Quel deficit di fraternità che non compare nelle statistiche

ROMA, sabato, 27 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito quasi per intero il discorso pronunciato dal Cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone in occasione dell’inaugurazione, il 23 novembre scorso, dell’anno accademico 2010-2011 della Pontificia Università Lateranense.

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L’odierno atto accademico è occasione per riflettere insieme con voi, illustri docenti e cari studenti, su come il munus petrino si realizza nell’esercizio di una potestà piena, suprema e universale anche in un contesto particolare come è la comunità dei popoli e delle nazioni. In proposito, il Papa Benedetto xvi, rivolgendosi nel 2008 ai delegati di 193 stati presenti all’Assemblea generale dell’Onu, così si esprimeva: «La Chiesa cattolica vuole concorrere con il proprio apporto ad edificare una dimensione delle relazioni internazionali nelle quali ogni persona ed ogni popolo si senta protagonista. La Chiesa opera inoltre per la realizzazione di tali obiettivi attraverso l’attività internazionale della Santa Sede, in modo coerente con il proprio contributo nella sfera etica e morale e con la libera attività dei propri fedeli».

La Santa Sede da sempre è parte del consesso delle nazioni e attraverso questa presenza manifesta il proprio carattere specifico di soggetto sovrano ed indipendente nell’ambito internazionale. Una partecipazione di cui si comprende immediatamente il significato e il valore quando si faccia riferimento ai rapporti diplomatici instaurati ormai con 178 Stati — da ultimo le relazioni con Botswana, Emirati Arabi Uniti e le piene relazioni diplomatiche con la Federazione di Russia.

Alla dimensione bilaterale si aggiunge la presenza nelle diverse organizzazioni intergovernative attraverso cui si concretizzano i processi di integrazione e di unità tra gli stati a livello universale o in una medesima area geopolitica. E qui gli esempi sono molteplici: dalle organizzazioni dell’area europea alla Lega degli Stati Arabi, all’Organizzazione degli Stati Americani, all’Unione Africana. Concorrono, poi, a dare fisionomia a questa soggettività gli accordi bilaterali con Stati ed entità internazionali — cito fra tutti l’Accordo di Base del 2000 con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) e quello concluso, lo stesso anno, con l’Organizzazione per l’Unità Africana, come pure l’adesione a numerosi trattati multilaterali che disciplinano i diversi settori delle relazioni internazionali, come l’ambiente, i diritti umani, il disarmo, le comunicazioni, le nuove tecnologie.

Tutto questo impegno, dinamico e variegato, trova un denominatore comune nel servizio alla causa della pace, della sicurezza, dello sviluppo e nella prospettiva di favorire un dialogo tra le diverse componenti della famiglia umana contribuendo così a colmare quel deficit di fraternità che Benedetto xvi indica come caratteristica dell’attuale momento della vita internazionale. Considerando gli aspetti più direttamente dottrinali, emerge come la collocazione della Santa Sede nella vita internazionale ha implicazioni non solo di ordine istituzionale e giuridico, ma anche di carattere politico, riferite cioè alla governabilità della comunità delle nazioni. Viene in mente il rapporto di reciprocità Chiesa-mondo che il Vaticano ii delinea per esprimere da un lato l’interesse della Chiesa e della sua missione per la comunità internazionale, dall’altro l’interesse che la comunità internazionale, i suoi membri e le sue istituzioni manifestano verso la missione della Chiesa che nel suo operare è ben cosciente che oggi questioni come la tutela del creato, la protezione della dignità umana e delle libertà, l’eliminazione della povertà non possono trovare risposte frammentate, ma hanno bisogno di unità di intenti e di azione perché i popoli e gli Stati si sentano veramente una «famiglia di nazioni».

L’ordinamento canonico, da parte sua, indica la Santa Sede come ente sovrano, e la configura come organo centrale del governo della Chiesa. È questo il senso del can. 361 del Codex Iuris Canonici (Cic) o del can. 48 del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium (Cceo), che la descrivono come l’ufficio del Romano Pontefice.

Una connotazione, come vedremo, accettata dall’ordinamento internazionale, per il quale la Santa Sede si pone come struttura centrale di una Comunità di credenti che vive con una dimensione spirituale propria e un assetto societario tra loro inscindibilmente connessi.

Quello del Successore di Pietro è dunque un servizio essenziale non solo nella realtà interna della Comunità ecclesiale, ma anche nell’azione esercitata nel particolare contesto del diritto internazionale i cui istituti giuridici e la prassi conseguente da sempre si intrecciano con la realtà dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Nel suo profilo societario la Chiesa Cattolica è una societas perfecta, espressione tradotta con il concetto di ordinamento giuridico primario e originario, che esprime non solo un’autonomia dei fini e dell’autorità rispetto a poteri esterni, ma anche una fisionomia istituzionale propria, strutturata sulla base delle sue regole giuridiche e, soprattutto, con a capo un segno visibile di unità.

La natura sovrana e indipendente, l’autonoma capacità e il potere di auto-organizzazione interni ed esterni sono le caratteristiche espresse nella Comunità delle Nazioni dalla Santa Sede quando agisce come soggetto dell’ordinamento internazionale e manifesta la capacità di compiere atti internazionalmente rilevanti, di relazionarsi con altri soggetti, di aderire alle norme pattizie o consuetudinarie e di essere destinataria dei principi generali e delle norme fondative di quell’ordinamento. E questo per ragioni di ordine giuridico, e non solo per motivi di carattere storico. Questi ultimi, pur importanti, non possono essere utilizzati per circoscrivere la presenza internazionale della Santa Sede al suo legame storico con gli Stati cristiani o al loro riconoscimento, come mostrano chiaramente i rapporti, non solo diplomatici, stabiliti dalla Sede Apostolica con Stati non cristiani, e come impone il principio di aconfessionalità che caratterizza il moderno diritto internazionale.

Sotto un altro profilo, poi, all’azione internazionale della Santa Sede va collegata anche la sovranità del Sommo Pontefice sullo Stato della Città del Vaticano. Lo ricordava nella sua visita all’Onu il Papa Paolo vi facendosi portatore in quell’occasione anche di un messaggio del concilio Vaticano ii in pieno svolgimento.

Una sovranità che l’ordinamento internazionale indica come strumento concorrente a garantire l’indipendenza della missione della Santa Sede nel mondo, ben sapendo, però, di non poter ridurre la sua soggettività ai confini di quel territorio. Si tratta di un’autorità che è prevista per le materie internazionali dalla legislazione vaticana e trova conferma nei numerosi accordi bilaterali e multilaterali conclusi dalla Santa Sede «a nome e per conto» della Città del Vaticano che ne evidenziano la funzione di strumento attraverso cui la Sede Apostolica si fa presente anche in aspetti particolarmente impegnativi per la vita internazionale. Penso alle Conferenze chiamate a definire le norme che regolamentano le nuove forme di comunicazione e dell’informazione con quel complesso e pur prezioso strumento che è la «rete»; o quelle in materia di sicurezza nelle diverse articolazioni che oggi interessano anche la Santa Sede dopo l’adesione ai sistemi integrati di controllo e cooperazione tra le forze di polizia dell’Interpol. Ma le regole, i fatti e la prassi annoverano la Santa Sede tra i membri dell’ordinamento internazionale non per la simbolica sovranità territoriale, ma perché del diritto delle genti essa recepisce i principi, applica le norme e, non dimentichiamolo, concorre con il suo apporto alla loro elaborazione e maturazione. Un aspetto quest’ultimo diventato particolarmente significativo nell’ultimo periodo, quando alle fonti tradizionali del diritto internazionale si è affiancata la normativa prodotta da Organizzazioni intergovernative o da Conferenze diplomatiche nelle quali la Santa Sede è presente e dà il suo apporto, vincolata solo al fine che le è proprio.

A volte tale presenza non ha un carattere formale, ma ne assume
un altro, altrettanto importante, che è di indirizzo, come è stata l’accoglienza riservata alla Lettera del Santo Padre inviata al recente incontro del G20 nella Repubblica di Corea per ricordare ai grandi della terra che «le soluzioni adottate funzioneranno solo se saranno tese allo stesso obiettivo: lo sviluppo integrale e autentico dell’uomo».

Presenza e accoglienza concorrono nell’elaborazione di risposte concrete alle materie trattate e mostrano che il fine «primariamente religioso» perseguito dalla Sede Apostolica anche nella sua attività internazionale non può essere invocato come limitativo o addirittura come incompatibile con la natura e il funzionamento dell’ordinamento internazionale.

La salus animarum e la libertas Ecclesiae sono, infatti, finalità coerenti e compatibili con una comunità internazionale in cui la pluralità di fini è evidente nella differente natura e funzione dei suoi membri. Quelle specifiche della Sede Apostolica sono finalità che, se tradotte nel linguaggio dell’ordinamento internazionale, vanno ricondotte a quella sfera del «dominio riservato» che ogni membro della Comunità delle Nazioni rivendica, indicando come inviolabili alcuni ambiti ed espressioni del proprio ordinamento giuridico.

Quando il 3 dicembre del 2008 a Oslo la Santa Sede, dopo aver contribuito direttamente alla sua stesura, firmava e contemporaneamente ratificava la Convezione sulle bombe a grappolo, confermava che la sua soggettività internazionale non era limitata, dimostrando così che pure le finalità «primariamente religiose» sono concorrenti a elaborare e applicare la normativa internazionale sul disarmo, quando questa ha per obiettivo la difesa della causa dell’uomo, la concordia e la fraternità tra i popoli. Più ampie sono le considerazioni che possono farsi per l’azione della diplomazia pontificia che, pur mostrando da sempre una diversità di fini rispetto a quelli in genere espressi dagli altri membri della società mondiale, opera mediante le regole che della Comunità internazionale sono proprie. La Santa Sede, cioè, non agisce con procedure extra ordinem, trattamenti privilegiati o regole ad hoc — come anche certi ambienti, pur qualificati, vorrebbero sostenere — bensì attraverso le norme vigenti nell’ordinamento internazionale e accettate dai suoi soggetti. È quanto dimostrano i canoni 362 e 365 del Cic relativamente al rispetto del diritto diplomatico da parte del Romano Pontefice quanto alla nomina, richiamo, e trasferimento dei suoi rappresentanti, e alla regolamentazione della loro funzione operata dal diritto internazionale.

Questi due canoni, inoltre, sono l’esempio dell’avvenuto adattamento delle norme internazionali contenute nelle Convenzioni di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche e del 1963 sulle relazioni consolari, della cui redazione la Santa Sede è stata artefice per poi diventarne parte, rispettivamente il 17 aprile 1964 e l’8 ottobre 1970. Proprio in quegli atti nel corso dei negoziati la Sede Apostolica riversò l’esperienza plurisecolare della sua diplomazia dando collocazione nel diritto internazionale alla figura del Nunzio Apostolico, o al diritto di decananza del Corpo diplomatico riconosciutole oggi da una larga maggioranza di Stati.

Questo atteggiamento rispettoso e coerente verso il diritto internazionale credo sia un elemento essenziale che è necessario sottolineare quando, senza pregiudizio alcuno, si vuole individuare la finalità dell’attività internazionale della Santa Sede nelle necessità inerenti alla Chiesa, ad intra e ad extra: da un lato l’esigenza di «comunione» delle Chiese particolari con il munus petrino, dall’altra il rapporto con l’autorità civile, sia essa quella statale o delle Istituzioni intergovernative. Infatti, sono proprio queste due necessità che trovano un diretto collegamento con la normativa internazionale, come ben evidenziano gli accordi concordatari o la presenza nelle organizzazioni intergovernative, non solo in prospettiva storica, ma come dato rilevabile nelle situazioni e nelle dinamiche di una comunità internazionale sempre più ampia e globale.

Frutto recente di questa azione sono gli accordi bilaterali stipulati con Andorra (17 marzo 2008), dopo la riforma costituzionale ed istituzionale del Paese; con il Brasile (13 novembre 2008) circa lo status giuridico della Chiesa cattolica, delle sue istituzioni ed attività; con la Francia (18 dicembre 2008) sul riconoscimento dei titoli di studio delle università e facoltà istituite dalla Santa Sede; con il Land tedesco Schleswig-Holstein (12 gennaio 2009) che più direttamente riprende la materia tipica dei concordati.

In anni recenti, poi, la Santa Sede è stata attenta nel seguire quella che viene generalmente indicata come «modifica strutturale» delle relazioni internazionali. Mi riferisco a quell’articolato fenomeno determinatosi nell’ordinamento internazionale che, pur mantenendo salda la propria natura, si è dotato di un profilo normativo e istituzionale per cercare di fornire le necessarie risposte a un diverso modo di intendere la pace, la sicurezza, i conflitti, lo sviluppo e, non ultimo, la tutela dei diritti umani fondamentali.

Tutto questo, ad esempio, ha coinciso con una trasformazione dell’attività diplomatica. Basti pensare alla diplomazia multilaterale che è andata sempre più crescendo, non solamente dal punto di vista quantitativo (diventa difficile solo tenere il conto delle riunioni presso le varie istituzioni intergovernative), ma anche nei contenuti, quasi presentandosi come veicolo di una «nuova cultura» dei rapporti internazionali. Una cultura di fronte alla quale è possibile, e direi necessario, fare apprezzamenti positivi e negativi, ma che sicuramente non può essere ignorata poiché condiziona non solo il sistema delle relazioni internazionali, ma perfino la dimensione dell’esistenza di persone, comunità e popoli.

Di fronte agli avvenuti mutamenti possiamo rilevare la continuità di presenza e di apporto, anche critico, della Santa Sede che, identificato il nuovo delle relazioni internazionali, opera non per imporre, ma per proporre i necessari accorgimenti affinché l’ordine internazionale sia veramente a servizio della persona umana: essa domanda non solo risposte alle esigenze materiali, ma anche tutela per legittime aspirazioni di carattere spirituale e trascendente. Lo testimonia la partecipazione ai vertici convocati per adottare norme e strategie che sono richieste da un cambiamento sempre più repentino delle condizioni di vita della famiglia umana, come è stato nel settembre scorso a New York in occasione dell’incontro ad alto livello dell’Onu sugli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. La Santa Sede non ha mancato di indicare che i mutamenti climatici, la desertificazione, la scomparsa delle biodiversità, le nuove frontiere delle biotecnologie vanno affrontati con decisione e coerenza per garantire la crescita di popoli e regioni dove maggiormente si manifestano il sottosviluppo, la povertà e la fame. Guardando alle principali sfide dell’oggi, il pensiero va all’importanza che la comunità internazionale attribuisce ai diritti umani, affidando alle sue istituzioni compiti propositivi e di controllo, che rischiano però di risolversi in una visione pragmatica, quando si dimentica che i diritti discendono dalla dignità comune a ogni essere umano. Un profilo verso il quale la Santa Sede è attenta, partecipando, per esempio, a Ginevra ai lavori del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu o con l’adesione alle Convenzioni per la tutela dei diritti fondamentali. Ricordo qui quella sui diritti del fanciullo, di cui sono stati appena celebrati i 20 anni dall’entrata in vigore, e che vede la Santa Sede tra i suoi primi sostenitori in nome dell’interesse superiore del fanciullo, principio che trova nel magistero della Chiesa piena e responsabile accoglienza.

Si tratta di un impegno costante perché rivendicazioni, proposte o normative non si riducano alla domanda di diritti verso ogni direzione, co
nfondendoli con semplici e spesso limitati bisogni che li rendono privi della necessaria efficacia. Le istanze internazionali, invece, se permeate da un vero slancio verso l’uomo e da una solidarietà operante, possono diventare un moderno areopago da cui diffondere concezioni della persona e delle sue libertà non relative o addirittura poste a negare il senso di umanità, come è stato proprio di recente all’Onu con l’ennesimo tentativo di legare al linguaggio ed all’ambito dei diritti fondamentali, l’aborto o i cosiddetti servizi di «salute riproduttiva».

Garantire e rispettare i diritti fondamentali è un modo concreto attraverso cui contrastare le forme, differenti e diffuse, di abbandono dei cardini di ordine morale nei rapporti sociali, dalla dimensione interpersonale sino a quella delle relazioni internazionali. Infatti, è sempre più difficile prevedere un’efficace e universale tutela dei diritti senza un collegamento a quella legge naturale che feconda i diritti medesimi ed è l’antitesi di quel degrado che in tante nostre società ha interesse a mettere in discussione l’etica della vita e della procreazione, il matrimonio e la vita familiare, l’educazione e la formazione delle giovani generazioni, come pure la solidarietà e lo sviluppo integrale introducendo unicamente una visione individualistica ed utilitaristica.

La legge naturale, invece, consente di trovare una radice comune e di dialogare anche in presenza di posizioni che pur avendo un diverso fondamento etico non sono disposte a cedere di fronte all’abbandono di quella verità che è comune al genere umano. Tra i diritti, poi, un’attenzione particolare va rivolta alla libertà religiosa, di cui l’ordinamento internazionale ha reso espliciti contenuti e limiti, prevedendo altresì le situazioni che a tale libertà sono connesse. Anche recentemente, esprimendosi nel Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra o nel contesto della Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) a Vienna, la Santa Sede ha sostenuto che quel diritto non è il contenuto intrinseco di una determinata fede religiosa, ma l’immunità dalla coercizione, quasi una zona di sicurezza in grado di garantire l’inviolabilità di uno spazio umano nel quale il credente e la comunità in cui egli esprime la propria fede sono liberi di agire, senza pressioni esterne di singoli, di gruppi sociali o di qualsivoglia autorità. Una posizione che, come ha sottolineato la diplomazia pontificia nelle sedi delle Nazioni Unite di New York e di Ginevra, ha acquistato ulteriore validità nell’ultimo periodo di fronte alle palesi e drammatiche negazioni della libertà religiosa e ad una vera intolleranza verso i cristiani in diversi Paesi dell’Asia e dell’Africa dove si è giunti persino alla loro eliminazione fisica.

La medesima intolleranza che, come ha sottolineato il recente Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, costringe antiche comunità cristiane ad abbandonare le terre di origine per continuare a vivere e a testimoniare la propria fede.

Il fatto religioso ha un’influenza diretta nello svolgersi della vita interna degli Stati, della comunità internazionale e delle sue istituzioni e non va confuso con atteggiamenti discriminatori o con l’uso della violenza. Penso ad esempio al continente europeo il cui processo di integrazione mostra indicazioni e tendenze che vogliono escludere la religione dalla possibilità di concorrere alla costruzione dell’ordine sociale, pur nel pieno rispetto del pluralismo che contraddistingue le società contemporanee. La scelta religiosa non è limitata alla sola libertà di culto, né relegata alla sfera privata o confusa con forme indistinte di spiritualità e accomunata alle pratiche ed ai saperi tradizionali dai quali non è estranea una visione sincretista. A sostituirla, inoltre, non può essere un imprecisato «diritto alla tolleranza» poiché la libertà religiosa ha segnato il superamento della tolleranza religiosa che esprimeva una visione relativa della verità ed un individualismo senza limiti.

Permettetemi in proposito un ricordo personale. Nel 1990, docente in questa università, venni incaricato dall’allora Segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, di rappresentare stabilmente la Santa Sede alla Commissione Europea per la Democrazia attraverso il Diritto, istituita dal Consiglio d’Europa a Venezia per rielaborare le costituzioni dei Paesi dell’Europa centro-orientale dopo il «crollo del muro».

Fu un’esperienza significativa vedere come i rappresentanti di Paesi la cui storia recente aveva tralasciato ogni positiva valutazione per il fenomeno religioso erano ansiosi di inserire nella loro nuova Carta costituzionale articoli che indicavano la libertà religiosa come diritto essenziale, se non addirittura fondativo di ogni altro diritto. Mi sia consentito di concludere queste brevi annotazioni con un auspicio di ordine pratico, che oserei definire programmatico per l’università del Papa.

È evidente, come dicevo poc’anzi, che i meccanismi e le istituzioni che operano nelle relazioni internazionali concorrono a elaborare una cultura che poi si fa strada e si sedimenta nella nostra quotidianità, magari passando attraverso la prassi e la legislazione degli Stati, i processi educativi e gli obiettivi della formazione.

Una cultura che la Santa Sede, più degli Stati e a differenza degli Stati, valuta per cogliere ciò che è coerente al bene comune della famiglia umana e quanto è invece frutto di interessi molto particolari, spesso minoritari, che vogliono raggiungere obiettivi determinati modificando la tradizionale impostazione delle relazioni internazionali ed i contenuti del diritto delle genti. La Sede Apostolica nel suo agire nella comunità dei popoli è impegnata in un discernimento attento a cui affianca un apporto conseguente che non è di natura politica, ma è finalizzato ad orientare mediante richiami etici e principi di giustizia e di solidarietà anche le scelte con spiccato contenuto tecnico o specializzato.

Questo perché la Chiesa, fedele all’insegnamento del suo Fondatore, considera con grande rispetto quanto di vero, buono e bello si trova nella comunità degli uomini, ma non può mancare a quel dovere di annunciare il vero senso della libertà, coniugando principi immutabili alle esigenze attuali e offrendo indicazioni e norme antropologicamente ed eticamente fondate, in grado di rispondere ai bisogni umani più profondi.

Il mio auspicio è che voi, docenti e studenti dell’Università Lateranense, attraverso lo studio, la ricerca e la formazione possiate concorrere nel dare sostegno e ulteriore concretezza a questa particolare missione, che il Successore di Pietro svolge a servizio dell’intera famiglia umana.

[L’OSSERVATORE ROMANO – Edizione quotidiana – del 24 novembre 2010]

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ZENIT Staff

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