Pupi Avati

Pupi Avati nel 1993 - Wikipedia Commons

Pupi Avati: il '68, il relativismo e quella tv che rifiuta le radici cristiane…

Il celebre regista bolognese analizza come lo schermo riflette la crisi della famiglia, dovuta a cambiamenti sociali ammantati di libertà che hanno stravolto i costumi e reso le persone più infelici

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Anni fa il noto regista Pupi Avati si recò negli uffici di Rai Fiction per proporre una pellicola che raccontasse la bellezza del matrimonio. Eloquente la risposta che gli diede l’allora direttore Agostino Saccà: “Vorrebbe dunque fare un film in costume?”.
Questa prima reazione condensa tutto il clima di sfiducia del mondo televisivo che è andato crescendo nel corso degli anni – e che si riflette sulle tendenze sociali – nei confronti dell’istituto familiare.
A testimoniarlo è oggi la gran parte dei palinsesti offerti: dai talk show pomeridiani alle serie tv, un tema ricorrente è quello di relazioni sociali d’ogni sorta, ancorché slegate da vincoli ed omosessuali, che assurgono sovente al rango di famiglia declinata al plurale. Il virus del relativismo ha infettato anche il tubo catodico.
Di questo avviso è lo stesso Pupi Avati. Intervistato da ZENIT, il regista bolognese, 78 anni di cui 46 passati dietro la macchina da presa, parla della diffidenza che cova il suo mondo, quello del cinema, nei confronti di chi, come lui, osa tenere alta la bandiera dei valori tradizionali.
Valori anticonformisti, osteggiati da critica à la page e media di massa, benché premiati dal pubblico. La sua opera “Un matrimonio”, infatti, alla fine Pupi Avati è riuscito a portarla sugli schermi, nel 2014. E questa storia di due sposi e la loro famiglia negli anni del dopoguerra ha riscosso notevole successo: seguita da quasi cinque milioni di italiani, ha regalato un alto indice d’ascolti alla Rai.
La logica avrebbe suggerito ai vertici aziendali di appoggiare la proposta di Avati a mandare in onda un sequel. Ma così non è stato. La testimonianza della bellezza familiare è stata strozzata proprio sul più bello.
Ecco allora che quella testimonianza, la sua personale, Pupi Avati la va oggi ad offrire nelle scuole. Insieme all’associazione Non si tocca la famiglia, il regista parteciperà a dei cineforum con gli studenti che abbiano a tema proprio la famiglia.
***
Maestro, parlerà ai giovani di un concetto, la famiglia, che sembra ormai fuori moda…
E lo farò avendo un certo bagaglio d’esperienza. Sono sposato da 52 anni e credo di avere la competenza in materia per spiegare cos’è un matrimonio. Lei dice che la famiglia sembra ormai fuori moda. Il punto è che di questo tema ne parla un sacco di gente che non ha una conoscenza reale della famiglia. È per questo che ne scaturisce un’idea sbagliata. Come si può contestare qualcosa che non si conosce concretamente?
E Lei che un lungo matrimonio lo ha sperimentato e lo sperimenta cosa può dirci al riguardo?
Con 52 anni di matrimonio alle spalle, so bene bene quanto sia difficile ma altrettanto appagante questo tipo di percorso. Invecchiare al fianco di una persona che ti conosce come nessun altro al mondo è un’opportunità grandiosa. Definisco mia moglie il “mio hard disk personale”, lei ha conosciuto tutte le mie fasi: la mia maturazione, il mio invecchiamento, conosce tutti i miei pregi e i miei difetti. È diventata una parte ineludibile della mia vicenda umana. Ma la nostra esperienza è passata anche attraverso momenti dolorosi: litigi, cadute, ripensamenti. Anche questi servono a temprare il rapporto. Ed è poi fondamentale il rapporto coi figli…
Che ruolo assumono i figli in una coppia di genitori?
Rappresentano anzitutto una responsabilità. Dinanzi a loro, non possiamo far prevalere i nostri egoismi. Un genitore che abbandona la famiglia ferisce i propri figli. Essi hanno un solo diritto: avere un padre e una madre. E anche dei fratelli e delle sorelle. Oggi in Italia il calo demografico è pauroso. Molte coppie fanno un solo figlio, privando così questi bambini di figure di riferimento parentali che sono fondamentali nel percorso di crescita.
Secondo l’Istat nel 2031, se la tendenza rimane questa, non ci saranno più matrimoni religiosi. In questo contesto quanto è importante parlare della bellezza del matrimonio e della famiglia attraverso la tv, un mezzo che arriva a moltitudini di persone?
Sarebbe importante se te lo facessero fare. La mia serie tv “Un matrimonio”, malgrado abbia avuto un grande successo in termini di ascolti, ha avuto una tiepidissima accoglienza da parte dei media e la Rai non mi ha fatto fare il seguito. C’è ormai una moda che relativizza tutto e che fa passare per antiquato chi, come me, racconta la storia di un matrimonio durato oltre cinquant’anni. Quando proposi per la prima volta Un matrimonio a Saccà, in Rai, lui pensava si trattasse di un’opera in costume, di un film sul medioevo… C’è un pregiudizio condizionato da una sorta di “proselitismo laico”, che mette sullo stesso piano concezioni etiche opposte.
La “dittatura del relativismo” di cui parlava Benedetto XVI si è imposta anche in tv…
È proprio così. Faceva bene il Papa a sottolineare questo aspetto. Il proprio io, le proprie voglie sono diventati la misura ultima dell’agire umano. È così che nasce una morale prêt-àporter, per cui ognuno è libero di giustificarsi e di auto-assolversi secondo la propria discrezione. Di questa cultura è ormai intrisa anche la tv.
Una cultura che mette al centro il proprio io è inconciliabile con la famiglia…
Io ho avuto l’enorme fortuna di avere al mio fianco una donna che ha dedicato la sua vita al ruolo di mamma. Lei ha deciso di rinunciare a una buona parte di sé stessa per occuparsi interamente dei nostri tre figli. Questo è stato uno degli elementi vincenti del nostro matrimonio. Senza rinuncia, non si ottiene nulla. Il problema è che ormai in pochi sono disposti ad affrontare questo tipo di sacrificio.
Da osservatore dei cambiamenti sociali avvenuti nel nostro Paese, ritiene che ci siano stati degli avvenimenti storici che hanno condizionato in negativo l’idea di famiglia?
C’è stato un punto di svolta: il ’68. Avvenne un grandissimo stravolgimento della società italiana. Se i giovani fino a quel momento erano subordinati alle loro relazioni familiari, improvvisamente quel legame fu tagliato sull’altare di un concetto anarchico, egoistico di libertà. Tanto è vero che io, all’epoca trentenne e affascinato da quel clima, mi diedi al cinema con la supponenza di fare qualcosa che non sapevo fare. Ma la sfida era proprio quella: il ’68 legittimava tutto, la “fantasia al potere”… Pensi che io ho finito per realizzare dei film in quegli anni che erano talmente provocatori, talmente contro la morale corrente, per cui riuscii a svuotare le sale cinematografiche. In quel contesto così irrequieto non ci accorgemmo che stavamo facendo una catastrofe. Mettemmo in dubbio ogni verità e ogni istituzione, famiglia e matrimonio compresi. Il risultato fu una generazione di infelici, perché vissuti nell’illusione di essere al centro delle attenzioni del mondo. In realtà questi giovani, privati per giunta di vincoli affettivi, divennero soltanto l’oggetto delle attenzioni del mercato. Il ’68 produsse una generazione di consumatori omologati.
La cultura sessantottina ancora occupa la tv italiana?
Certo. I messaggi che passano attraverso gran parte dei programmi tv parlano di un’affettività che non ha niente a che fare con la responsabilità. Invece, la bellezza del rapporto consiste proprio nella capacità di superare assieme, un uomo e una donna che si amano, le difficoltà.
Tutto è perduto oppure è ancora possibile diffondere valori attraverso la tv?
Io sto cercando di realizzare cinque film per la Rai che prendono spunto dalle beatitudini che elenca Gesù nel Discorso della Montagna. Non può immaginare quante difficoltà sto incontrando. C’è un paradosso: da un lato assistiamo a un rispetto ossequioso di ogni forma di religione esotica, dall’altro rinneghiamo le nostre radici cristiane. Temo che la voce della Chiesa, che non è più neanche così sollecita come lo era un tempo, sia destinata a rimaner relegata in qualche trasmissione domenicale.

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Federico Cenci

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