Quando infuria la tempesta, rinnoviamo il nostro «sì» a Dio

Un commento all’udienza generale del Papa di mercoledì 30 maggio

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di Massimo Introvigne

<p>ROMA, giovedì, 31 maggio 2012 (ZENIT.org).- Nell’udienza del 30 maggio Benedetto XVI ha proseguito la sua «scuola della preghiera» dedicata alle lettere di san Paolo con una catechesi sulla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui sono spesso risuonati riferimenti alla «tempesta» che oggi sembra scuotere anche la Chiesa.

San Paolo, spiega il Papa, «invia questa appassionata Lettera a una Chiesa che più volte ha messo in discussione il suo apostolato, ed egli apre il suo cuore perché i destinatari siano rassicurati sulla sua fedeltà a Cristo e al Vangelo». Eppure san Paolo non si lamenta, anzi questa lettera «inizia con una delle preghiere di benedizione più alte del Nuovo Testamento», dove l’Apostolo esclama: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2Cor 1,3-4).

Ecco dunque il punto di partenza: «Paolo vive in grande tribolazione, sono molte le difficoltà e le afflizioni che ha dovuto attraversare, ma non ha mai ceduto allo scoraggiamento, sorretto dalla grazia e dalla vicinanza del Signore». Può dunque iniziare la sua lettera con una benedizione, perché «non c’è stato alcun momento della sua vita di apostolo di Cristo in cui abbia sentito venir meno il sostegno del Padre misericordioso». Ha sofferto, ma ha sempre sentito il Signore vicino. «Ha subito anche persecuzioni, fino ad essere rinchiuso in carcere, ma si è sentito sempre interiormente libero, animato dalla presenza di Cristo e desideroso di annunciare la parola di speranza del Vangelo». Dal carcere così scriveva infatti al collaboratoreTimoteo: «la Parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, affinché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo, insieme alla gloria eterna» (2Tm 2,9b-10). E ai Corinzi confida: «come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così per mezzo di Cristo, abbonda la nostra consolazione» (2Cor 1,5).

C’è qui una mirabile dialettica fra afflizioni e consolazione, quest’ultima «da non intendersi solo come semplice conforto, ma soprattutto come incoraggiamento ed esortazione a non lasciarsi vincere dalla tribolazione e dalle difficoltà. L’invito è a vivere ogni situazione uniti a Cristo, che carica su di sé tutta la sofferenza e il peccato del mondo per portare luce, speranza, redenzione». Ma c’è di più. Consolati da Cristo nella tribolazione, diventiamo «capaci di consolare a nostra volta quelli che si trovano in ogni genere di afflizione» e di avvertire i loro problemi come se fossero nostri: «Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non frema?» (2Cor 11,29).

Come in altre catechesi, Benedetto XVI mette in guardia dal confondere la carità che nasce dalla fede in Dio con il semplice umanitarismo. In san Paolo la «condivisione non nasce da una semplice benevolenza, né solo dalla generosità umana o dallo spirito di altruismo, bensì scaturisce dalla consolazione del Signore, dal sostegno incrollabile della “straordinaria potenza che viene da Dio e non da noi” (2Cor 4,7)».

Con un occhio appunto anche ai problemi vaticani di questi giorni, del resto esplicitamente evocati nei saluti finali, il Papa ricorda che «la nostra vita e il nostro cammino sono segnati spesso da difficoltà, da incomprensioni, da sofferenze. Tutti lo sappiamo». Ma appunto san Paolo c’insegna che «nel rapporto fedele con il Signore, nella preghiera costante, quotidiana, possiamo anche noi, concretamente, sentire la consolazione che viene da Dio».

Scrive ancora san Paolo: «Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunziato tra voi, io, Silvano e Timoteo, non fu “sì” e “no”, ma in lui ci fu il “sì”. Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono “sì”. Per questo per mezzo di lui sale a Dio il nostro “amen”, per la sua gloria» (2Cor 1,19-20). «Il “sì” di Dio – commenta il Papa – non è dimezzato, non va tra “sì” e “no”, ma è un semplice e sicuro “sì”. E a questo “sì” noi rispondiamo con il nostro “sì”,, con il nostro “amen” e così siamo sicuri nel «”sì” di Dio».Non solo la carità è cosa diversa dall’umanitarismo in quanto radicata nella fede. Ma a sua volta «la fede non è primariamente azione umana, ma dono gratuito di Dio, che si radica nella sua fedeltà, nel suo “sì”».

Di nuovo forse con qualche riferimento a difficoltà nella Chiesa , Benedetto XVI osserva che «il modo di agire di Dio – ben diverso dal nostro – ci dà consolazione, forza e speranza perché Dio non ritira il suo “sì”. Di fronte ai contrasti nelle relazioni umane, spesso anche familiari, noi siamo portati a non perseverare nell’amore gratuito, che costa impegno e sacrificio. Invece, Dio non si stanca con noi, non si stanca mai di avere pazienza con noi e con la sua immensa misericordia ci precede sempre, ci viene incontro per primo, è assolutamente affidabile questo suo “sì”». È così che Dio «ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2Cor 1,21b-22).

Qui sembra che improvvisamente san Paolo si metta a parlare dello Spirito Santo. Ma in realtà l’Apostolo non sta cambiando discorso. «È infatti lo Spirito Santo che rende continuamente presente e vivo il “sì” di Dio in Gesù Cristo e crea nel nostro cuore il desiderio di seguirlo per entrare totalmente, un giorno, nel suo amore, quando riceveremo una dimora non costruita da mani umane nei cieli. Non c’è persona che non sia raggiunta e interpellata da questo amore fedele, capace di attendere anche quanti continuano a rispondere con il “no” del rifiuto o dell’indurimento del cuore. Dio ci aspetta, ci cerca sempre».

San Paolo vuole anche mostrare agli irrequieti Corinzi che l’«amen» che risponde in modo adeguato al «sì» di Dio non è l’affermazione isolata di una fede individuale, ma è sempre «l'”amen” della Chiesa», un’affermazione profondamente liturgica. Noi oggi spesso «rispondiamo per abitudine col nostro “amen”  nella preghiera, senza coglierne il significato profondo.

Questo termine deriva da ’aman che, in ebraico e in aramaico, significa “rendere stabile”, “consolidare” e, di conseguenza, “essere certo”, “dire la verità”». Nella Scrittura spesso viene alla fine dei Salmi, o in momenti particolarmente solenni della storia d’Israele. Il primo capitolo del più liturgico dei libri della Bibbia, l’Apocalisse, si apre con un «amen»: «A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza, nei secoli dei secoli. Amen» (Ap 1,5b-6). E con un «amen» l’Apocalisse si chiude: «Amen, vieni, Signore Gesù» (Ap 22,21).
«In mezzo alle tempeste della vita» l’«amen» è la roccia solida su cui fermarsi e fare fronte al vento e al mare, proprio perché non si riduce a un’adesione superficiale o sentimentale, ma esprime la fedeltà a una dottrina di cui siamo certi.

Nello stesso tempo, sappiamo che «questa fedeltà non la possiamo mai conquistare con le nostre forze, non è solo frutto del nostro impegno quotidiano; essa viene da Dio ed è fondata sul “sì” di Cristo». E, quanto a noi, «è in questo “sì” che dobbiamo entrare, entrare in questo “sì” di Cristo, nell’adesione alla volontà di Dio, per giungere con san Paolo ad affermare che non siamo noi a vivere, ma è Cristo stesso che vive in noi. Allora l’”amen” della nostra preghiera personale e comunitaria avvolgerà e trasformerà tutta la nostra vita, una vita di consolazione di Dio, una vita immersa nell’Amore eterno e incrollabile». Nonostante le tempeste, che talora toccano anche la Chiesa.

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ZENIT Staff

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