendenza rispetto al segno “meno” a cui ci hanno abituato questi anni di crisi. Altrettanto può dirsi per la fruizione culturale, che fa registrare un aumento del 5,8% delle visite a siti archeologici e monumenti, e del 2,2% per quanto riguarda la partecipazione a concerti e rappresentazioni teatrali.

Ma, approfondendo le cifre del Rapporto, ci si rende conto che siamo in presenza di uno scenario di luci ed ombre. Sono molti, infatti, i segnali allarmanti sulla vita culturale del Paese che si riassumono soprattutto in un dato: l’astensione complessiva dalle attività culturali raggiunge il 19,3%. Il che significa che quasi un quinto degli italiani non partecipa a nessuna attività culturale: percentuale in crescita (nel 2010 era pari al 15,2%) e che raggiunge il picco impressionante del 30% nel Sud d’Italia. In alcuni settori, come il teatro e i concerti classici, l’astensione raggiunge livelli dell’80-90%.

Ma la realtà delle cifre, seppure esplicativa nella sua arida chiarezza, richiede d’essere interpretata.  E a questo è valsa la dettagliata e appassionata relazione del presidente di Federculture, Roberto Grossi, che ha rivolto un forte appello alla responsabilità di tutti e ad uno sforzo convergente per fare del settore culturale un volano di sviluppo, in grado di contribuire al rilancio del Paese.

Siamo infatti in presenza di una contraddizione stridente. L’economia stenta a ripartire, con percentuali in aumento dello “zero punto” che aprono spiragli di speranza per poi essere smentite il giorno successivo; con una disoccupazione giovanile tra le più alte d’Europa; con una deindustrializzazione di cui non si vede la fine… mentre l’unico settore in cui siamo leader nel mondo – quello del patrimonio culturale – è abbandonato ad una colpevole incuria. Perché?

“Perché la crisi è economica negli effetti – ha sottolineato Grossi, accompagnando la sua esposizione con efficaci infografiche – ma culturale nelle cause”. La vera “cura” è dunque la cultura stessa. “Fare impresa culturale è possibile – ha continuato Grossi –, e fare economia con la cultura non significa perdere l’anima…”. Evidente l’accenno critico al concetto “con la cultura non si mangia”, che per lunghi anni ha imperversato nel Paese, immobilizzando ogni politica di sviluppo del settore: un accenno critico che, peraltro, era già stato esplicitato al numeroso pubblico presente in sala nel corso del saluto d’apertura di Alfredo Santoloci, direttore del Conservatorio di S. Cecilia.

Sulla base di questa premessa – la necessaria alleanza tra cultura ed economia – Grossi ha elencato le componenti favorevoli che, in presenza di una gestione virtuosa, potrebbero contribuire allo sviluppo del settore. L’Italia è il “paese della cultura diffusa”: basti pensare ai 51 siti Unesco presenti nel nostro Paese; il turismo culturale, dove l’Italia grazie al suo immenso patrimonio è fortemente competitiva, rappresenta oltre un terzo del turismo internazionale; le aziende culturali più efficienti (tra le quali il Piccolo Teatro di Milano, i Musei Civici di Venezia, il Palaexpo di Roma) sono riuscite, anche in tempi di crisi e di crollo delle risorse pubbliche e private, a mantenere un trend di tutto rispetto, salvaguardando la loro mission ed i livelli occupazionali.

Premesso dunque che un rilancio del settore è oggettivamente possibile, Grossi ha indicato le priorità necessarie per valorizzare le potenzialità esistenti. Si tratta di un complesso “mix” tra investimenti, scelte politiche e razionalizzazione dei processi gestionali, atto a spezzare un immobilismo di vent’anni. La parola d’ordine è “cultura della progettazione integrata”, perché solo il coordinamento e la messa in rete degli interventi potrà sortire i risultati sperati. Occorrono infrastrutture, qualità progettuale e capacità comunicative – ha concluso Grossi – ed ha lanciato, come contributo di Federculture, l’Atlante regionale della cultura, strumento di programmazione per valorizzare le attività culturali a livello territoriale.

Dario Franceschini, ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, il cui intervento ha caratterizzato la seconda parte del convegno, ha condiviso, a grandi linee, l’analisi di Grossi. “Se dovessi fare un elenco delle cose che non vanno – ha detto – servirebbe una giornata”. Naturalmente i problemi che il Governo si trova oggi di fronte, sono il risultato di errori pregressi ma, nonostante ciò, “l’inversione di tendenza è già iniziata”. Il problemi da affrontare sono soprattutto due: reperire risorse per finanziare la cultura (cosa non facile in tempi di crisi) e spezzare il vincolo perverso dei “lacci e lacciuoli” che bloccano ogni capacità di iniziativa. Per capire quanto tali meccanismi possano essere paralizzanti, il ministro ha citato un esempio: fino a non molto tempo fa i proventi generati dalla vendita dei biglietti dei musei confluivano in un unico fondo senza alcuna distinzione tra le gestioni di successo e quelle poco efficienti. Adesso invece, per iniziativa del Governo, i musei avranno autonomia delle risorse e potranno utilizzare per le loro attività i proventi dei biglietti venduti.

Bisogna uscire – ha spiegato inoltre Franceschini – dalla obsoleta contrapposizione fra tutela e valorizzazione del patrimonio, perché le due componenti sono tra loro profondamente connesse. Tra le aree prioritarie di intervento, Franceschini ha indicato la valorizzazione del turismo “minore”: quello orientato alle località meno note ma non per questo meno ricche di attrattive e di storia. “Stiamo cercando di recuperare il ritardo”, ha concluso il ministro: esistono dei punti positivi e bisogna guardare avanti.

Dal combinato disposto delle due relazioni descritte – quella del presidente Grossi e quella del ministro Franceschini – diverse tra loro ma convergenti per buona volontà e richiamo alla coesione sociale, pare d’intuire un significato di fondo: i numeri contano, ma a condizione che siano uno strumento interpretativo del reale e non una “armatura” vincolante che costringe il reale in un tunnel senza uscita. Un’antinomia che stiamo sperimentando in questi giorni nel corso delle drammatiche vicende che mettono a rischio il futuro dell’Europa unita.

 

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Massimo Nardi

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