Processioni nuziali

Cosa si intende con “consuetudini locali”?

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Nella sua consueta rubrica di liturgia, che dopo la pausa estiva riprende oggi, padre Edward McNamara, risponde ad una questione presentata da un lettore statunitense.

Durante la processione d’ingresso di un matrimonio celebrato negli Stati Uniti sia la sposa che lo sposo devono essere accompagnati dai genitori? Nel Rito del Matrimonio si legge infatti al n° 46: “Si svolge quindi la processione all’altare: precedono i ministranti, segue il sacerdote, quindi gli sposi. Questi, secondo le consuetudini locali, possono essere accompagnati dai genitori e dai testimoni al luogo preparato per loro”. In questa rubrica, a che cosa si riferisce esattamente il termine “consuetudini locali”? Alle usanze nella parrocchia o piuttosto alle consuetudini della Conferenza episcopale per la quale il rito del matrimonio è stato autorizzato? — A.M., Danville, Virginia (USA)

Per quanto riguarda il termine “consuetudine”, il Diritto canonico afferma:

“Can. 23 – Ha forza di legge soltanto quella consuetudine, introdotta dalla comunità dei fedeli, che sia stata approvata dal legislatore, a norma dei canoni che seguono.

“Can. 24 – §1. Nessuna consuetudine, che sia contraria al diritto divino, può ottenere forza di legge.

“§2. Né può ottenere forza di legge la consuetudine contro o fuori del diritto canonico, che non sia razionale; ora la consuetudine che è espressamente riprovata nel diritto, non è razionale.

“Can. 25 – Nessuna consuetudine ottiene forza di legge, se non sarà stata osservata da una comunità capace almeno di ricevere una legge, con l’intenzione di introdurre un diritto.

“Can. 26 – A meno che non sia stata approvata in modo speciale dal legislatore competente, una consuetudine contraria al diritto canonico vigente o che è al di fuori della legge canonica, ottiene forza di legge soltanto, se sarà stata osservata legittimamente per trenta anni continui e completi; ma contro una legge canonica che contenga la clausola che proibisce le consuetudini future, può prevalere la sola consuetudine centenaria o immemorabile.

“Can. 27 – La consuetudine è ottima interprete delle leggi.

“Can. 28 – Fermo restando il disposto del can. 5, la consuetudine, sia contro sia al di fuori della legge, è revocata per mezzo di una consuetudine o di una legge contraria; ma, se non se ne fa espressa menzione, la legge non revoca le consuetudini centenarie o immemorabili, né la legge universale revoca le consuetudini particolari”.

Anche se in questa sede non c’è lo spazio per scendere nei particolari del diritto canonico, possiamo comunque dare alcuni esempi di comunità che possono stabilire “consuetudine”: Chiese nazionali e locali, istituti di vita consacrata e le loro province, prelature personali, parrocchie, associazioni pubbliche e associazioni private che hanno ottenuto personalità giuridica, case religiose formalmente istituite, seminari, ecc. Perciò una “consuetudine locale” potrebbe anche essere quella di una singola parrocchia.

Le traduzioni in inglese non sempre distinguono chiaramente tra ius (diritto, insieme di leggi, giustizia) e lex (legge, disposizione legislativa, normativa). A rigor di termini, una comunità non può introdurre una legge visto che questo è la prerogativa di un’autorità legislativa. Essa può solo introdurre delle norme che potrebbero sì o no avere forza di legge.

I canonisti, perciò, a volte distinguono tra una consuetudine legale, che i fedeli normalmente sono obbligati a seguire, e una consuetudine di fatto che non ha forza di legge.

A causa della regola dei 30 anni, menzionata nel Can. 26 per costituire una consuetudine, nel 2013 alcuni vescovi hanno emesso dei decreti generali, abolendo tutte quelle pratiche che non erano conformi al diritto liturgico e canonico. Si è trattata di una mossa preventiva, dato che stava per concludersi il periodo di 30 anni dalla promulgazione del Codice di Diritto Canonico (25 gennaio 1983). In questo modo i vescovi hanno evitato che alcune pratiche abusive potessero rivendicare lo status di legittima consuetudine.

In modo simile la Santa Sede ha riprovato espressamente alcuni abusi liturgici, eliminando in questo modo nuovamente la possibilità che essi potessero pretendere di essere legittima consuetudine dal momento che nessuna pratica riprovata non potrà mai entrare a far parte di questa categoria.

La rubrica riguardante la coppia che partecipa alla processione d’ingresso è stata introdotta la prima volta nel 1970. Il matrimonio è proprio una di quelle materie in cui la Santa Sede offre ampia libertà ai vescovi nazionali per stabilire riti che rispecchiano le tradizioni locali e sono compatibili con l’autentica dottrina e pratica cristiana. In Paesi multiculturali, i vescovi, a loro volta, di solito prevedono la possibilità di ricorrere a varie tradizioni.

Bisogna ammettere, tuttavia, che in alcuni luoghi ci è voluto tempo prima che la formula in cui il sacerdote cammina verso l’altare assieme agli sposi all’inizio della Messa venisse accettata e tuttora non è prassi universale.

Questa forma del rito sottolinea la libertà della coppia nel concludere la loro alleanza coniugale, il fatto che si tratta di una celebrazione religiosa e che gli sposi stessi sono i ministri di questo sacramento.

Si distanzia anche da quelle espressioni rituali che potrebbero suggerire tradizioni matrimoniali non più presenti nella società occidentale e che risalgono a tempi in cui una sposa veniva in qualche modo consegnata allo sposo dai suoi genitori o scambiata per una compensazione al momento del matrimonio.

Tuttavia, anche quando usanze come la dote muoiono, le loro espressioni rituali vengono spesso reinterpretate sotto una nuova luce, più positiva. Così la presenza dei genitori degli sposi, e non solo del padre della sposa, può simboleggiare il fatto che il sacramento unisce due famiglie e forma una nuova.

Questa reinterpretazione avviene anche senza cambiare i riti. Il persistere dell’usanza del padre che accompagna la sposa all’altare dove la affida allo sposo si spiega probabilmente con il fatto che oggi nessuno la associa ad uno scambio di proprietà. Nella mentalità comune di oggi questa usanza ha acquisito un significato diverso e più profondo, e soltanto gli storici conoscono le sue origini.

La sopravvivenza di questa usanza è probabilmente l’esempio di una consuetudine locale molto diffusa al di là della legge e non, in senso stretto, contraria alla legge. In questo caso, tuttavia, si tratta di diritto liturgico e non canonico. Non sarebbe una consuetudine legale, dato che il rito più recente è sempre valido e nessuno è obbligato a seguire la prassi più antica o addirittura a tenere una processione introitale.

Nel caso del matrimonio, ci possono essere anche altre consuetudini legittime, fortemente radicate in una particolare tradizione etnica molto diffusa in una diocesi o parrocchia. Anche se non è una questione di diritto, penso che molti sacerdoti abbiano sperimentato quanto sensibili possono essere celebrazioni matrimoniali. Servono sia tatto che fermezza per accettare ciò che può essere accettato e per spiegare perché alcuni elementi non sono ammessibili.

***

I lettori possono inviare domande all’indirizzo <a href=”mailto:liturgia.zenit@zenit.org”>liturgia.zenit@zenit.org. Si chiede gentilmente di menzionare la parola “Liturgia” nel campo dell’oggetto. Il testo dovrebbe includere le iniziali, il nome della città e stato, provincia o nazione. Padre McNamara potrà rispondere solo ad una piccola selezione delle numerosissime domande che ci pervengono.

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Fr. Edward McNamara

Padre Edward McNamara, L.C., è professore di Teologia e direttore spirituale

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